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Note di lettura
(sul libro di Fausta Pennacchia,”La bambina della foto sull’aiuola”)
Alfonso Cardamone
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Con una scrittura fluida raffinata e pure asciutta, uno stile accurato e al tempo stesso sorprendentemente lieve e accattivante, Fausta Pennacchia snoda il racconto di se stessa dal giorno della nascita a quello dell’uscita al mondo degli adulti, ad esami di maturità ormai conclusi. E a misura che andiamo avanti nella lettura, noi comprendiamo che quella scrittura, quello stile sono esattamente la bambina di cui si narra e la scrittrice che la ripensa e in divenire la raffigura. Uno scavo nel pozzo profondo della memoria, uno sprofondare della coscienza alla ricerca di sé, alla ricerca di quella coerenza sostanziale della persona che, pur se sottoposta all’inarrestabile bulino, alla lima implacabile del tempo, permane a salvarci dalla distruzione. E, al fondo del pozzo, gorgoglia e infuria l’acqua, principio vitale, o, per meglio dire, il proteiforme mare, sfondo spesso di vicende liete, ma più spesso ancora metafora e concrezione dell’anima che lo pensa (e lo ripensa) e lo vive. Legame ancestrale all’essenza della propria vita e richiamo costante a conferirle senso e continuità e bellezza. Il mare sempre uguale e sempre diverso, paradossale metafora ora del dinamismo inesausto della vita, ora del tempo sospeso, non commensurabile frattura e faglia aperta nella misurabile durata che è il nostro correre infrenabile alla morte. Il mare, che può essere immagine fascinosa che si frappone fra passato e presente, tra le passioni che ci hanno segnato ed il presente che a quel passato si rivolge per una sfida inesausta contro il tempo che mortifica e consuma. Il mare, simbolo formidabile dell’incontenibile energia della Physis, tanto generoso da consentirci, a volte, di abbandonarci al respiro di una partecipazione intima ai fondamentali ritmi della natura. Sono l’enthusiasmòs e la physis che dettano le misure di un’educazione dei sensi e dei sentimenti insieme. Al punto che la stessa poesia è vissuta “come una forma di brivido corporale”.
Un alfa e un omega. Il ricordo di un rito lontano: la bimba che con le punte di una forchetta infilzava le ostriche, che le erano state apparecchiate dalla figlia amorevole del pescatore vicino di casa a Termoli sull’ Adriatico, e che “il frutto odorante d’alga sbattuta dall’onda, lo avvolgeva così come si fa con gli spaghetti, e la mia piccola bocca ne veniva invasa”; l’eco di quel rito richiamata dall’eccitazione sensuale ogni qualvolta, a Terracina, dove attualmente la scrittrice abita, le “particelle infinitesimali” della bianca spuma dell’irrequieto mare “attraverso le narici vanno a salare nel fondo la mia lingua, solleticandola”.
E, insieme con il mare, altre immagini potenti, chiamate ad evocare non solo eventi, ma anche e più sentimenti e radici. Parenti, amici, compagne e compagni di scuola, i primi teneri amori; ma sopra tutti le figure del padre e della madre. La “mamma dalle belle braccia”, che è un’icona di bellezza e che già l’epiteto qualificativo rinvia alla sfera di una permanente suggestione mitica; il padre, Marcello (che chi scrive queste note, ancorché di qualche anno più giovane, ricorda con affetto e stima, come collega pubblicista prima e come professore di lettere poi), insegnante e letterato colto e appassionato, che è stato (e che permane) per Fausta punto di riferimento costante e maestro impareggiabile della propria formazione, nei valori e negli ideali di vita, etici, culturali, sociali e politici. Da lui, principalmente, ha appreso a “vivere con passione fin da piccola”, da lui ha imparato il “valore etico della fiducia e della solidarietà”, lo stesso istinto libertario che fin da bambina l’ha caratterizzata; da lui, dalla sua passione per la ricerca, il “bisogno di cercare” il passato e, forse, ancora “l’utopistico bisogno reale di respingere l’idea di ciò che non è più”.
E, infine, gli oggetti. La poesia degli oggetti: non a caso Fausta cita, a un certo punto del suo narrare-ricordare, facendo eco a Gozzano, le “piccole cose di pessimo gusto”, come ogni eco piegata, in modo appena percettibile, alla sensibilità speciale di chi la riceve. La zuppiere bianche, sbeccate e scurite dal tempo, le raccontano della vita della nonna. La stessa minuziosità impiegata nel descrivere gli oggetti del ricordo, veicoli di sentimenti e occasioni di sfrenata fantasia, testimoniano della qualità apotropaica, come di magia, che viene loro conferita. Così che non ci meraviglieremo se, in un passo tra i più belli del libro, leggeremo di una stesa di panni sciorinati ad asciugarsi al vento e al sole, come di un fantastico labirinto in cui dare sfogo alla voglia d’avventura.
Alfonso Cardamone
hennaio 2011
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