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Terre Promesse
Mario Amato
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UNA NUOVA TERRA
Correva l’anno del Signore 1929.
Anno del Signore? Aron Jakobson era uno strano ebreo: non parlava la lingua dei suoi padri, non celebrava le ricorrenze religiose, non vestiva come gli altri ebrei e mangiava carne di maiale. Nella sua casa c’erano le menorah a sette e a nove braccia e la Torah, perché il padre, il nonno ed il bisnonno erano stati rabbini rispettati e fedeli, ma lui, Aron, si era rifiutato di frequentare la jeshivà e di adottare la pettinatura a riccioli. Non accendeva mai le menorah e la Torah rimaneva nello scaffale insieme agli altri libri. Aron leggeva Goethe, Heine, Hoffmann, Börne, i fratelli Grimm e altri autori della letteratura tedesca. La lingua tedesca era la sua lingua.
Era uno strano ebreo, biondo e con gli occhi azzurri, segno che nel corso dei secoli i suoi avi o le sue ave si erano felicemente mescolati con il popolo tedesco. La sua patria era la Germania, la sua città era Berlino. Non era ateo, ma quel severo Jehovah, del quale aveva ascoltato le storie dal padre, gli sembrava lontano, ad una distanza incolmabile. Non si recava in sinagoga al Sabato e nel giorno del riposo lavorava, accendeva la luce, attraversava la strada. Il padre aveva lasciato questo mondo durante la Prima Guerra Mondiale in un eroico assalto all’arma bianca, combattendo per la Germania Imperiale e per il Kaiser. Aron teneva appesa alla parete la fotografia del padre in uniforme. C’era alla parete anche la fotografia delle nozze dei genitori, celebrate secondo il rito ebraico, ma le parole “L’anno prossimo a Gerusalemme” per Aron non avevano senso.
Egli era uno strano ebreo: lavorava come operaio e vedeva passare i ricchi mercanti ebrei in automobili lussuose, ma non provava invidia. Per lui la terra promessa non era Canan, come gli aveva insegnato il padre, ma era la lontana America, al di là dell’Oceano.
Aron non aveva mai visto il mare. Egli conosceva solo il mar Mediterraneo, perché aveva letto e riletto l’Odissea, ma il grande Oceano, nei cui abissi dimorava il terribile Leviatano, non riusciva ad immaginarlo. Sognava tuttavia di imbarcarsi un giorno su una grande nave e di raggiungere la sua terra promessa. Conosceva la storia della Mayflower, che aveva trasportato i puritani sulle rive del Massachusetts. Immaginava anch’egli di poter sbarcare su una delle coste americane e iniziare una nuova vita. Non erano stati forse quei profughi a scrivere parole di libertà per un nuovo mondo? I loro discendenti ora erano ricchi americani, ma, si sapeva bene, tutti gli americani sono ricchi e felici. Aron immaginava le grandi città degli Stati Uniti, illuminate e festose e le grandi strade, sul cui asfalto un giorno avrebbe sfrecciato con una grande automobile decapottabile. Si sapeva, tutti gli americani hanno grandi automobili.
Dal primo giorno in cui era stato assunto metteva da parte il denaro per comprare il biglietto della nave, della grande nave che lo avrebbe portato nella terra promessa. Il severo Jehovah non aveva permesso a Moshé di entrare nella terra promessa, ma l’America apriva le porte a tutti, accoglieva tutti i poveri dell’Europa, anzi del mondo e in pochi anni essi diventavano ricchi e rispettati signori. Nelle notti più serene Aron Jakobson sognava le guglie dei grattacieli di New York: le vedeva dalla nave in un’alba luminosa.
Ogni sera contava il denaro per il biglietto della nave e calcolava il tempo rimanente per la partenza.
La sera del 23 ottobre 1929 Aron aveva il denaro sufficiente e si coricò felice nel suo letto solitario. Al mattino si alzò ancora felice, si lavò, mangiò un’abbondante colazione e si recò al lavoro. Aron non comprava i giornali. Nelle strade c’era una insolita agitazione, ma Aron non vi badò. I cancelli della fabbrica erano chiusi e gli altri operai borbottavano, qualcuno urlava, altri imprecavano e bestemmiavano, alcuni piangevano. Aron chiese cosa fosse accaduto. Un collega raccolse un giornale da terra e mostrò la prima pagina che annunciava il crollo della borsa di New York. Ad Aron la notizia non provocò alcun sentimento: si era recato al lavoro per l’ultima volta, quel giorno stesso si sarebbe licenziato, perché a sera avrebbe comprato il biglietto per l’America.
Tornò a casa, pranzò e aspettò la sera. Vuotò finalmente la scatola con il denaro, lo contò, lo mise nella tasca destra della giacca ed uscì. Le strade erano affollate, la gente parlava ad alta voce, si agitava, ma Aron proseguiva diritto per la sua strada, diritto verso l’America! Infine giunse dinanzi all’agenzia di viaggio: la vetrina era vuota, ma la porta era aperta. La bella ragazza dell’agenzia lo guardò con aria stupita: «Cosa desidera?» «Un biglietto per l’America, per favore» «Che cosa?» chiese incredula la giovane donna «La prego, un biglietto per l’America. Ho il denaro» «E quanto denaro ha?». Aron pronunciò con orgoglio la cifra. La ragazza scoppiò in una fragorosa risata. Aron cominciò a provare rabbia, poi insisté nella sua richiesta, affermando di aver già prenotato da tempo il biglietto e di volere ciò che gli era dovuto. «Lei è pazzo» asserì la ragazza «Signorina» si ostinò Aron «mi dia ciò a cui ho diritto o chiamo la polizia» «Chiamo io la polizia, se non la smette di prendermi in giro» «Non la sto prendendo in giro e non sto scherzando, mi dia il mio biglietto» «La smetta» urlò la giovane «Perché non vuol darmi il biglietto?» chise ancora Aron «Il denaro non basta» «Il prezzo era già fissato» «Era già fissato, è vero, ma prima di questo giovedì» «Che ha di speciale questo giovedì?» «Non legge i giornali?» «No! Quanto costa il biglietto questo giovedì?» «Non lo so. E poi non ci sono navi in partenza per l’America. Nessuno vuole andare in America adesso. Per cortesia, vada via, sto chiudendo» «Tornerò e avrò il mio biglietto» «Non tornerà».
Durante il ritorno Aron teneva la mano nella tasca della giacca e toccava il suo denaro, con il desiderio di strapparlo, come era stato strappato il suo sogno; aveva anche una grande voglia di piangere. Il severo Jehovah aveva impedito anche a lui di entrare nella terra promessa. Comprese il dolore di Moshé, ma almeno il profeta aveva potuto guardare quella terra dove aveva condotto il popolo ebraico. Aron non era un vero ebreo! Era forse una punizione per le feste non rispettate, per aver lavorato il sabato, per aver mangiato carne di maiale? Era una punizione per aver rifiutato di frequentare la yeshiva? Quale comandamento non aveva rispettato? Aveva sempre rispettato il padre e la madre, anche la loro memoria, non aveva mai rubato, non aveva mai ucciso, non poteva commettere adulterio, perché non aveva moglie, non aveva desiderato né la donna altrui né la roba altrui, non bestemmiava. Ma il primo comandamento?
Rientrò in casa, sedette e pianse a dirotto, un oceano di lacrime, non l’Oceano che voleva attraversare. Rimase seduto e si addormentò. Sognò ancora l’America, ma era un sogno agitato: a volte la nave naufragava e le onde lo spingevano indietro, verso l’Europa, a volte vedeva le guglie degli alti grattacieli, ma avvolti nella nebbia ed essi si allontanavano fino a scomparire del tutto. Una fitta nebbia avvolgeva Berlino all’alba, quando Aron si destò dai suoi sogni inquieti. Una fitta caligine occupava la mente di Aron e i suoi occhi erano ancora umidi di pianto. In una sola notte l’America era scomparsa, era più lontana delle stelle, era irraggiungibile.
Aron uscì e iniziò a vagare per le strade della città, dove capannelli di persone erano ad ogni angolo e discutevano con animosità. Aron si fermò a raccattare un giornale e lesse del crollo della borsa di New York. Che aveva a che fare questo avvenimento con lui? Perché mai il suo denaro non bastava per il biglietto? Egli non comprendeva. Sì, era una punizione. Vagò tutto il giorno, solo tra la folla, poi rientrò in casa e si addormentò nuovamente sulla sedia. Sognò il padre, vestito da rabbino, che lo rimproverava per i suoi peccati. Quando si svegliò, ricordò che era sabato; i raggi del sole filtravano attraverso la tendina della finestra; Aron accese due candele(1), chiedendo perdono per non averlo fatto la sera del venerdì, poi pronunciò la preghiera del Kiddush(2), sebbene fosse solo. Strano a dirsi, le parole della preghiera uscivano dalla sua bocca fluentemente, nell’antica lingua del padre e degli avi, che Aron credeva d’aver dimenticato. Tirò fuori dalla tasca il denaro e lo depose sul tavolo, depose la profanità, come prescrive la Torah, e il nervosismo.
Si recò in Sinagoga. Si comportò, per la prima volta, come un vero ebreo.
Seguirono giorni difficili: Aron vedeva nelle strade bambini che giocavano con pacchi di banconote, uomini vestiti di stracci che chiedevano l’elemosina, lunghe file di persone in cerca di lavoro. Sul tavolo della sua piccola casa aveva deposto, insieme al denaro, anche il suo sogno. La fabbrica dove aveva lavorato aveva chiuso, ma egli ora si recava alla stazione e faceva il facchino, mangiava quando poteva e pregava. Rispettava ogni prescrizione, almeno quelle che ricordava, e leggeva la Torah.
La crisi passò e Aron, in qualità di bravo operaio, trovò lavoro presso un’altra fabbrica. A volte sognava ancora l’America, ma solo quando dormiva, non più ad occhi aperti. Sorrideva di quel lontano desiderio. Era diventato un bravo ebreo: leggeva la Torah, rispettava il sabato, non mangiava carne di maiale, pregava nella lingua dei suoi padri, dondolandosi. Pronunciò le parole “L’anno prossimo a Gerusalemme”, quando si sposò. Aron aveva trovato la terra promessa nella sua casa, nello scaffale dei libri, aveva trovato la Torah. Era un bravo ebreo.
Nell’anno del Signore 1933 un sergente austriaco divenne Cancelliere dei Reich.
Aron era un bravo ebreo! …
Note
1) Le due candele, simbolo della luce del Signore che entra in casa di sabato, vengono accese il venerdì sera dal capo-famiglia e si aspetta che esse si spengano da sole.
2) Il Kiddush e un vino kasher, che viene benedetto
AMERICA! AMERICA!
Maria Rossi l’aveva trovata l’America! Dalla nave aveva guardato la statua della libertà che si innalzava orgogliosa nel cielo grigio ed era stata sicura che la fiaccola splendeva anche per lei, ragazza di vent’anni, che aveva lasciato il suo paese in cerca di fortuna, come tutti quelli che erano partiti insieme a lei.
Al suo paese, fatto di povere case bianche, di vicoli dove le donne vestite sempre di nero portavano pesanti cesti, aveva lasciato la madre anziana. Anche la madre vestiva di nero, da quando il marito era morto. C’erano, è vero, bei vigneti e rigogliosi oliveti, ma davano ricchezza soltanto ai pochi proprietari e pochi soldi alle lavoranti al tempo del raccolto. I giovani partivano appena diventavano diciottenni per terre lontane e tornavano molti anni dopo, con mogli e figli biondi, ma stavano giusto il tempo delle vacanze e poi se ne andavano di nuovo, lasciando ai compaesani le storie di grandi città e di una vita diversa.
Maria non era stata a scuola, perché il denaro bastava appena per mangiare, ma era bella e i ragazzi le dicevano che poteva fare l’attrice, le dicevano di andare in America, dove sarebbe diventata famosa. E Maria andò in America. Voleva portare con sé la madre, ma era troppo vecchia e toccava ai giovani cercare fortuna. E poi non c’erano soldi per due biglietti. La madre aveva pianto quando Maria era partita, era rimasta a guardare la nave che si allontanava nel mare fino a quando essa era scomparsa.
L’aveva trovata l’America! Quanti lavori aveva fatto in quella terra straniera? Non riusciva più a contarli, ma aveva trovato anche marito, un marito americano. Esistono i veri americani? Un bel marito biondo, come i figli di quelli che tornavano al paese. E aveva trovato anche un’altra vita. Dopo pochi mesi il marito, John – e come poteva chiamarsi un vero americano? – tornava a casa di notte, ubriaco e la picchiava senza nessuna ragione.
Non era l’America delle belle città, dei ricchi negozi, della statua della libertà. C’erano poche case di legno in quel luogo, distanti l’una dall’altra, e tanta sabbia. Maria aveva scoperto che anche in America c’è il deserto. Nei suoi occhi c’erano sempre le bianche case del paese, i vigneti con i grappoli dorati d’uva e i verdi oliveti, dove le donne cantavano ed il loro canto si spandeva per tutta la campagna. Qui c’era solo il sibilo del vento che sollevava la sabbia e la faceva penetrare anche nelle unghie. E c’erano le urla e le percosse del marito. Maria poteva solo pregare. Non era certo partita pensando di stare dalla mattina alla sera in un emporio dove entravano due o tre persone alla settimana. Maria pregava, chiedeva di poter tornare al suo paese, dove almeno una minestra al giorno ci sarebbe stata. Pregava, chiedeva di poter rivedere la madre. Nei suoi sogni, sulla nave, pigiata insieme ad altre persone che come lei sognavano, si era figurata di far venire in America la madre e ospitarla nella sua grande villa. Ora invece piangeva e pregava, chiedeva di poter tornare libera.
E libera tornò. Un giorno si presentarono due poliziotti a casa sua, con in testa i grandi cappelli e le pistole appese alla cintura. Chiesero di suo marito. Non era rincasato, ma Maria vi era abituata. Le dissero, senza molte cerimonie, che John era stato ucciso in una rissa in un locale. Maria pianse, forse di gioia! Non le restava molto: quel misero emporio e la valigia che aveva portato con sé dalla sua terra del sud. La valigia! Maria non aspettò molto: prese la valigia e si avviò per strada, senza nessuna meta, anzi la meta la conosceva. Lontano il più il possibile da quel luogo polveroso e deserto. Dormì per terra, elemosinò per mangiare, giunse in una grande città.
Maria cantava, spesso mentre camminava, le canzoni del suo paese, delle donne che vendemmiavano e raccoglievano le olive. Qualcuno la udì e la condusse in un locale. Cantò per pochi dollari, ma sempre più di quanto guadagnava nell’emporio. Gli avventori ascoltavano volentieri Maria, mentre ella cantava la sua nostalgia. I clienti aumentavano ed anche il compenso aumentava. Così Maria divenne una cantante. Cantò in grandi teatri di grandi città, ma nella sua anima c’erano le bianche case del paese.
Maria tornò al paese e comprò un grande vigneto. Cantava ancora, ma solo al tempo del raccolto, insieme alle donne che pagava con generosità.
Maria aveva trovato la sua America, la terra promessa.
UNA TERRA MOLTO VERDE
Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
E trattare allo stesso modo quei due impostori
(Rudyard Kipling)
Ken camminava per le strade della grande città, guardando le vetrine illuminate dei negozi, fermandosi a stringere la mano a coloro che lo riconoscevano, pensando che forse si sarebbe svegliato e si sarebbe accorto che aveva sognato. Era tutto vero, non era un sogno! Avrebbe dormito, prima del grande giorno? Non era abituato alla città.
Laggiù, dall’altra parte del mondo, dove era nato e dove aveva sempre vissuto, aveva visto per tutta la vita estensioni di terre e animali selvaggi e aveva ascoltato soprattutto il silenzio.
Pensò alle due insolite settimane che aveva vissuto ed al suo strano destino. Perché mai lo avevano invitato? Merito o colpa del suo caro amico giornalista, che aveva raccontato sul giornale locale la sua storia, la storia di un ragazzo claudicante, che saltellava dietro le pecore e saltellando aveva imparato a correre. Gli piaceva correre insieme ai cani per distanze interminabili, fino a quando il sole tramontava. E poi bisognava correre a casa, conducendo gli animali, con i quali parlava. Era una bella vita. I genitori tuttavia si tormentavano nel vedere quel figlio, colpito dalla natura maligna. L’altro figlio era un ragazzo robusto, sano, e praticava con successo tutti gli sport. Si erano accorti che Ken aveva una gamba più corta appena era nato. Madre e padre avevano pianto, ma Ken non aveva mai provato né tristezza per la sua condizione, né invidia per il fratello maggiore.
Viveva in una bella casa, con un grande giardino, con i suoi amici a quattro zampe, che avevano a disposizione, come lui, vasti ettari di terreno. Ken era contento, soprattutto quando accompagnava suo fratello Fred per vederlo giocare a tennis. Ed era felice quando Fred vinceva e alzava i trofei. La tristezza lo assaliva soltanto quando il fratello, diventato ormai un campione famoso, giocava lontano, nella lontana Europa o in America. Ken guardava il verde campo da tennis nel grande parco di casa e sospirava. Il verde campo da tennis lo aveva costruito il padre, ben prima che i figli nascessero. Risuonavano per tutto il parco i colpi di Fred, precisi, veloci, potenti. Risuonava anche il suo nome sui giornali. Era una gloria nazionale, era l’ultimo dei grandi campioni dell’Australia. Ken leggeva con gioia gli articoli che esaltavano il fratello. Sarebbe piaciuto anche a lui poter giocare a tennis, ma non per sete di gloria, bensì per poter stare con Fred.
Un giorno, mentre Fred era lontano, in un continente lontano, Ken impugnò una racchetta e si recò al campo da tennis e cominciò a giocare, ma senza palline, colpendo l’aria. Ken era ancora in quell’età in cui non si è più bambini e non si è ancora giovani adolescenti. Saltellava di qua e di là e correva come poteva. Era l’imbrunire allorché giunse il padre, che dapprima lo guardò sorpreso, poi si avvide che Ken giocava le partite vinte dal fratello, le partite delle quali aveva letto sui giornali e quelle che lo stesso gli aveva raccontato. I movimenti di Ken erano eleganti ed armoniosi e guardandolo non ci si accorgeva della sua imperfezione.
Il giorno seguente Ken non condusse le pecore a pascolare, ma fu al contrario condotto dal padre al campo da tennis e giocò con racchetta e palline. E così fu per tutto l’anno. Il ragazzo aveva un po’ di nostalgia delle ampie pianure, dei canguri, dei cani, dei grandi spazi verdi dove i canguri saltavano ed i koala giocavano felicemente sugli alberi di eucaliptus, ma d’altra parte immaginava di poter giocare con Fred, quando egli sarebbe tornato.
Giocò con il fratello e non solo. Iniziò per Ken una nuova vita: girò il mondo insieme a Fred e divenne, per così dire, il suo allenatore segreto, finché anch’egli giocò la prima partita in un torneo. E di agone in agone divenne un giocatore di tennis. Non divenne una gloria nazionale come il fratello, ma il suo nome era comunque scritto nelle classifiche mondiali.
Era una bella vita, ma a volte rimpiangeva le verdi pianure, al cui confronto il rettangolo verde sembrava una prigione. Anche ora che si aggirava nella grande città sentiva il rimpianto per le sue pecore, i cani, i canguri, i koala; non era circondato dai verdi eucaliptus, bensì da alti palazzi di cemento; non c’era il silenzio al quale era abituato, ma un brusio senza fine; non c’era l’aria che aveva sempre respirato a pieni polmoni, ma un fumo malsano. Mentre si aggirava per le strade affollate si chiedeva perché mai lo avessero invitato a partecipare a quel famoso torneo. Era forse a causa della sua gamba più corta? Era forse a causa dell’articolo del suo amico giornalista che lo aveva descritto come un eroe che aveva sconfitto la sfortuna? Si pose per tutta la notte e la mattina seguente queste domande nella sua piccola stanza. Non trovò le risposte.
L’ora era giunta. Ken e Fred entrarono insieme sul campo centrale di Wimbledon, su quella terra molto verde, pronti a combattere contro i due impostori: la vittoria e la sconfitta.
LETTERE INCROCIATE
Con riconoscenza a Ganna Geviuk
A tutte le badanti
Nell’anno del Signore 1816 Natasha Alexandrovna Gravinskj ricevette una lettera dal suo paese. Natasha, fantesca dei Conti Alt-Brandt teneva la busta nelle mani tremanti, guardandola e non osando aprirla. Non era la prima lettera che riceveva, ma quella busta era del tutto particolare, perché, sebbene provenisse dal suo paese, non era della madre, ma era una lettera ufficiale, come attestava il sigillo del municipio.
Natasha aveva lasciato il suo piccolo villaggio di confine tra Polonia e Russia dieci anni prima in cerca di fortuna, lasciando la madre vedova sola in una casa di campagna. Aveva lasciato la sua terra insieme ad una piccola valigia carica di sogni, di piccoli onesti sogni: trovare un lavoro con cui poter mantenere la vecchia madre e trovare un marito. La madre, in verità, non era del tutto sola, poiché c’erano cavalli, mucche, pecore e galline da accudire.
Giunta nella grande Vienna, capitale della Regia Imperial Monarchia di Austria-Ungheria, Natasha aveva svolto vari mestieri, tutti dignitosi, finché aveva trovato impiego nella signorile dimora dei conti Alt-Brandt. Erano stati forse i suoi occhi glauchi o i suoi capelli neri o i suoi occhi verdi ad attrarre un ufficiale dell’esercito austro-ungarico, che dopo averla corteggiata, l’aveva addirittura sposata. Il matrimonio era durato poco tempo, perché l’ufficiale era deceduto nella battaglia di Waterloo, lasciandola in attesa di un figlio.
L’ufficiale si era dimostrato un vero gentiluomo, poiché, pur lasciando alla giovane consorte un esiguo patrimonio in denaro, l’aveva raccomandata al giovane conte Alt-Brandt, suo amico e suo superiore nell’esercito, il quale aveva fatto in modo che i suoi genitori l’assumessero in casa in qualità di fantesca. Svolgeva i suoi compiti con ordine e diligenza e ogni fine mese inviava una parte della sua paga alla madre lontana, tenendo per sé pochi denari. I sogni chiusi nella valigia si erano avverati, ma Natasha non aveva certo sognato di restare vedova ancora giovane. In verità, ora pensava più alla madre che al marito; anche lei era rimasta vedova quando Natasha aveva appena due anni. Pensava al momento in cui aveva abbracciato la madre sulla soglia di casa, al momento in cui dalla carrozza che la portava verso un mondo per lei ignoto aveva guardato la mamma rimasta là, sull’uscio, con la mano aperta in segno di saluto. Ripercorreva con la mente il viaggio: strade innevate, stazioni di posta, taverne odorose di cipolla, nomi mai uditi di paesi e città. Ripercorreva con la mente l’ultima lettera spedita:
“5 febbraio 1816
Cara Mamma, Maria Pavelovna so di averti lasciata sola, ma è stato soltanto per necessità. Mi sono sposata e sono sfortunatamente vedova. Mio marito, che Dio l’abbia in pace, è deceduto in battaglia, essendo un ufficiale dell’esercito austro-ungarico, ma io, grazie a lui, ho trovato lavoro presso una famiglia nobiliare. So di aver tardato a comunicarti queste notizie e che hai ricevuto fin ora le buste contenenti soltanto il denaro, che spero ti sia sufficiente.
Insieme a questa notizia luttuosa sono lieta, però, di darti anche un annuncio che ti farà felice, almeno spero: aspetto un bambino o una bambina. Tra poco sarai nonna ed appena possibile chiederò un permesso per venire da te. Potrai raccontare a tuo nipote o alla tua nipotina le bellissime fiabe che raccontavi a me quando ero piccola: ti vedo già seduta con in grembo la piccola o il piccolo, mentre carezzi i suoi capelli. Quanto a me, sono in ottima salute e i signori sono tanto buoni. Perfino la Contessa ogni tanto si preoccupa del mio stato di salute e mi raccomanda di non stancarmi troppo, ma io le rispondo che sono tua figlia e sono abituata al duro lavoro.
Tua Natasha”
Questa lettera giungeva il 25 febbraio 1816, lo stesso giorno in cui Natasha apriva con mani tremanti la busta ricevuta:
“5 febbraio 1816
Signorina Natasha Alexandrovna Gravinskj, siamo spiacenti di doverle comunicare l’avvenuto decesso della sua genitrice, Signora Maria Pavelovna vedova Gravinskj. Non sappiamo con esattezza quando sia avvenuto il luttuoso evento, poiché abbiamo dovuto sfondare la porta di casa, dopo che alcuni vicini della sua genitrice avevano notato che gli animali presenti nella terra appartenente a sua madre erano senza cibo e senza acqua. I funerali sono stati effettuati a spese del comune, che ha provveduto anche ad una sistemazione provvisoria nel cimitero municipale. Pertanto, insieme alle più sentite condoglianze, la invitiamo a saldare quanto dovuto ed a trovare una consona sepoltura per la sua genitrice.
Il sindaco
P. G. J.“
Natasha restò immobile per circa cinque minuti, poi calde lacrime iniziarono a sgorgare dai suoi verdi occhi: rivedeva ancora la madre sulla soglia di casa, con la mano aperta, quella mano che non aveva potuto stringere nell’ultimo attimo di vita. Finalmente sedette, piangendo ancora. Infine si recò dalla contessa e tese quella lettera, che le sembrava cattiva e senza pietà. La contessa prese la lettera, ma le disse anche che non comprendeva la sua lingua, ma chiese, vedendo le lacrime sul viso di Natasha, che cosa fosse accaduto. Un urlo gutturale uscì dalla bocca di Natasha, rispondendo alla sua padrona. La contessa, che mai aveva abbracciato una servitrice, strinse a sé Natasha e cercò di consolarla; poi chiamò un’altra fantesca e ordinò di aiutare Natasha a preparare il bagaglio.
Natasha partì nuovamente per il triste lungo viaggio di ritorno, pensando alla casa vuota e silenziosa, ma non si sentiva sola, poiché portava una nuova vita. Si mescolava nella sua mente la visione della madre senza vita con quella della madre narrante fiabe a lei o al suo bambino. Ora non guardava più i nomi dei villaggi, delle città, dei paesi, ma pensava solo alla madre e alla vita che teneva nel grembo. Le notti e i giorni si succedevano lentamente e Natasha non riusciva a dormire. Infine, dopo giorni di viaggio che ella non avrebbe saputo enumerare giunse nella sua casa di campagna, una casa troppo silenziosa.
I sogni erano rimasti lontani, in un’altra terra, lontana e ormai perduta per sempre.
Post scriptum
Natsha ha dato alla luce una bambina: la piccola Maria corre già per casa e per i campi. Spesso Natasha le narra le fiabe che ha ascoltato da sua madre.
ERRANZA DI UN LETTORE
Tra la specie umana esistono molti generi di persone, ma io ne voglio considerare solo due: i sedentari e gli erranti.
È certamente piacevole starsene sempre a casa, apprezzare ogni pietra del proprio paese o del quartiere dove si abita in città fin dalla nascita, sedersi sulla stessa panchina leggendo un bel romanzo, vivere tutta la vita con gli amici conosciuti da bambini. I sedentari scelgono quindi la tranquillità, anche se spesso i pericoli possono annidarsi nella pace casalinga. Qualcuno ha scritto che perfino il tragitto dentro casa può essere un viaggio (1). I viaggi veri sono altro.
Che cosa spinge l’errante ad abbandonare il luogo natìo? Non ho una vera risposta, ma soltanto la mia personale, perché forse nacqui errante, forse lo divenni in una tragica sera.
In realtà, fin da ragazzo s’insinuava dentro di me una nostalgia struggente quando sentivo il fischio lontano di un treno, quando guardavo una montagna chiedendomi cosa ci fosse oltre, quando osservavo il mare senza fine, quando fissavo una nave sulla linea lontana dell’orizzonte. È vero, a volte credevo di aver trovato, come si dice, la “terra promessa” – locuzione che a casa si pronunciava spesso -, perché m’innamoravo del luogo, dei cibi, degli occhi di una fanciulla, che a volte ricambiava la mia passione ed altre invece restava indiffirente, ma accadeva che mentre baciavo quella ragazza, alla quale avevo pur giurato amore eterno o facevo progetti per conquistare la riottosa ragazza, il mio sguardo vagasse al di là di un fiume o di un monte e nascesse entro me il desiderio invicibile dell’oltre. Insomma, aveva ragione il mio amico Alfonso, che scrisse che la sosta per me aveva sempre il valore dell’erranza (2).
La passione dell’erranza, o forse il mio destino di errante, nacque tuttavia da un tragico episodio. Prima di raccontarlo – a chi ha ovviamente la pazienza di ascoltare – devo descrivere la mia antica casa quella in cui nacqui e che non esiste più. In verità ne ho ricordo vago, popolato di corridoi e stanze colme di libri ed ho un ricordo indistinto anche dei miei genitori: li rammento seduti nelle loro comode poltrone, sempre con un libro aperto tra le mani. Nella memoria è tuttavia presente con precisione il distacco da loro in una terribile notte. In tutta la casa si udì un lugrube ululato che ci destò dai nostri pacifici sonni: il palazzo bruciava e la canna del camino urlava cupamente. Naturalmente fuggimmo, senza prendere nulla. Giunti in strada, mio padre si avvide che mia madre non c’era e corse di nuovo in casa, ma non ne uscì mai più. In verità vidi solo una mano sporgersi da una finestra e gettare un quaderno. Della casa e degli oggetti che vi erano non rimase che questo: un quaderno dalla copertina nera zigrinata. Non c’era il testamento dei miei genitori in quel taccuino, ma un elenco di libri. Mia madre e mio padre avevano diligentemente annotato tutti i libri presenti in casa, secondo un ordine che non mi è stato mai chiaro; forse la disposizione era secondo la preferenza o forse secondo la lettura o ancora secondo la data di acquisto. Era un ordine anarchico, sebbene questi due termini creino un ossimoro. Imparai solo molto più tardi che la lettura deve essere anarchica.
La mia vita si svolse in maniera alquanto ordinaria, senza grandi eventi e senza esaltanti passioni. Dimenticai per molto tempo il libro che mio padre aveva salvato sacrificando la sua vita, finché una sera, guardando un infuocato tramonto, ricordai l’incendio della casa, l’assenza di mia madre e la corsa di mio padre verso le fiamme. Cercai nella casa il quaderno salvato, trovandolo solo qualche ora dopo: mentre lo guardavo senza avere il coraggio di aprirlo, mi apparivano i volti dei miei genitori, ma non nella loro ultima sera, bensì seduti vicino al camino, con i loro libri aperti in mano, silenziosi e assorti.
Iniziò quella sera la mia erranza, che era già vocazione dentro di me. Aprii il nero taccuino e lessi il primo titolo: “Odissea”. Sotto mio padre o mia madre aveva annotato: “Andare in Grecia, dove tutto ha avuto inizio”. Naturalmente quel viaggio non era stato mai intrapreso, né quello né altri, ma trovai allora lo scopo della mia vita: ricostruire la bibioteca perduta. È vero, sarebbe stato semplice recarsi nella più vicina biblioteca e comprare una copia dell’Odissea, ma c’era anche un’altra annotazione: “Quando ottenni la licenza liceale, i miei genitori mi regalarono un viaggio in Grecia. Più tardi dalla cattedra ho spiegato spesso ai miei allievi che la civiltà consiste nel porre tra gli Dei i mostri della notte”(3).
“Ricostruire la biblioteca” aveva per me molti significati e comprare i libri enumerati nel nero quaderno dalla copertina zigrinata era un compito secondario. Innanzitutto significava riportare in vita l’amore che i miei genitori avevano avuto per la lettura, ma ancor più mi spingeva il desiderio di viaggiare: seguire le tracce dei personaggi dei libri.
Non dormii molto quella notte ed il poco sonno fu accompagnato dalle visioni di strade ed orizzonti. Non era ancora l’alba quando decisi di mettermi in cammino. Letteralmente in cammino! Perché un vero viandante cammina, si ferma quando è stanco o quando un odore proveniente da una taverna lo attira o ancora quando una nuova terra, al di là di un fiume o oltre un monte, suscita la curiosità, come accadeva ad Odisseo. Tutti i viandanti sanno che Ulisse non poteva non oltrepassare le sacre colonne d’Ercole. Che importanza poteva avere che oltre quei limiti ci fosse solo “il mondo sanza gente”(4)?
Ricostruire la biblioteca familiare non era possibile, perché non possedevo una casa e sinceramente pensavo che i libri non siano oggetti, ma hanno un’anima, come gli esseri umani: insomma, le copie che avrei comprato non avrebbero avuto lo stesso odore di quelle che erano nella casa dei miei genitori. Una casa, ho sempre creduto, non è fatta di mura, ma delle persone che vi abitano, le quali vivono insieme ai loro ricordi e lasciano l’impronta della loro esistenza nelle stanze. C’erano le impronte delle mani dei mei cari sui libri, c’era tra le pagine l’amore con cui essi le avevano sfogliate e lette, forse c’erano anche le orme dei miei nonni e dei miei bisnonni. Non avevo dunque un luogo dove mettere i libri, ma soprattutto quelle copie, che avrei potuto comprare, non mi avrebbero donato l’emozione delle pagine sfogliate dai miei genitori.
La mia riluttanza a comprare i libri per la ricostruzione della biblioteca familiare aveva un’altra ragione: diventai, sì, un grande lettore, ma non volevo soltanto farmi trasportare dall’immaginazione nelle terre visitate da Ulisse, da Marco Polo, da Capitan Achab, da Don Chisciotte; volevo essere Ulisse, Marco Polo, Capitan Achab, Don Chisciotte.
In ogni città, in ogni paese, dove mi arrangiavo a fare i più svariati lavori, nelle ore libere mi recavo in biblioteca e trascorrevo ore infinite leggendo; quando giungevo all’ultima pagina, guardavo fuori della finestra e la strada mi chiamava irresistibilmente; allora mettevo la sacca in spalla e mi avviavo, seguendo le invisibili tracce dei personaggi che avevano suscitato la mia curiosità.
Esistevano per me anche altri percorsi: nelle biblioteche consultavo spesso carte geografiche e atlanti; il corso di un fiume o il nome di una città m’incuriosiva e allora mi mettevo in cammino, costeggiando il flusso d’acqua o dirigendomi verso la città dal nome strano. Naturalmente il viaggio non era mai diretto, perché sostando ad un bivio, ove era situata una locanda, nasceva in me il desiderio di deviare verso una nuova meta, verso un luogo di cui non sapevo assolutamente nulla.
Ogni terra che visitavo era per me la terra promessa, di cui avevo sentito parlare nella mia infanzia.
Non ho contato i passi, ho dimenticato alcuni nomi dei luoghi visti, ma non la meraviglia da essi infusa, ho nelle narici e nel cuore odori di locande e taverne, nelle orecchie i mille idiomi ascoltati. Ho viaggiato su carri trainati da fidi cavalli e mucche mansuete, su navi e traghetti, ed ho viaggiato con la fantasia sulle pagine di mille e mille libri. Non ricordo il nome della strada, dove il viaggio della mia vita terminò, ma ho memoria della linea dell’orizzonte che si stagliava nitida dinanzi ai mei occhi e della mia ultima preghiera. Sono diventato vento, pioggia, neve, brezza marina, nuvola, acqua di fiume che scorre eternamente. Sono ancora in viaggio.
Note
1) Magris, Claudio, L’infinito viaggiare
2) Cardamone, Alfonso, prefazione a Amato, Mario, Racconti di un camminante, Alinet
3) Mann, Thomas, Doktor Faust
4) Alighieri Dante, Inferno, Canto XXVI
TERRA DI CONFINE
In una cittadina sita al confine tra due nazioni esiste una porta monumentale eretta secoli passati, che nel corso della storia è passata da una nazione all’altra.
Non solo la porta, che una volta introduceva in città, cambiava nazione alla fine di ogni guerra, ma anche gli abitanti che, nonostante i conflitti, o forse proprio a causa di questi, si sposavano tra di loro. I nomi, come ognuno potrebbe intuire leggendo l’elenco telefonico, tradiscono la mescolanza della cittadinanza. I bambini, a volte molto più saggi dei loro genitori, giocavano per le vie, ignorando l’odio tra le loro famiglie, ma quando crescevano anch’essi ereditavano quel rancore che per anni era stato il companatico dei pasti.
A volte, però, l’odio transitava attraverso i secoli e anche famiglie vicine se ne nutrivano, conservandolo nei loro cuori come si conserva il buon vino nella cantina per i giorni di festa. Di generazione in generazione i capifamiglia insegnavano il rancore e si festeggiava l’anniversario di questa o quella vittoria, anche se remota nel tempo. Un padre o una madre non esitavano a richiamare i loro figli quando vedevano che questi, ignari dell’astio familiare, giocavano con quelli che erano discendenti dei loro nemici.
Accadde a due bambini, che chiameremo Hans e Jean: le loro case erano l’una accanto all’altra, proprio vicino alla porta simbolo d’inimicizia.
Essi erano nati nello stesso giorno, nello stesso anno e nello stesso ospedale, anzi nella stessa camera. I loro primi vagiti, che furono in verità urla, furono interpretati dai loro genitori come dichiarazioni di orgoglio e avversione reciproca.
Hans e Jean frequentarono la stessa scuola e la maestra, più saggia dei loro parenti, li fece sedere nello stesso banco. L’inizio della vita scolastica fu per i due bambini il principio di una solida amicizia, che tennero nascosta alle loro famiglie. Essi procedevano per le strade della città tenendosi per mano e procedevano di pari passo anche nella vita: leggevano gli stessi libri, dividevano la colazione preparata dalle madri, ottenevano gli stessi voti.
Questo tenero idillio non poteva tuttavia durare a lungo. Erano ormai alla fine della scuola elementare, quando un parente, forse di Jean, forse di Hans, li vide seduti su una panchina mentre sfogliavano un libro e mangiavano insieme. Tornati a casa, i loro genitori non li rimproverarono, ma cominciarono a raccontare episodi lontani di guerra, quando i loro parenti erano stati uccisi sui campi di battaglia dai consanguinei dell’amico.
La grande amicizia tra Hans e Jean terminò in questo modo, trasformandosi in odio. Ora non sedettero più allo stesso banco, ma lontano l’uno dall’altro, senza guardarsi. È triste raccontarlo, ma essi non trovarono più alcun amico e a volte, soli nelle loro stanze, mentre dormivano, sognavano l’uno dell’altro, dei loro giochi infantili e della felicità perduta, e nel sonno le lacrime rigavano i loro giovani visi, sui quali iniziava ad apparire la prima peluria, segno inequivocabile della fine dell’adolescenza e dell’inizio della giovinezza.
La giovinezza non fu generosa con Hans e Jean. C’era nella cittadina un’agitazione insolita, la gente correva frettolosa, si vendevano sempre più giornali, nelle case si udivano grida, bestemmie, imprecazioni e finalmente la guerra scoppiò, per la gioia dei padri, felici di vedere in uniforme i loro figli e per la disperazione delle madri, incerte sul ritorno dei figli, ma anch’esse colpevoli di averli nutriti con l’odio.
Hans e Jean partirono per combattersi a vicenda. Morirono durante la prima e unica battaglia di una stupida e insensata guerra. Quale silenzio avvolse le loro case! Madri, padri e tutti gli altri familiari non avevano più lacrime e seguivano le bare stando vicini. Essi compresero finalmente la loro stupidità. Il tempio nel quale si celebravano le esequie dei due giovani non aveva più il tetto, perché anche quel luogo sacro era tra le vittime della guerra ed anche l’organo, che avrebbe dovuto accompagnare quelle due anime nell’ultimo viaggio, era stato completamente distrutto. Tutti i soldati, cittadini della città di confine, deceduti nella guerra, intraprendevano il viaggio nel mondo dei trapassati in silenzio. Quella privazione di musica solenne accresceva il senso di assenza. I genitori di Jean e Hans si accordarono per finanziare la costruzione di un nuovo organo e su due canne furono incisi i nomi dei due ragazzi. Altri padri e altre madri seguirono l’esempio. Nacque così il più grande organo del mondo.
I nomi di Hans e Jean erano su due canne vicine. L’amicizia che la stupidità aveva separato, il destino aveva riunito per l’eternità.
PICCOLA STORIA NOTTURNA
È noto che il grande scrittore praghese Franz Kafka scriveva soltanto di notte, perché di giorno era impegnato nel suo lavoro in una società di assicurazioni. Dalla sua angusta stanza, chino sulla scrivania, vergava fogli bianchi, incidendo sogni e incubi divenuti eterni. Non ebbe fortuna Kafka, non il successo che avrebbe meritato e pagò egli stesso la pubblicazione dei primi racconti in undici copie, delle quali acquistò dieci. Non seppe mai chi avesse comprato l’undicesima.
Nelle fredde notti praghesi, quando la neve si riflette sulla Moldava, lasciandola apparire una lunga strada bianca e luminosa, nelle taverne, tra l’odore di birra o nelle case, accanto ad un bel fuoco ardente, si racconta che il primo lettore di Franz Kafka si avventurasse tra i vicoli sghembi del ghetto per cercare il creatore dei sogni che lo avevano incantato. Si racconta ancora che nella stessa notte Franz Kafka uscisse dalla sua camera per cercare il suo primo lettore.
Si narra ancora che scrittore e lettore si siano persi tra le strette viuzze senza mai incontrarsi. Da quella notte essi non hanno mai fatto ritorno nelle loro case.
Molti, che come Kafka e il suo lettore, si sono spinti di notte nel ghetto, narrano di aver visto due ombre che s’inseguivano l’un l’altra. Molti di loro sono diventati ombre del ghetto …
TERRE INGRATE
È più facile che un cammelo passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli.
Il denaro è un sentimento.
Dorina stava seduta sull’ultima panchina della riva del fiume guardando immobile fissamente l’acqua; nessuna parte del suo giovane corpo si muoveva. In verità ella era vicina ai quarant’anni, ma il suo viso era roseo come quello di una studentessa di liceo, i suoi seni erano compatti e fiorenti, le gambe diritte e forti, eppure in quella immobilità qualcosa si muoveva: lacrime scendevano copiose sulle gote.
In lei il sentimento del denaro si era manifetato fin dall’infanzia: quando a scuola le altre bambine correvano, durante i dieci minuti di pausa, a comprare la merenda, Alexia teneva stretti i denari datele dai genitori per questa necessità e, una volta a casa, li riponeva nel suo bel porcellino di porcellana, che era, secondo la sua natura, l’unico vero amico che avesse, tanto che di notte si destava e scuoteva quel caro oggetto e il suo tintinnio le pareva la più armoniosa musica che potesse essere composta. Alexia aveva ottimi voti in tutte le discipline scolastiche, ma nella sua testa alla cima di ogni insegnamento c’erano la storia e la letteratura, ma soltanto per alcuni particolari: amava l’antica Roma e la Grecia classica, perché nel libro erano raffigurate le monete e nella letteratura era rimasta affascinata dal “Racconto di Natale” di Charles Dickens, tuttavia la sua compassione era indirizzata al vecchio avaro usuraio “Scrooge” e non alle sue vittime. E che passione la mitologia! Come invidiava Re Mida, il quale aveva avuto in premio, secondo lei, e non come condanna, di trasformare ogni cosa in oro con il semplice contatto di una mano! Sì, certo, le albe, i tramonti, i boschi, i fiumi erano meravigliosi, ma non erano opera del talento dell’uomo, invece il denaro, i gioielli d’oro ben lavorati erano frutto dell’intelligenza umana.
Ella non sapeva chi avesse inventato il denaro, ma aveva letto su qualche libro che era stato ideato in India e a quella terra lontana e misteriosa rivolgeva le sue preghiere di ringraziamento, senza che mai le sfiorasse l’idea che quelle orazioni fossero blasfeme.
Dorina era religiosa e spesso si recava in chiesa e si genufletteva dinanzi al crocifisso, ma poi il suo sguardo era attratto dagli aurei oggetti che emanavano uno scintillio il cui calore giungeva fino alla sua anima. Il pensiero allora vagava lontano, fino ai fiumi della distante America, dove uomini e donne cercavano il prezioso metallo con i loro setacci ed ella si vedeva insieme a quei cercatori, immersa nell’acqua fin alle ginocchia e sorrideva all’idea del proprio recipiente colmo d’oro. Alexia sentiva perfino il profumo di quel giallo metallo, come pure percepiva l’odore del denaro, fossero banconote o semplice metallo.
Ora invece stava seduta sola in quell’angolo di mondo con un libro in grembo la cui copertina raffigurava un uomo conosciuto tanto tempo prima.
Anche negli anni del liceo, della sua splendida giovinezza, Dorina aveva evitato gli sguardi innamorati dei ragazzi e aveva preparato il suo futuro, ammiccando non al giovane più attraente, bensì al più ricco ed al più capace di accumulare denaro. Ricordava bene i discorsi con il ragazzo che riguardavano sempre l’edificazione di una vita fondata sulla capacità di guadagnare e risparmiare denaro. Con quel giovane andava alle funzioni religiose e quando vicino a loro passava il sacrestano scuotendo il cesto della questua, le loro mani si ritraevano spaventate e sprofondavano nelle tasche, nascondendosi anche dinanzi a Dio, che è ovunque, ma forse non può giungere negli oscuri abissi di un pantalone o di una gonna. E lo stesso movimento delle mani avveniva allorché un mendicante tendeva il rugoso infreddolito palmo della mano, perché la povertà è una colpa, è il segno di un peccato commesso nel presente o in una vita precedente. Ed anche la morte prematura dei gentitori e del marito per Dorina era da attribuire a qualche condanna divina, sì che lei non aveva sofferto per la loro dipartita e, del resto, aveva avuto in premio la duplice cospicua eredità. Tutto, però, era andato perduto e quel volto che la guardava con tristezza dal libro la spingeva al pianto. Tutto era stato scritto dal destino. Il suo nome non era forse stato voluto dal fato? Ogni avvenimento tuttavia è inciso nel cielo, scritto tra le stelle, quale colpa aveva lei? Anche la catastrofe che l’aveva colpita era attribuibile alla necessità ineluttabile, come ciò che stava per accadere. Al volto dell’uomo del libro, ora se ne aggiungevano altri di esseri umani mal vestiti, curvi sotto il peso della povertà; non li vedeva però soltanto nella loro faccia, ma nella figura intera e le loro lacrime si confondevano con le sue. Ella aveva seguito il loro destino, eppure ancora non si sentiva colpevole, perché aveva soltanto sfruttato le occasioni.
Era stata un’illuminazione: pochi anni prima c’era stata la grande crisi; con la grande inflazione il denaro aveva perso ogni valore, ma Dorina non aveva pianto, aveva pensato e per strada, quando una mendicante aveva teso la mano nella speranza di ottenere qualche centesimo, aveva avuto l’idea. La donna che elemosinava, forse solo per un pezzo di pane per i suoi figli affamati, aveva al dito la fede d’oro e dai lobi delle orecchie pendevano aurei orecchini che si mescolavano ai bianchi stopposi capelli. La mano di Dorina si era ritratta, sebbene la sua bocca avesse pronunciato uno strano ringraziamento alla donna e al Signore, che aveva messo la mendicante sulla sua strada. Ci si può innamorare a prima vista e si può essere illuminati da un sentimento: in Dorina era il sentimento del denaro!
Riuscì, in quei tempi di miseria, ad aprire un banco di pegni e scelse una zona perferica della città, sia perché il costo del negozio era basso sia perché là c’era più miseria che nel centro. Non si era sbagliata: era la prima ad aprire e l’ultima a chiudere. I clienti non mancavano, e ben presto accumulò tanto oro da poter aprire negozi simili, anche se le dispiaceva non poter essere lei stessa la gestrice di tutti i suoi affari e dover pagare delle commesse, le quali la guardavano con invidia e chiedevano continuamente aumenti di stipendio, regolarmente rifiutati. Quale dolce commozione le scivolava nell’anima a sera, quando in solitudine apriva la cassaforte di uno dei suoi negozi e prendeva gli oggetti d’oro oppure contava il denaro, che avrebbe riacquistato valore entro pochi anni.
Ora, al contrario, erano lacrime amare quelle che le rigavano il volto. Iniziava a piovere e ad un passante sarebbe parso ben strano vedere una bella signora avvolta in una calda pelliccia che lasciava che le gocce, sempre più grosse e violente, le cadessero addosso, ma in quell’angolo Dorina era sola con le sue visioni: vedeva la mendicante dalla quale aveva acquistato la fede nuziale e gli orecchini per pochi spiccioli, ricordi di tempi migliori, memorie d’amore, e vedeva soprattutto l’uomo del libro, quando si era presentato nel banco di pegni, con un bel cappotto di cammelo e un bastone dal pomo dorato. L’uomo aveva venduto un orologio, ma poi si era fatto vedere altre volte ed ella aveva potuto costatare la progressiva consunzione del cappotto, la rinuncia al bastone, che lo aveva costretto a camminare curvo, le scarpe rotte.
Dinanzi a Dorina sfilava una mesta processione di sventurati, ai quali ella aveva dato un misero obolo, sufficiente per sfamarsi una sola volta. Sul libro aveva letto il nome dell’uomo, morto per suicidio, dopo aver scritto quella sua ultima opera. Lo scrittore aveva lasciato il volume sul banco, forse per dimenticanza, forse per una raffinata vendetta postuma. Dorina aveva saputo anche della mendicante, deceduta per assideramento in strada insieme alla sua bambina. E quanti altri dei suoi clienti avevano lasciato questo mondo? Ora li vedeva tutti dinanzi a sé, con le mani tese e gli occhi imploranti. Quanti destini avrebbe potuto cambiare con una banconota in più ed invece essi, quei destini, camminavano sull’acqua del fiume che sempre più s’ingrossava, e la chiamavano, non con la voce, bensì con lo sguardo, ed in testa al triste corteo l’uomo del libro, ed ella sentiva il profumo della prima volta che l’aveva visto e poi l’odore di sporcizia, che è esalazione di miseria.
Prima di seguire la processione le venne in mente una frase letta ai tempi del liceo:
“Il denaro! Mai invenzione arrecò più mali agli uomini”(1).
Note
1)Eschilo, Antigone.
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