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La poesia epica di Rocco Scotellaro
Marino Faggella
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1.Quando nel ’45 fu dato alle stampe Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, Rocco Scotellaro, che fu legatissimo all’autore di quel libro cui dovette in parte la sua fortuna(1), salutò con entusiasmo il romanzo ritenuto da lui non opera di evasione ma di verità, fino ad essere con gli anni non tanto un semplice memoriale ed un viatico quanto piuttosto un’autentica “bibbia” da leggere ai compagni di cella durante la dolorosa esperienza del carcere. Non è escluso che proprio questo romanzo di inchiesta, insieme al clima culturale dell’epoca, abbia contribuito ad avviare Rocco sulla strada dell’impegno e della letteratura militante fino a fargli abbracciare quasi con furore quella che egli definiva “la religione dei poveri” e a non fare distinzione fra la politica e la poesia.
Scotellaro che fin dal suo esordio aveva seguito l’esempio della poesia sinisgalliana, ad un certo punto si trovò ad una svolta, al bivio fra pura letterarietà ed impegno, tra “autonomia” ed “eteronomia” dell’arte. Finché negli anni che vanno dal 1947 al 1949 (Noi che facciamo coincide con questa data), convinto di aver trovato la sua fede politica, abbandonando ogni dubbio, mise da parte la “poesia pura” e si distaccò dal suo antico modello. Poi, dopo aver collocato la politica al primo posto, la trasferì all’interno della poesia facendo dell’arte uno strumento di battaglia, in quanto in quel tempo il diritto di entrare nella letteratura presupponeva quello di entrare nella storia: “E’ fatto giorno siamo entrati in gioco anche noi/con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”.
Proprio negli anni in cui Rocco fu sindaco del suo paese (1946) egli veniva realizzando “quell’impegno sociale, civile e politico” che nei mesi successivi alla caduta del fascismo, fu il verbo del nuovo intellettuale che, dopo un ventennio di isolamento di letteratura consolatoria, aderiva al progetto di una cultura liberatoria (Caserta). In quegli anni “si tornava ad andare verso il popolo; anzi si voleva essere popolo. La stessa poesia nazionale abbandonava perciò i toni lirici e soggettivi, per farsi epica e corale”(ivi). Scotellaro non poteva mancare: “Anch’io c’ero in mezzo nei lunghi giorni di fuga e di sole./Mia madre dorme a un’ora di notte/e sogna le mie guerre nella strada/irta di unghie e di spade”…(Le nenie).
2.Erano gli anni della Riforma Fondiaria, la risposta della classe politica nazionale alla fame di terra dei contadini meridionali, che anche nel Sud combattevano le loro battaglie, talvolta epiche, e che ebbero, come accade in tutte le guerre, i loro caduti(2). Rocco Scotellaro fu il corifeo di queste lotte e i suoi canti furono canti di esaltazione, se non veri e propri “embatèria” (canti di marcia): “A passi volenterosi/siamo giunti io e te/come truppe di riserva/compagno di Bernalda /e possiamo solo emettere un grido./Sperduti siamo in questo mezzogiorno/nella lunga mulattiera (…)/dietro le agavi i padroni/puntano i fucili….” (Primo sciopero 1947) o epicedi: “Vide la morte cogli occhi e disse:/non mi lasciate morire/con la testa sull’argine/della rotabile bianca./… non lasciatemi la notte/con una coperta sugli occhi…/non so chi m’ha ucciso/portatemi a casa/…portatemi sul letto/dove è morta mia madre (Per un giovane amico assassinato).
Abbiamo non pochi esempi di questa poesia di Rocco che si fa Marsigliese, ma solo con Noi che facciamo (1949) abbiamo l’atto di consacrazione, quasi il manifesto letterario della lirica politica e di Scotellaro:
“Ci han gridato la croce addosso i padroni
per tutto che accadde e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati….
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti….
anche le mandrie rompono gli stabbi….
Noi che facciamo?
noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
In Novena di giugno (1945) che con buona ragione può ritenersi la prima tappa, quasi l’incunabolo di questa poesia politica, Rocco descrive il tragico clima del suo paese nel 1945, il dramma e la delusione dei reduci nel dopoguerra:”Questa è la solita strofa che ogni mattino-dopo le morti abbondanti in ogni casa di quest’anno-intonano gli uomini stanchi innanzi al nuovo cammino.
…………..
“Ad occhi chiusi i miei paesani
partono nei campi le corriere
turbano il silenzio che li accompagna;
i vecchi discendono nei giardini in faccia al sole,
e i merciai sulle piazze
le mani si fregano con gli oggetti svenduti
e fabbri pestano lo scatolame
e i reduci borbottano nelle Camere del Lavoro.
Nessuno più prega
ma braccia infinite assiepano i campi di grano”.
Così lo scrittore sintetizzava lo stesso dramma nel primo capitolo de L’uva puttanella: “La calma stagnante del fascismo fu rotta dai primi reduci della prigionia che vennero a raccontare la tragedia della guerra. Contadini artigiani i più, furono essi i primi ad associarsi nel principio della sconfitta patita dall’Italia e dalla sventura eterna dei loro paesi non toccati dalla guerra, ma sempre più poveri e più abbandonati. Volevano lavoro e assistenza a costo del sacrificio dei benestanti”.
3.Primo sciopero e Ci mettiamo a maledire insiem scandiscono le fasi successive del malcontento dei braccianti e dei contadini e le prime agitazioni che vedono in prima fila anche le donne: “Siamo nel mese innanzi alla raccolta:/brutto umore all’uomo sulla piazza/appena al variare dei venti/e le donne si muovono dalle case/capitane di vendetta/Gridano al comune…” In Sempre nuova è l’alba (1948) il poeta, pur convinto che il dramma della sua terra, sullo sfondo amaro della miseria, ha un sapore amaro, non abbandona la speranza, credendo ancora nella lotta:
Non gridatemi più dentro
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato…
Noi nei sentieri non si torna indietro
altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova…
.L’alba è nuova, è nuova.
Ma Scotellaro, che come militante socialista aveva condiviso le lotte dei braccianti-contadini e la loro fame di terre fino a chiedere che il latifondo fosse diviso per consegnare la stessa terra nelle mani di quelli che secondo lui avevano il diritto di possederla, e come poeta aveva cantato la loro epopea (“Noi che facciamo? Noi pur cantiamo la canzone/della nostra redenzione”), subì le prime amare sconfitte, provò la delusione nel vedere vanificata l’aspirazione dei quotisti ai quali nel migliore dei casi toccarono le terre peggiori ed più aride:
“Hanno incendiato le coste dei monti
di fiaccole a olio
scortano il cammino dei muli
tra gli specchi delle pietre e i pantani.
Sono i quotisti affamati
nella processione notturna….
Vengono alla terra gravida
e i solchi son numeri e segni
e sventola la giacca di velluto
su una canna
bandiera alla miseria contadina (Capostorno 1947).
L’inaspettata e clamorosa sconfitta nel 1948 del cosiddetto”fronte popolare”, che aveva riunito in un cartello tutti i partiti della sinistra, fece crollare le sue residue speranze. Allora Rocco compose la nota lirica Pozzanghera nera il 18 Aprile:
“Carte abbaglianti e pozzanghere nere….
han pittato la luna
sui nostri muri scalcinati!...
E’ finita, è finita, è finita
quest’altra orrida festa
siamo qui solo a gridare la vita
siamo soli nella tempesta…
I portoni sono sbarrati
si sono spalancati i burroni.
Oggi ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba
la turba dei pezzenti….”
Qui con amarezza egli denunciava la sua sconfitta politica, ed effondeva la sua rabbia per l’immobilità, la mancanza di giustizia di quel mondo che, con tutto il suo impegno di politico e di poeta, non era riuscito a modificare(3). Tutto ciò è confermato da alcune liriche del poeta che insistono volutamente sul dato dell’immobilità, sulla immodificabilità della dolorosa condizione degli uomini del Sud, una realtà che si svolge così lentamente che neppure la morte riesce a cambiare:
“Oh! Qui nessuno è morto!
Nessuno da noi ha cambiato toletta
e i contadini portano le ghette
di tela quelle stesse di una volta.
Oh! Qui non si può morire (Invito).
Non senza significato nell’ultima strofa di Pozzanghera Nera questo dato dell’assenza di progresso è così riassunto con tragica icasticità:
“Oggi e ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba/la turba dei pezzenti…
quelli che strappano ai padroni/le maschere coi denti”.
In una situazione del genere caratterizzata da un’assoluta immobilità gli uomini non sono liberi ma sono schiavi comprati che nella notte camminano in silenzio legati alla catena: “La processione è cominciata/già nella notte./vedo la fila dei mietitori…”. È questo il prezzo che pagano ai padroni. E quando si fa chiaro, se si rompe il silenzio, “le voci sono le maledizioni/dei mietitori contro il sole”.
A modificare questa visione così immobile della realtà non sarebbe stata sufficiente né l’antica religione dei padri né la successiva conversione alla fede laica del marxismo. Sentimenti analoghi di delusione sono registrati in alcune pagine di Contadini del Sud che sono una specie di bilancio della sconfitta del poeta-contadino che si era illuso di poter cambiare la realtà conducendo su due fronti la lotta, dall’esterno come agitatore politico e dall’interno dello stato come sindaco: “L’uomo non spera tanto da uno Stato ma almeno la coadiuvazione, come figlio, dalla propria patria. Mentre quale godimento ho ricavato dallo Stato dopo averlo servito con tutta la mia forza e persino con il mio sangue, dopo le guerre vinte e perse? Perché questa oscillazione? Io mi vedo sempre decadente e i signori della burocrazia fanno progresso di lucro di giorno in giorno, o si vinca o si perda…La catastrofe piomba sempre sul povero, per il ricco è sempre lo stesso”.
4. Purtroppo dopo il fallimento politico gli sarebbero toccate altre sconfitte e prove ben più dolorose: prima la prigione, subita nel 1950, che contribuirà, come lui dice, a far”cadere le maiuscole”, cioè gli ultimi sogni e le residue speranze, poi l’esilio volontario dalla sua terra che segnerà anche l’abbandono della poesia politica e militante determinando per converso un felice ritorno alla poesia del ricordo, intimista, autenticamente lirica e non mescolata ad altri elementi estranei.
Proprio nei componimenti dell’ultimo periodo (1950-1953), si trovano, a nostro modo d’intendere, gli esiti artistici più convincenti, quando, come sostiene Vitelli:” l’urgenza della polemica sociale si è stemperata in segreto nutrimento, allontanato definitivamente il rischio del populismo”. E ciò accade già in Passaggio alla città (Roma 1 luglio 1950):
“Ho perduto la schiavitù contadina
non mi farò più un bicchiere contento
Ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio…
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram…
Addio, come addio? distese ginestre
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo…
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato….”
Questa lirica, come giustamente si sostiene, apre la strada alla più vera poesia di Scotellaro che solo ora, “quando il distacco dalla sua terra si atteggia nella sua coscienza di poeta contadino come senso doloroso di un peccato, come tristezza dell’emigrato che contempla di lontano il suo mondo perduto” (De Castris) trova, si può dire, i suoi più sentiti e personali accenti. Ma il rifugio poetico non venne tuttavia a risolvere le sue contraddizioni, anzi mise allo scoperto il vero e più autentico dubbio dello scrittore: le difficoltà di conciliare in sé l’intellettuale e il poeta. Difficoltà che anzi ora risorgevano in modo più stridente e drammatico ponendo allo scoperto i limiti dell’intellettuale che non riusciva a compensare le carenze dell’azione politica neppure con la consolazione e il rifugio nella sua memoria lirica. In tal senso Scotellaro “doveva pagare sulla sua pelle di uomo e di scrittore, lo scotto delle contraddizioni, dei ripensamenti, delle paure, delle involuzioni, delle sofferenze di un intellettuale meridionale per il quale la letteratura non è un gioco di scrivania” (Martelli). Venne infine la morte prematura (15 dicembre 1953) a liberarlo da ogni dubbio, che fece trarre alla madre questi accenti: “Anche dopo cent’anni morto non lo dimenticherò mai./Peccato morire così giovane/non ancora compito trentun anni/tutto il popolo l’ha pianto”.
Lo pianse allora il popolo e lo rimpiansero poi a lungo i suoi amici, primo fra tutti il suo”fratellastro” Carlo Levi: “Sono passati dieci anni dal giorno della morte di Rocco Scotellaro e dal lamento funebre antico che lo accompagnò al cimitero sul Basento: morte così ingiusta e improvvisa da non essere creduta vera dai contadini, o ritenuta, come tutte le più gravi sventure, un tradimento degli uomini e un capriccio funesto del cielo nemico”.
Sarà lo stesso Levi a dare origine al mito del poeta-contadino che poi, più per ragioni politiche che artistiche, i suoi compagni di partito si preoccuperanno di alimentare. Queste ultime motivazioni contribuiscono probabilmente a fornirci le ragioni dell’attuale eclissi sia del mito sia della fortuna di Scotellaro, a tal punto che attualmente sono molto scarse le risonanze che vengono dalle sue opere, soprattutto in quanto la maggior parte degli scritti del poeta di Tricarico risultano per lo più datati, nel senso che si riferiscono prevalentemente ad una particolare epoca: quel breve lasso tempo nel quale si consumò la sua esistenza.
5. Di tutte le opere di Scotellaro in effetti sono proprio le poesie politiche quelle che maggiormente risultano lontane da noi, non solo per i contenuti (il messaggio politico) ma anche per i generali valori dell’arte. I temi politici del resto, proprio per la loro natura, meglio si addicono ad altri generi piuttosto che alla lirica. Lo dimostra il fatto che quando i poeti, dai Greci a noi, hanno scelto di porre in versi i concetti politici raramente hanno toccato i vertici della poesia, anzi, al contrario, ponendosi l’intento pratico persuadere hanno ridotto la “noble art” delle muse a propaganda asservendola o ad un’ideologia o, quel che è peggio, alla logica di un partito. In genere la politica è prassi o al massimo teoria, quando se ne sono occupati i filosofi, o scienza quando è capitata nelle mani di uno come Machiavelli, una volta sola è stata arte: nell’immortale opera di Dante.
Anche alla luce di queste conclusioni possiamo dire: che le poesie politiche di R.Scotellaro sono la parte più deperibile della sua opera di poeta; che egli certamente scrisse le sue cose più interessanti, le sue liriche più belle, solo quando, deposta la fanfara politica, in modo più dimesso ritornò con le ultime poesie del ricordo al vero canto lirico, alla più intima ed autentica poesia, la quale non può che essere soggettiva. Ci tormenta comunque l’interrogativo: la poesia epica di Scotellaro fu “poesia politica” o “poesia della politica”? Qualunque sia la risposta che se ne voglia dare, essa merita comunque di essere analizzata quale documento storico-letterario del suo tempo.
NOTE
1) Fu proprio Carlo Levi, che fu legato sempre fino alla morte da affetto e considerazione sincera nei riguardo del poeta, a far nascere il mito di Rocco Scotellaro, che fu poi alimentato, anzi fu un mito artificiosamente costruito dai suoi amici di partito.
2) A Montescaglioso,la Melissa del Sud, cadde Giuseppe Novello, falciato in occasione di un’agitazione di piazza. L’episodio è cantato da Scotellaro nella lirica Montescaglioso.
3) Sentimenti analoghi sono registrati in alcune pagine di Contadini del Sud che sono una specie di bilancio della sconfitta del poeta-contadino che si era illuso di poter cambiare la realtà conducendo su due fronti la lotta, dall’esterno come agitatore politico e dall’interno dello stato come sindaco:”L’uomo non spera tanto da uno Stato ma almeno la coadiuvazione, come figlio, dalla propria patria. Mentre quale godimento ho ricavato dallo Stato dopo averlo servito con tutta la mia forza e persino con il mio sangue, dopo le guerre vinte e perse? Perché questa oscillazione? Io mi vedo sempre decadente e i signori della burocrazia fanno progresso di lucro di giorno in giorno, o si vinca o si perda… La catastrofe piomba sempre sul povero, per il ricco è sempre lo stesso”.
gennaio 2011
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