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Una intelligente e necessaria provocazione
Alberto Biuso
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«Siete tutti d'accordo. Ci volete schiacciare» (Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967, p. 64). La Scuola di Barbiana vive del «sogno d'una lingua che possa essere letta da tutti, fatta di parole d'ogni giorno» (p. 133), la lingua che di lì a poco avrebbe cominciato a trionfare negli slogan urlati in piazza, per trasferirsi -pronunciata dagli stessi individui- nel trionfo delle televisioni, a cominciare da quelle di Berlusconi, dove tutti parlano con grande chiarezza, con una lingua tanto più semplice quanto più deve farsi veicolo di vendita, dove il modello della semplicità che da tutti si fa capire, che nessuno esclude, è l'imbonitore televisivo. Il sogno della Scuola di Barbiana è diventato realtà. Esso si è inebriato nell'attacco furibondo a una scuola della quale non voleva superare i pur concreti e grossi limiti ma che voleva soltanto e semplicemente distruggere come sovrastruttura di classe. Distruggerla cominciando a trasformarla davvero in scuola di classe, imponendole l'obbligo di promuovere guardando non al merito ma al lavoro del padre. Inventando il dovere etico e didattico di compensare l'ingiustizia nella società con il premio dell'avanzamento a scuola per chi proviene da un ceto piuttosto che da un altro.
«Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali fra disuguali» (p. 55). Con questo assioma la Lettera riassume la sua diagnosi e prescrive la sua terapia. Chi non è disposto ad abbracciare con passione o almeno ad accettare un simile dogma evangelico-marxista viene accusato di essere una povera creatura generata da «quell'aborto che voi chiamate scuola» (p. 29), di compiere una costante opera di eliminazione dei più deboli e quindi di meritare una serie di ingiurie che vanno dalla stupidità alla cattiveria, dalla superficialità alla somiglianza con il «criminale nazista» (p. 78). Altre affermazioni dello stesso tenore sono queste: «Bocciare è come sparare in un cespuglio. Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo» (p. 39); «voi siete o stupidi o cattivi» (p. 35); «ho scoperto l'ingiuria giusta per definirvi: siete soltanto dei superficiali. Siete una società di mutuo incensamento che si regge perché siete pochi» (p. 138).
Gli insegnanti vengono poi attaccati sul piano più direttamente professionale mediante espressioni come le seguenti: «gente disattenta che tiene il coltello dalla parte del manico», con un orario di lavoro talmente indecente da suscitare disgusto quando sciopera o crede di avere diritti sindacali (pp. 21, 62-63, 88-89, 108).
I professori sarebbero espressione di quel PIL, Partito Italiano Laureati, che viene definito il più grosso partito italiano, il più rappresentato in Parlamento, il più discriminante. Ottenere un titolo superiore di studio significa essere reo di colpa grave dato che lo si è ottenuto -che lo si sappia o meno- con il sangue, la fatica, il lavoro di migliaia d'altri uomini meno fortunati. Questa furia iconoclasta, questa summa di fondamentalismo cristiano, non fa davvero distinzioni di posizione ideologica o partitica: Confindustria e PCI sono la stessa cosa, i lettori di Famiglia cristiana o dell'Espresso sono tutti colpevoli se fra i loro rampolli hanno dei laureati. «I partiti dei lavoratori non arricciano il naso davanti ai figli di papà. E i figli di papà non arricciano il naso davanti ai partiti dei lavoratori. Purché si tratti di posti direttivi (...) Il colmo della raffinatezza è appartenere a un partitello senza massa (socialproletario o cinese). Una manifestazione “cinese” a Firenze nel settembre 1966 era messa su da studenti figli di grossi professori universitari» (p. 76).
C'è qui la prefigurazione, ironica e amara, di uno degli elementi del Sessantotto. I ragazzi della buona borghesia che scendono in piazza gridando parole d'ordine contro la loro classe, i figli di papà in lotta per sopprimere le condizioni che li hanno generati. Ma la Lettera non è stata in grado di prevedere che i «Pierini», come li chiama, saranno capaci di utilizzare a man bassa la sua stessa raffinata retorica. I figli sempre promossi dei signori faranno tesoro della lezione linguistica e ideologica della Scuola di Barbiana. Senza alcun senso di colpa, senza traccia di disagio, scriveranno e ripeteranno entusiasti che «gli esami vanno aboliti», che non è giusto bocciare poiché coloro che subiscono tale ingiustizia tornano poi «a lavorare nei campi. E in tutto quello che mangiamo c'è dentro un po' della loro fatica analfabeta» (pp. 21 e 41). Ma a Barbiana non si vide lungo. La retorica antiselettiva, il disprezzo verso il merito colpiscono fatalmente, prima o poi, proprio coloro che godono di minori protezioni, coloro che non hanno il patrimonio di famiglia su cui contare, coloro che non possono usufruire di raccomandazioni. Se «una scuola che seleziona distrugge la cultura» (p. 105), una scuola che non seleziona più ribadisce tutte e ciascuna delle diseguaglianze di partenza, sposta la differenza sul mercato del lavoro, diffonde nella società civile la convinzione della inutilità dell'apprendere, del formalismo del diploma e dell'efficacia invece delle protezioni. È questo ciò che è avvenuto e ne stiamo vedendo il trionfo proprio nei nostri anni, nella squallida Italia di Silvio Berlusconi.
Nella Lettera la Costituzione viene difesa solo se fa comodo. Quando invece l'articolo 34, che sancisce l'obbligo dell'istruzione "per almeno otto anni", aggiunge che "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi", la Lettera riesce solo a ironizzare sugli «onorevoli costituenti [che] credevano si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata» (p. 96). Tanto è potente l'idiosincrasia verso parole come “merito” e “capacità”, da farle respingere anche quando vengono in soccorso di quanti sono socialmente meno privilegiati. È qui, dunque, in questo abilissimo testo che trovano la loro prima espressione il 6 politico nelle scuole, il 27 garantito nelle Università, i diplomifici privati che l'attuale governo ha equiparato alla scuola pubblica, regalando loro ingenti finanziamenti. E invece la promozione regalata a tutti è uno strumento di distruzione effettiva della scuola. Una sorta di notte nella quale tutte le menti sono mediocri e se ne vantano quale segno di fratellanza umana. Un appiattimento in nome del quale la Lettera può proporre in tutta serietà l'abolizione o il drastico ridimensionamento -in ordine- del latino, della matematica, della filosofia, della pedagogia, di gran parte della tradizione letteraria italiana. E con quali motivazioni, poi! Contro i Sepolcri si afferma che «io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C'è scritto nella nota. Ma è una bugia. L'ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri» (p. 130). Quando i criteri diventan questi è naturale che a definire la scuola nascano le metafore più tristi eppur significative: la scuola come tribunale di giudici prevenuti contro i poveri o ciechi verso la loro condizione, la scuola come ospedale che cura i sani e respinge i malati. Il docente, piuttosto, non è e in ogni caso non deve mai essere un giudice di alcunché o un medico dell'anima ma solo uno specialista della formazione che ha lo scopo di trasmettere conoscenze tecniche e suscitare nell'allievo una riflessione che sia dell'allievo appunto e non del maestro.
Ed ecco che -quasi come in un laboratorio, quasi in vitro- la Lettera a una professoressa mostra il suo lato oscuro. La scelta in favore degli ultimi si rivela quale tentativo di sottomettere le menti e le vite a un Maestro che dia loro verità, l'amore per l'Uomo si capovolge in disprezzo per la libertà degli individui, allo stesso modo in cui Berlusconi ha usato in questi giorni il verbo “inculcare”, invece che “educare”. Un khomeinismo pedagogico pervade le tesi di Don Milani mostrando a volte apertamente tutto il proprio rigore fanatico. Si afferma che a scuola si va per ascoltare il maestro e non per avere opinioni personali, si difende l'uso della frusta nei confronti dei più recalcitranti, si nutre solo disprezzo verso i bisogni sportivi e sessuali dei giovani, si propone il celibato per gli insegnanti in modo da creare comunità di formatori che con il loro stesso esempio respingano lo stile di vita “moglie, macchina, mestiere” (e in ciò si indicano quali modelli la chiesa cattolica, Gandhi, il presidente Mao, il quale «ha additato all'ammirazione dei compagni un operaio che s'è castrato» [p. 86]), si ribadisce il valore eterno del vangelo contro il laicismo. E così finalmente la Lettera di Barbiana e il Sillabo di Pio IX si ricongiungono nel disprezzo della laicità, del valore del singolo rispetto a chiese e masse.
Sarebbe scorretto e ingeneroso negare alla Lettera una funzione di stimolo didattico al rinnovamento del modo quotidiano di fare scuola in Italia e non solo. Ma è legittimo chiedersi se un maggior contatto fra scuola e società civile, una migliore collaborazione fra le componenti del mondo educativo, una reale eguaglianza delle opportunità (ma non degli esiti) avrebbe potuto ottenersi a un minor costo rispetto alle gravi conseguenze del fondamentalismo di Barbiana.
Non è un caso che non pochi sostenitori della Lettera siano oggi alla corte di Berlusconi. Altro che Mastrocola.
Alberto Giovanni Biuso
www.biuso.eu
28 febbraio 2011
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