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Il meraviglioso terribile mondo di Hans Christian Andersen
Mario Amato
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1 - La piccola fiammiferaia
C'era un freddo terribile, nevicava e cominciava a diventare buio; e era la sera dell'ultimo dell'anno. Nel buio e nel freddo una povera bambina, scalza e a capo scoperto, camminava per la strada; aveva le ciabatte quando era uscita da casa, ma a che cosa le sarebbero servite? Erano troppo grandi per lei, tanto grandi che negli ultimi tempi le aveva usate la mamma. E ora la piccola le aveva perdute subito, quando due carri che passavano a forte velocità l'avevano costretta a attraversare la strada di corsa. Una ciabatta non riuscì più a ritrovarla, e l'altra se la prese un ragazzo, dicendo che l'avrebbe usata come culla quando avesse avuto dei figli.
Ora la bambina camminava scalza, e i suoi piedini nudi erano viola per il freddo; in un vecchio grembiule aveva una gran quantità di fiammiferi e ne teneva un mazzetto in mano. Per tutto il giorno non era riuscita a vendere nulla e nessuno le aveva dato neppure una monetina; era lì affamata e infreddolita, e tanto avvilita, poverina!
I fiocchi di neve si posavano tra i suoi lunghi capelli dorati, che si arricciavano graziosamente sul collo, ma lei a questo non pensava davvero. Le luci brillavano dietro ogni finestra e per la strada si spandeva un delizioso profumino di oca arrosto: era la sera dell'ultimo dell'anno, e proprio a questo lei pensava.
A un angolo della strada formato da due case, una più sporgente dell'altra, sedette e si rannicchiò, tirando a sé le gambette, ma aveva ancora più freddo e non osava tornare a casa. Temeva che suo padre l'avrebbe picchiata, perché non aveva venduto nessun fiammifero e non aveva neppure un soldo.
E poi faceva così freddo anche a casa! Avevano solo il tetto sopra di loro e il vento penetrava tra le fessure, anche se avevano cercato di chiuderle con paglia e stracci.
Le manine si erano quasi congelate per il freddo. Ah! forse un fiammifero sarebbe servito a qualcosa. Doveva solo sfilarne uno dal mazzetto e sfregarlo contro il muro per scaldarsi un po' le dita.
Ne prese uno, e "ritsch", contro il muro. Come scintillava! come ardeva! era una fiamma calda e chiara e sembrava una piccola candela quando lo circondava con le manine. Che strana luce! La bambina credette di trovarsi seduta davanti a una stufa con i pomelli d'ottone, e il fuoco bruciava e scaldava così bene! No, che succede? Stava già allungando i piedini per scaldare un po' anche quelli, quando la fiamma scomparve. E con la fiamma anche la stufa.
E si ritrovò seduta per terra, con un pezzetto di fiammifero bruciato tra le mani.
Subito ne sfregò un altro, che illuminò il muro rendendolo trasparente come un velo. Così poté vedere nella stanza una bella tavola imbandita, con una tovaglia bianca e vasellame di porcellana e un'oca arrosto fumante, ripiena di prugne e di mele! All'improvviso l'oca saltò giù dal vassoio e si trascinò sul pavimento, già con la forchetta e il coltello infilzati nel dorso, proprio verso la bambina: ma in quell'istante il fiammifero si spense e davanti alla bambina rimase solo il muro freddo. Allora ne accese un altro. E si trovò ai piedi del più bello degli alberi di Natale. Era ancora più grande e più decorato di quello che aveva visto l'anno prima attraverso la vetrina del ricco droghiere; migliaia di candele ardevano sui rami verdi e figure variopinte pendevano dall'albero, proprio come quelle che decoravano le vetrine dei negozi.
Sembrava guardassero verso di lei. La bambina sollevò le manine per salutarle, ma il fiammifero si spense. Le innumerevoli candele dell'albero di Natale salirono sempre più in alto, fino a diventare le chiare stelle del cielo; poi una di loro cadde, formando nel buio della notte una lunga striscia di fuoco. «Ora muore qualcuno!» disse la bambina, perché la sua vecchia nonna, l'unica che era stata buona con lei, ma che ora era morta, le aveva detto: «Quando cade una stella, allora un’anima va al Signore».
Accese un altro fiammifero che illuminò tutt'intorno, e in quel chiarore la bambina vide la nonna, lucente e dolce!
«Nonna!» gridò «oh, prendimi con te! So che tu scomparirai quando il fiammifero si spegne, scomparirai come è scomparsa la stufa, l'oca arrosto, l'albero di Natale!»
E accese tutti gli altri fiammiferi che aveva nel mazzetto, perché voleva mantenere la visione della nonna; e i fiammiferi arsero con un tale splendore che era più chiaro che di giorno.
La nonna non era mai stata così bella, così grande. Trasse a sé la bambina e la tenne in braccio, insieme si innalzarono sempre più nel chiarore e nella gioia. Ora non c'era più né freddo, né fame, né paura: si trovavano presso Dio.
La bambina venne trovata il mattino dopo in quell'angolo della strada, con le guance rosse e il sorriso sulle labbra. Era morta, morta di freddo l'ultima sera del vecchio anno. L'anno nuovo avanzava sul suo piccolo corpicino, circondato dai fiammiferi mezzo bruciacchiati.
«Ha voluto scaldarsi» commentò qualcuno, ma nessuno poteva sapere le belle cose che lei aveva visto, né in quale chiarore era entrata con la sua vecchia nonna, nella gioia dell'Anno Nuovo!
La piccola fiammiferia, un mondo senza speranza
Tutti sanno che le fiabe nascondono un senso profondo, ma quelle di Hans Christian Andersen contengono spesso anche denunce sociali. È il caso della fiaba “La piccola fiammiferaia”.
Già all’inizio le condizioni meteorologiche sono terribili: neve, freddo, oscurità. Appare una bambina, povera, scalza e a capo scoperto. Il narratore non dice né dove né quando si svolga la storia, ma indica genericamente una strada.
Le fiabe si svolgono sempre in un tempo ideale, ma nella storia di Andersen un’indicazione temporale, tuttavia non storica, è presente: la sera dell’ultimo dell’anno.
Bruno Bettelheim ha scritto che il suo grande maestro Sigmund Freud dichiarava che gli scrittori avevano intuito molto prima ciò che egli aveva scoperto scientificamente(1).
È dunque un giorno di festa è ciò accentua la sensazione di solitudine. La bambina, infatti, pensa alla festa. Andersen precisa che la piccola aveva delle calzature, ma le aveva perse per colpa di due carri che transitavano ad alta velocità. I due carri suggeriscono che la storia si svolga in città.
Andersen, nato in una piccola cittadina, contrappone la vita paesana, regolata da abitudini secolari, alla moderna città, che rende anonimi. Lo scrittore danese conosceva per esperienza personale la miseria. La fretta, scrive Stefan Zweig(2), era una categoria sconosciuta nell’Ottocento, ma le moderne metropoli sono un inno continuo alla sollecitudine. La premura è tuttavia stretta alleata dell’indifferenza. Il pensiero è di per sé riflessione ponderata e calma: nella fretta i particolari si perdono, si confondono nel tutto.
È ciò che accade alla bambina dei fiammiferi: ella è una vita marginale, della quale nessuno si avvede. Ella è una rappresentante del sottoproletariato, perché anche nella sua casa fa freddo, è uno di quegli esseri umani che i benestanti sfiorano ogni giorno, senza voltarsi, senza farsi domande.
Possiamo immaginare la casa della bambina dalla breve discrezione dell’autore: una baracca con un misero tetto, senza vetri. È una di quelle abitazioni che sorgono nelle periferie delle grandi città, ricettacoli di criminali, disoccupati, barboni, disperati. Nonostante tutto, la piccola fiammiferaia desidera tornare a quella che considera casa, ma non può farlo, perché teme di essere picchiata, qualora si presenti senza denaro.
Appare ora la denuncia più terribile: il mondo soggiace alla logica del denaro. Nel paese non si muore di fame, ma questo mondo, dove la fiammiferaia vaga, non ha rispetto per nessuna vita, neanche per una innocente creatura. Il denaro è un Dio senza pietà, senza anima, senza carità. È anche un mondo nel quale i sogni sono proibiti: cosa succede alla bambina? La sua unica ricchezza è costituita da una scatola di fiammiferi, che dovrebbe vendere, ma è così freddo che ella ne accende uno e crede essere vicino ad una calda stufa. Illusione breve quanto la fiamma del fiammifero; poi ne accende un altro e vede una tavola imbandita, un’oca arrosto pronta per essere mangiata.
Siamo ancora di fronte ad una denuncia sociale: il bisogno primario dell’uomo è l’alimentazione. Non siamo lontano dagli anni in cui Ludwig Fuerbach scrive “Der Mensch ist daβ iβt” (L’uomo è ciò che mangia).
Siamo però in una storia che ha per protagonista una bambina ed ella vede, all’accensione di un altro fiammifero, un albero di Natale, ben addobbato, un albero che sicuramente nella sua baracca manca. I bambini hanno il diritto di sognare e di ricevere doni da Babbo Natale! La povertà nega anche questo diritto.
L’ultima visione della piccola fiammiferaia è l’apparizione della nonna morta, l’unica persona che le aveva mostrato affetto. La disperazione induce la bambina ad accendere tutti i fiammiferi e per questo muore assiderata. La denuncia di Andersen è chiara: “«Ha voluto scaldarsi» commentò qualcuno”.
Qualcuno commenta, anonimamente, perché in fondo per i passanti la fiammiferaia è una creatura predestinata, forse non per Andersen, che la fa entrare in un mondo fantastico.
Povertà, sottoproletariato, spietata logica del denaro, baraccopoli! Quanta modernità!
Note
1) Bettelheim Bruno, Freud e l'anima dell'uomo, Feltrinelli
2) Zweig Stefan, Il mondo di ieri, Garzanti, 1994
2 - Il soldatino di stagno
C'erano una volta venticinque soldati di stagno, tutti fratelli tra loro perché erano nati da un vecchio cucchiaio di stagno. Tenevano il fucile in mano, e lo sguardo fisso in avanti, nella bella uniforme rossa e blu. La prima cosa che sentirono in questo mondo, quando il coperchio della scatola in cui erano venne sollevata, fu l'esclamazione: «Soldatini di stagno!» gridata da un bambino che batteva le mani; li aveva ricevuti perché era il suo compleanno, e li allineò sul tavolo.
I soldatini si assomigliavano in ogni particolare, solo l'ultimo era un po' diverso: aveva una gamba sola perché era stato fuso per ultimo e non c'era stato stagno a sufficienza! Comunque stava ben dritto sulla sua unica gamba come gli altri sulle loro due gambe e proprio lui ebbe una strana sorte.
Sul tavolo dove erano stati appoggiati c'erano molti altri giocattoli, ma quello che più attirava l'attenzione era un grazioso castello di carta. Attraverso le finestrelle si poteva vedere nelle sale. All'esterno si trovavano molti alberelli intorno a uno specchietto che doveva essere un lago; vi nuotavano sopra e vi si rispecchiavano cigni di cera. Tutto era molto grazioso, ma la cosa più carina era una fanciulla, in piedi sulla porta aperta del castello; anche lei era fatta di carta, ma aveva la gonna di lino finissimo e un piccolo nastro azzurro drappeggiato sulle spalle con al centro un lustrino splendente, grande come il suo viso. La fanciulla aveva entrambe le mani tese in alto, perché era una ballerina, e aveva una gamba sollevata così in alto che il soldatino di stagno, non vedendola, credette che anch'ella avesse una gamba sola, proprio come lui.
"Quella sarebbe la sposa per me!" pensò "ma è molto elegante e abita in un castello; io invece ho solo una scatola e ci abitiamo in venticinque, non è certo un posto per lei! Comunque devo cercare di fare conoscenza!"
Si stese lungo com'era dietro una tabacchiera che si trovava sul tavolo; da lì poteva vedere bene la graziosa fanciulla che continuava a stare su una gamba sola, senza perdere l'equilibrio.
A sera inoltrata gli altri soldatini di stagno entrarono nella scatola e gli abitanti della casa andarono a letto. Allora i giocattoli cominciarono a divertirsi: si scambiavano visite ballavano, giocavano alla guerra. I soldatini di stagno rumoreggiavano nella scatola, perché desideravano partecipare ai divertimenti, ma non riuscirono a togliere il coperchio. Lo schiaccianoci faceva le capriole e il gesso si divertiva sulla lavagna, facevano un tale rumore che il canarino si svegliò e cominciò a parlare in versi.
Gli unici che non si mossero affatto furono il soldatino di stagno e la piccola ballerina; lei si teneva ritta sulla punta del piede con le due braccia alzate, lui con pari tenacia restava dritto sulla sua unica gamba e gli occhi non si spostavano un solo momento da lei.
Suonò mezzanotte e tac... si sollevò il coperchio della tabacchiera, ma dentro non c'era tabacco, bensì un piccolissimo troll nero, perché era una scatola a sorpresa.
«Soldato!» disse il troll «smettila di guardare gli altri!».
Ma il soldatino finse di non sentire.
«Aspetta domani e vedrai!» gli disse il troll.
Quando l'indomani i bambini si alzarono, il soldatino fu messo vicino alla finestra e, non so se fu il troll o una folata di vento, la finestra si aprì e il soldatino cadde a testa in giù dal terzo piano. Fu un volo terribile, a gambe all'aria, poi cadde sul berretto infilando la baionetta tra le pietre.
La domestica e il ragazzino scesero subito a cercarlo, ma sebbene stessero per calpestarlo, non riuscirono a vederlo. Se il soldatino avesse gridato: «Sono qui!» lo avrebbero certamente trovato, ma lui pensò che non fosse bene gridare a voce alta perché era in uniforme. Cominciò a piovere, le gocce cadevano sempre più fitte e venne un bell'acquazzone: quando finalmente smise di piovere arrivarono due monelli.
«Guarda!» disse uno «c'è un soldatino di stagno! adesso lo facciamo andare in barca.»
Fecero una barchetta con un giornale, vi misero dentro il soldatino e lo fecero navigare lungo un rigagnolo; gli correvano dietro battendo le mani. Dio ci salvi! Che ondate c'erano nel rigagnolo, e che corrente! Tutto a causa dell'acquazzone. La barchetta andava su e giù e ogni tanto girava su se stessa così velocemente che il soldatino tremava tutto, ma ciò nonostante, tenace com'era, non batté ciglio, guardò sempre davanti a sé e tenne il fucile sotto il braccio.
Improvvisamente la barchetta si infilò in un passaggio sotterraneo della fogna; era così buio che al soldatino sembrava d'essere nella sua scatola.
«Dove sto andando?» pensò. «Sì, tutta colpa del troll! Ah, se solo la fanciulla fosse qui sulla barca con me, allora non mi importerebbe che fosse anche più buio.»
In quel mentre sbucò fuori un grosso ratto, che abitava nella fogna.
«Hai il passaporto?» chiese. «Tira fuori il passaporto!» Ma il soldatino restò zitto e tenne il fucile ancora più stretto. La barchetta passò oltre e il ratto si mise a seguirla. Hu! come digrignava i denti e gridava alle pagliuzze e ai trucioli: «Fermatelo! Fermatelo! non ha pagato la dogana! non ha mostrato il passaporto!».
Ma la corrente si fece sempre più forte e il soldatino scorgeva già la luce del giorno alla fine della fogna, quando sentì un rumore terribile, che faceva paura anche a un uomo coraggioso; pensate, il rigagnolo finiva in un grande canale, e per il soldatino era pericoloso come per noi capitare su una grande cascata.
Ormai era così vicino che gli era impossibile fermarsi. Si irrigidì più che poté, perché nessuno potesse dire che aveva avuto paura. La barchetta girò su se stessa tre, quattro volte e ormai era piena di acqua fino all'orlo e stava per affondare. Il soldatino sentiva l'acqua arrivargli alla gola, e la barchetta affondava sempre più; la carta intanto si disfaceva. L'acqua gli coprì anche la testa -allora pensò alla graziosa ballerina che non avrebbe rivisto mai più, e si sentì risuonare nelle orecchie:
“Addio, bel soldatino morir dovrai anche tu.”
La carta si disfece del tutto e il soldatino di stagno andò a fondo, ma subito venne inghiottito da un grosso pesce.
Oh, com'era buio là dentro! ancora più buio che nella fogna, e poi era così stretto; ma il soldatino era tenace e restò lì disteso col fucile in spalla.
Il pesce si agitava in modo terribile, poi si calmò e fu come se un lampo lo attraversasse. La luce ormai splendeva e qualcuno gridò: «Il soldatino di stagno!». Il pesce era stato pescato, portato al mercato, venduto e portato in cucina dove una ragazza lo aveva tagliato con un grosso coltello. Prese con due dita il soldatino e lo portò in salotto dove tutti volevano vedere quell'uomo straordinario che aveva viaggiato nella pancia di un pesce; ma lui non si insuperbì. Lo misero sul tavolo e... oh, che stranezze succedono nel mondo! il soldatino si trovò nella stessa sala in cui era stato prima, vide gli stessi bambini e i giocattoli che erano sul tavolo, il bel castello di carta con la graziosa ballerina, che ancora stava ritta su un piede solo e teneva l'altro sollevato; anche lei era tenace e questo commosse il soldatino che stava per piangere lacrime di stagno, ma questo non gli si addiceva. La guardò, e lei guardò lui, ma non dissero una sola parola.
In quel mentre uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa, e proprio senza alcun motivo, sicuramente era colpa del troll della tabacchiera.
Il soldatino vide una gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore. I suoi colori erano ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena d'amore? Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente. Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito.
Il soldatino di stagno, la ferita inguaribile
È anomala la nascita dei soldatini di stagno nel racconto di Andersen: essi non sono eroi e non hanno la nobiltà dei soldatini di piombo e per questo non potrebbero far parte di un’elegante collezione, come quelle che si trovano nelle case dei ricchi. I soldatini di piombo, infatti, sono in genere dipinti a mano e l’artigiano forgiatore è attento a dare differenze, in modo che possano essere riconosciuti. I soldatini di Andersen, al contrario, sono tutti uguali, probabilmente perché costruiti in fretta. È da supporre che la storia, ancora una volta, si svolga in una casa di persone prive di mezzi economici. Il bambino che riceve questi miseri giocattoli è comunque felice. La povertà della famiglia – Andersen non precisa se l’artigiano sia il padre o la madre – è suggerita anche dall’unico soldatino privo di una gamba, non per essere stato ferito in guerra, bensì per mancanza di stagno. Il piccolo milite è tuttavia orgoglioso e sta ben diritto sulla sua unica gamba, ma ahimè, quando giunge la notte si innamora di una ballerina – ovviamente un giocattolo – che sta eseguendo un passo di danza, sì che il soldatino crede che anch’ella viva la sua stessa condizione.
Abbiamo dunque nel racconto una terribile contrapposizione: da una parte un mutilato, un essere – come si direbbe nei nostri tempi – dotato di diverse abilità, dall’altra una rappresentante della bellezza, come suggerisce anche il suo raffinato abbigliamento. Il soldatino non demorde: egli non attribuisce la difficoltà della conquista alla sua mutilazione, bensì alla miseria, perché abita insieme con altri ventiquattro soldati.
Ci sono quindi due grida di protesta: l’urlo del soldatino che si ribella alla povertà e quello del narratore che desidera la cosiddetta normalità per il suo personaggio. Nell’Ottocento era cosa abituale tenere nascosti i disabili o addirittura abbandonarli in istituti, nei quali venivano trattati peggio delle bestie (1). Andersen proclama il diritto all’amore per un mutilato.
Un troll richiama il soldatino di stagno alla realtà, gridandogli di smettere di guardare la bella fanciulla. Non è certo un caso che sia un essere rozzo e brutto a dire al milite che la ballerina non è per lui. Il troll richiama il soldatino di stagno al mondo dell’ombra, là dove sono tutti gli esclusi dalla bellezza.
Più la storia va avanti, più diviene tragica: il soldatino viene messo sul davanzale della finestra e cade, forse per una folata di vento, forse per un colpo del troll. Non grida perché è in uniforme: nonostante la disavventura, egli si comporta da perfetto soldato, perché non è bene che un rappresentante dell’esercito chieda aiuto. Egli è tuttavia alla mercé di chiunque ed infatti due monelli lo mettono in una barchetta di carta, costruita con dei giornali, e lo infilano nella fogna.
Nel romanzo di Dora Lessing, “Il quinto figlio”, gli istituti per disabili sono sporchi e degradati come fogne(2).
Dopo varie peripezie il soldatino torna come per miracolo nella stessa stanza che aveva visto la sua nascita. Sembra che per una volta Andersen voglia donare ai lettori e ai suoi personaggi un happy end, invece un bambino prende il soldatino di stagno e lo getta nella stufa, seguito subito dopo dalla ballerina. Essi muoiono insieme, come si addice alle vere tragedie d’amore, e non resta che un cuoricino di stagno e un lustrino bruciato.
Resta l’indifferenza alla vita altrui, a quelle vite segnate dalla disgrazia fin dalla nascita.
NOTE
1) Vedi, Dora Lessing, Il quinto figlio, Feltrinelli, 2000
2) Op. cit.
3 - Il bambino cattivo
C'era una volta un vecchio poeta, proprio un buon vecchio poeta. Una sera che era in casa, venne un tempo bruttissimo, la pioggia scendeva a scroscio, ma il vecchio poeta stava bene al caldo vicino alla stufa, dove la legna bruciava e le mele cuocevano.
«Saranno proprio fradici quei poveretti che si trovano fuori adesso!» disse, perché era proprio un buon poeta.
«Oh, apritemi! Sto congelando e sono bagnato fradicio!» gridò un bambinetto che si trovava fuori. Piangeva e bussava alla porta, mentre la pioggia continuava a cadere e il vento soffiava contro le finestre.
«Poverino!» esclamò il vecchio poeta, e aprì la porta. Vide un bambino, completamente nudo, con l'acqua che scorreva lungo i capelli biondi, tremante per il freddo; se non fosse entrato, sarebbe sicuramente morto, con quel tempaccio.
«Poverino!» disse il vecchio poeta e lo prese per mano. «Vieni qui da me, che ti scaldo. Adesso ti darò del vino e una mela, perché sei un bel bambino.»
E lo era veramente. Gli occhi sembravano due stelle lucenti, e i lunghi capelli dorati, pure grondanti d'acqua, erano tutti bene arricciati. Sembrava un angelo, ma era pallido per il freddo e tremava con tutto il corpo. In mano teneva un bell'arco, ma si era rovinato per l'acqua, e i colori delle frecce erano tutti mescolati per la grande umidità.
Il vecchio poeta sedette vicino alla stufa, si prese il ragazzino in grembo, gli strizzò l'acqua dai capelli, gli scaldò le manine nelle sue e fece bollire del vino per lui; così il piccolo si riebbe, le guance ripresero colore, e lui saltò sul pavimento e si mise a ballare intorno al vecchio poeta.
«Sei proprio un bambino allegro!» esclamò il vecchio poeta. «Come ti chiami?»
«Mi chiamo AMORE!» gli rispose. «Non mi conosci? E questo è il mio arco. Io so tirare con l'arco, so tirare davvero! Guarda, adesso torna il bel tempo; la luna splende.»
«Ma il tuo arco è rovinato» disse il vecchio poeta.
«Che peccato» rispose il bambino, lo prese in mano e lo guardò. «Oh, adesso si è asciugato, e non ha subito danni. La corda è ancora ben tesa! Adesso lo provo» e così tese l'arco, vi mise una freccia, mirò e colpì quel buon vecchio poeta proprio al cuore. «Hai visto che il mio arco non s'è rovinato!» esclamò, e ridendo forte se ne andò.
Che bambino cattivo! colpire così il vecchio poeta che lo aveva ospitato nella sua casetta calda, che era stato tanto buono con lui, che gli aveva dato del buon vino e la mela più bella.
Il buon poeta era steso sul pavimento e piangeva, era stato proprio colpito al cuore e diceva: «Ah, che ragazzo cattivo è Amore! Devo raccontarlo a tutti i bambini buoni, affinché stiano attenti e non giochino mai con lui, perché può far loro del male!».
Tutti i bambini buoni, maschi e femmine, a cui egli raccontò l'accaduto, stavano in guardia dal crudele Amore, ma lui li ingannava ugualmente, perché era così abile! Quando gli studenti uscivano dalle lezioni, si affiancava a loro, con un libro sotto il braccio e un vestito nero. Non potevano certo riconoscerlo e così lo prendevano sottobraccio e credevano fosse uno studente come loro, ma a quel punto lui gli scoccava una freccia nel petto. Quando le ragazze se ne andavano via dal prete, o quando erano in chiesa, le seguiva sempre. Sì, era sempre con la gente! A teatro si metteva nel lampadario e ardeva come una lampada, così tutti credevano che fosse una lampadina, ma poi s'accorgevano di qualcos'altro.
Correva nel giardino reale e sui bastioni. Sì, una volta ha colpito tuo padre e tua madre al cuore! Prova a chiederglielo, e senti cosa ti diranno. Già, è proprio un ragazzo cattivo, questo Amore, non dovresti mai avere a che fare con lui. Va dietro alla gente. Pensa che una volta ha anche scoccato una freccia alla vecchia nonna; è passato tanto tempo ormai, ma lei non lo dimenticherà. Ah, cattivo Amore! Ma ora lo conosci; sai quanto sia cattivo quel bambino.
L’amore crudele
I personaggi delle fiabe di Andersen hanno spesso ben poco di fiabesco, ma sono caratterizzati da povertà e solitudine. é abbastanza raro che in una fiaba ci s’imbatta in un poeta, che è anche vecchio, ma vive in serenità.
Sente caldo accanto alla stufa, ascolta il rumore della pioggia e pensa a chi invece è per strada, al freddo, sotto l’acqua. Non chiede molto alla vita. L’unico piacere che si concede è rappresentato dalle mele cotte. Il suo animo buono lo induce ad aprire la porta ad un bambino infreddolito.
È forse questa una concessione al mondo delle fiabe, nelle quali spesso le streghe cattive si camuffano e bussano ad una porta, ma in questo racconto non è una maga che chiede di entrare, bensì un bambino.
Chi è questo bimbo? È, racconta Andersen, Amore, che, affatto grato al vecchio poeta, lo colpisce al cuore con una delle terribili frecce. La descrizione del piccolo è quella di Cupido e sebbene qui i suoi dardi siano rovinati, sono efficaci. Il vecchio poeta viene colpito, ma il narratore non dice chi sia l’oggetto del suo amore. Egli non pensa a se stesso, ma a coloro che possono essere colpiti da Amore. Il poeta aveva aperto la porta per amore verso il prossimo ed il suo pensiero è ancora intriso di amore totale. Andersen oppone l’amore per l’umanità, soprattutto per chi si trova in difficoltà, all’amore – passione, che è anche egoismo.
Scrive Denis De Rugemont nel suo saggio “L’amore e l’occidente. Eros Morte Abbandono”; «In passione noi non sentiamo più “ciò che soffre” ma “ciò che è appassionante”. E tuttavia la passione d’amore costituisce, di fatto, un’infelicità.»(1).
Andersen riprende l’unione di eros e tanatos, che ha informato di sé gran parte della letteratura europea: il vecchio poeta, infatti, giace a terra, cosciente che Amore è un pericolo per ogni essere umano, soprattutto per i giovani. Da quel momento lo scopo della sua vita è mettere in guardia gli adolescenti, ma Amore è troppo potente e astuto e colpisce tutti, anche i vecchi.
C’è nella fiaba/non fiaba di Andersen il riferimento al mito greco di Amore e Psiche e l’iconografia rinascimentale di Cupido, ma questo racconto può anche essere considerato come un’introduzione alla sfortunata storia della Sirenetta.
NOTE
1) De Rugemont, Denis, L’amore e l’Occidente”, Rizzoli libri, 1977
4 - La Sirenetta(1), passione mortale.
Il connubio inestricabile di eros e tanathos informa di sé anche la fiaba più famosa di Hans Christian Andersen: “La Sirenetta”.
Prima di addentrarci nella storia prendiamo confidenza con le sirene. Le sirene, secondo il racconto di Pseudo Apollodoro erano solo tre: una suonava la cetra, una cantava, la terza suonava l’aulo(2). Nell’Odissea non si trova la descrizione della loro forma né vengono riferite le parole del loro canto, ma soltanto l’avvertimento di Circe a Ulisse(3). Qual è la sostanza del canto delle sirene? Che cosa promettono? È certamente una melodia affascinante e i Greci ben sapevano che la musica agisce profondamente sulla psiche umana(4).
Che le sirene abbiano affascinato la fantasia lo prova anche il diario di bordo di Cristoforo Colombo, in cui il navigatore genovese afferma di aver visto le mitiche creature durante il suo viaggio verso Occidente per trovare l’Oriente.
Le sirene sono legate al mondo dell’Ade, così come il mare è legato alla morte. Andersen sapeva bene che mare e tragedia sono indissolubili. Scrive Maria Pezzé-Pascolato nella sua introduzione: “Odensee è la città più antica e veneranda della Scandinavia; si dice anzi che il suo primo borgomastro fosse niente meno che Odino”(5). Wotan (Odino) è, per così dire, il personaggio meno divertente tra gli Dei nordici ed è connesso con il mondo dei morti: nell’Edda di Snorri Sturlson si racconta che Wotan stette impiccato all’albero del frassino per sette giorni e sette notti per acquisire la sapienza runica(6). Odino, come il mare, ha uno stretto rapporto con la vita e con la morte e con la scrittura. I miti non sono racconti per bambini, bensì spiegazioni dei fandamenti del mondo. Allo stesso modo le fiabe, soprattutto quelle d’autore, non si rivolgono soltanto al pubblico infantile: Maria Pezzé-Pascolato ci informa che quando Andersen vide un quadro che lo ritraeva nell’atto di raccontare ai bambini esclamò: «Oh! Perché solo i bambini. Io non ho scritto soltanto per i bambini»(7). Il narratore danese non si fa dunque scrupolo di scrivere una storia basata essenzialmente tra l’unione di eros e tanathos, ma ove i termini vengono capovolti, nel senso che il mondo della morte non è rappresentato dal mare, bensì dalla terra ferma.
Andersen è cosciente che l’amore-passione sia anche passione mortale: la sirenetta stipula un terribile patto con la strega del mare, dovendo rinunciare alla sua melodiosa voce per avere le gambe e poter sperare di conquistare il cuore del principe. In verità nelle pagine de “La Sirenetta” s’incontra spesso la morte: nel primo viaggio che la giovane fanciulla del mare intraprende verso la residenza della strega del mare (che molto somiglia a Hella, custode del mondo dei morti nella mitogogia nordica), ella vede cadaveri di marinai intrapollati nei tentacoli di enormi polpi e perfino il corpo esanime di una piccola sirena, eppure è disposta a tutto pur di realizzare il suo sogno. L’amore è un terribile rischio: la sirenetta potrà avere l’anima immortale degli esseri umani soltanto se un uomo l’amerà più dei suoi stessi genitori. La storia d’amore era iniziata con il maufragio della nave del principe, che la sirenetta aveva salvato da morte sicura. Amore e morte s’intrecciano nella storia, ma v’è anche un ulteriore contrasto, quello tra due mondi troppo diversi e lontani perché possano incontrarsi. Ad ogni passo la sirenetta prova un lancinante, come se spade affilatissime percoressero tutto il suo corpo, perché la terra per lei non è un altro mondo ma un mondo altro.
La trasposizione in cartoni animati di Walt Disney, per quanto bella, non rende giustizia alla complessa letterarietà della storia, ma questo accade spesso allorché dalla letteratura si passa al cinema.
Nel finale della storia incontriamo ancora eros e tanathos: per tornare al suo mondo la sirenetta deve uccidere l’amato principe, ma getta il coltello e muore.
È l’estremo sacrificio d’amore al quale la passione induce tutti gli amanti.
NOTE
1) Andersen, Hans, Christian, Quaranta Novelle, Editore Ulrico Hoepli, Milano, 1951
2) Pseudo-Apollodoro. Epitome VII, 19-20. Traduzione di Maria Grazia Ciani in I miti greci Milano, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, 2008, pag.405)
3) Omero. Odissea XII, 39-46. Traduzione di Giuseppe Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 2007, pag.355)
4) Bettelheim Bruno, op. cit.
5) Andersen, Hans, Christian, op. cit., pag. XXVII
6) Sturlson, Snorri, Edda, Adelphi, 2003
7) Andersen, Hans, Christian, op. cit.
5 - Storia di una madre
una fiaba orfica
Una madre sedeva accanto al suo bambino, era molto triste e temeva che morisse. Era così pallido, con gli occhietti chiusi, respirava a fatica e ogni tanto tirava un sospiro, ansimante quasi un gemito; la madre lo guardava allora col cuore ancora più addolorato.
Bussarono alla porta e entrò un povero vecchio, avvolto in una grande coperta di quelle che si mettono di solito sui cavalli e che teneva molto caldo, e proprio di questo lui aveva bisogno, perché era un inverno rigido: fuori tutto era coperto di neve e di ghiaccio e il vento soffiava da tagliare il viso.
Il vecchio tremava per il freddo, e poiché il bambino si era assopito un momento, la madre andò a mettere della birra sulla stufa, affinché si scaldasse e potesse riscaldare il vecchio mentre lui cullava il bambino, poi gli sedette accanto, guardò i bambino malato che respirava a fatica, e gli sollevò una manina.
«Credi che lo perderò?» chiese. «Il Signore non vorrà togliermelo!»
Il vecchio, che era la morte in persona, fece un cenno molto strano che poteva significare sì o no. La madre abbassò lo sguardo e le lacrime le scorsero lungo il viso; la testa le si appesantì; per tre giorni e tre notti non aveva chiuso occhio e ora si assopì, ma solo per un istante, poi sussultò, con un brivido di freddo. «Che è successo?» esclamò guardando da ogni parte. Il vecchio se n'era andato, e anche il suo bambino era sparito; il vecchio l'aveva portato via con sé. Dall'angolo giungeva il tic-tac dell'orologio, poi il grande pendolo rotolò sul pavimento, bum! e anche l'orologio si fermò.
La povera madre si precipitò fuori casa chiamando il suo bambino.
Là fuori, nella neve, si trovava una donna con un lungo abito nero che le disse: «La morte è stata a casa tua, l'ho vista uscire di corsa col tuo bambino; va più veloce del vento e non riporta mai quello che ha preso!».
«Dimmi da che parte è andata!» implorò la madre «dimmi la direzione e io la troverò.»
«Io la conosco!» rispose la vecchia vestita di nero «ma prima che te lo dica, devi cantare per me tutte le canzoni che hai cantato al tuo bambino! Mi piacciono molto, le ho già sentite perché io sono la notte, e ho visto le tue lacrime mentre le cantavi!»
«Te le canterò tutte, tutte!» rispose la madre «ma non mi fermare ora, devo raggiungerli, devo trovare mio figlio!»
Ma la notte rimase muta e immobile, e la madre, torcendosi le mani, cantò e pianse; erano molte le canzoni, ma erano molte di più le lacrime! Infine la notte disse: «Vai a destra e inoltrati nel buio bosco di abeti, lì ho visto dirigersi la morte col tuo bambino».
Nel bosco le strade si incrociavano e la povera donna non seppe più da che parte andare; vide un rovo, senza più fiori né foglie, perché era inverno, e dai rami pendevano soltanto ghiaccioli.
«Hai forse visto passare la morte e il mio bambino?»
«Sì» rispose il rovo «ma non ti dirò da che parte sono andati se non mi riscalderai sul tuo cuore! Sto morendo di freddo e sono tutto gelato!».
E lei strinse forte al petto il rovo, affinché questo si riscaldasse; le spine le penetrarono nella carne e da lì sgorgarono grosse gocce di sangue, ma al rovo spuntarono in quella gelida notte invernale nuove foglioline verdi e sbocciarono fiori; tanto ardeva il cuore di quella madre in pena! Il rovo le indicò poi la strada.
Lei giunse a un grande lago, dove non c'erano né navi né barche. Il lago non era gelato tanto da poterla reggere, ma neppure era tanto basso che potesse attraversarlo a guado pure doveva attraversarlo, se voleva ritrovare il suo bambino. Allora si chinò per bere tutta l'acqua del lago; non era una cosa possibile per un essere umano, ma poteva sempre avvenire un miracolo.
«No, è impossibile!» le disse il lago «cerchiamo invece di metterci d'accordo. Io colleziono perle e i tuoi occhi sono le perle più lucenti che abbia mai visto. Se piangerai tanto da farli cadere dentro di me, ti porterò sull'altra riva, alla grande serra dove la morte abita e coltiva alberi e piante; ognuno di loro è una vita umana.»
«Oh, cosa non darei per raggiungere mio figlio!» esclamò la madre piangendo, e pianse finché gli occhi caddero nel lago trasformandosi in due perle preziose. Il lago allora la sollevò, e a lei sembrò di essere in altalena, e volò in un colpo solo fino all'altra riva, dove si trovava una dimora molto strana che si estendeva per miglia e miglia e non si capiva se era una montagna con boschi e grotte, o se era stata edificata ma la povera madre non potè vederla, perché non aveva più gli occhi per il gran piangere.
«Dove posso trovare la morte, che s'è presa il mio bambino?» chiese la madre.
«Qui non è ancora arrivata» rispose la vecchia becchina che faceva la guardia alla grande serra della morte. «Come hai fatto a arrivare fin qui, chi ti ha aiutato?»
«Il Signore mi ha aiutata!» rispose la madre. «Egli è misericordioso e siilo anche tu: dove posso trovare il mio bambino?»
«Io non lo conosco» rispose la donna «e tu non ci vedi! Molti fiori e molte piante sono appassiti questa notte e la morte arriverà presto per trapiantarli. Tu sai che ogni essere umano ha il suo albero della vita o il suo fiore, a seconda di come ciascuno è fatto. Apparentemente sono come le altre piante della natura, ma hanno un cuore che batte. Anche il cuore dei bambini batte! Ascoltali! Forse saprai riconoscere quello di tuo figlio. Ma che cosa mi dai, perché ti dica che altro devi fare?»
«Non ho nulla da darti» disse la madre afflitta «ma andrei in capo al mondo per te!»
«No, non ho nulla da fare là!» rispose la donna «ma mi puoi dare i tuoi lunghi capelli neri. Tu stessa sai quanto sono belli e a me piacciono! Avrai i miei capelli bianchi in cambio. È sempre qualcosa!»
«Se non desideri altro» le rispose la madre «te li do con gioia!» e così le diede i suoi bei capelli neri e ricevette quelli della vecchia, bianchi come la neve.
Entrarono nella grande serra della morte, dove fiori e piante crescevano mescolati in modo strano. C'erano sottili giacinti sotto campane di vetro e c'erano peonie grosse e robuste; crescevano piante acquatiche, alcune molto fresche, altre un po' malate; vi si appoggiavano le bisce acquatiche, e i granchi neri ne afferravano gli steli. C'erano splendide palme, platani e querce, piantine di prezzemolo e di timo fiorito; ogni albero e ogni fiore aveva il suo nome e ognuno rappresentava una vita umana, una persona ancora in vita, in Cina, in Groenlandia, in tutto il mondo. C'erano grandi piante in vasi molto piccoli, che soffocavano e sembrava che stessero per spezzare il vaso, c'erano anche da molte parti piccoli fiori insignificanti piantati nella terra, circondati dal muschio, ben custoditi e curati. La madre afflitta si chinava sulle piante più piccole e ascoltava il loro cuore che batteva, e tra milioni di cuori riconobbe quello del suo bambino.
«È questo!» gridò, e tese la mano verso un piccolo croco azzurro, debolmente piegato da un lato.
«Non toccare il fiore!» gridò la vecchia «mettiti qui e quando la morte arriverà, e sarà qui tra poco, impediscile di strappare la pianta minacciando di strappare tutti gli altri fiori. Avrà paura, perché ne risponde davanti al Signore, e nessuno può sradicarli senza il suo permesso.»
Improvvisamente soffiò un'aria gelida per il salone e la madre cieca capì che la morte stava arrivando.
«Come hai fatto a arrivare fin qui?» le chiese «come hai potuto arrivare prima di me?»
«Sono una madre!» rispose lei.
E la morte tese la sua lunga mano verso quel fiorellino delicato, ma lei vi tenne sopra le mani sfiorandolo quasi e temendo di toccare uno solo dei suoi petali. Allora la morte soffiò su quelle mani, e lei sentì che era ben più fredda del vento gelato, e le sue mani ricaddero inerti.
«Tu non puoi nulla contro di me!» disse la morte.
«Ma lo può il Signore!» rispose la madre.
«Io faccio ciò che Lui vuole!» replicò la morte. «Io sono il suo giardiniere! Colgo tutte le sue piante e i suoi fiori e li ripianto nel grande giardino del paradiso, in una terra sconosciuta, ma non oso raccontarti come vi crescano e come sia il luogo.»
«Rendimi mio figlio!» supplicò la madre piangendo, e improvvisamente afferrò due bei fiori che si trovavano lì vicino e gridò alla morte: «Strapperò tutti i tuoi fiori! Sono disperata!».
«Non toccarli!» disse la morte. «Dici di essere infelice e ora vuoi rendere un'altra madre altrettanto infelice?»
«Un'altra madre?» chiese la povera donna, lasciando immediatamente i due fiori.
«Ecco i tuoi occhi, li ho ripescati dal lago» disse la morte «splendevano lucentissimi, ma non sapevo che fossero tuoi. Riprendili, ora vedrai meglio di prima; guarda nel pozzo profondo qui vicino: io chiamerò per nome i due fiori che tu volevi strappare, così potrai vedere il loro futuro, la loro vita di uomini; guarda quello che volevi turbare e distruggere!»
La madre guardò nel pozzo; era una gioia osservare come uno dei fiori diventasse una benedizione per il mondo, e quanta gioia e felicità si spandesse intorno a lui. Poi guardò la vita dell'altro fiore, e era solo dolore e miseria, orrore e infelicità.
«Entrambi sono volontà di Dio!» commentò la morte.
«Quali dei due fiori è quello dell'infelicità e quale quello della benedizione?» chiese la madre.
«Non te lo dico» rispose la morte «ma sappi che uno dei due fiori è quello di tuo figlio; hai visto il destino di tuo figlio, il suo futuro!»
La madre gridò di terrore: «Quale dei due era mio figlio? Dimmelo! Salva l'innocente! Salva mio figlio da tutta quella miseria! Portalo via, piuttosto! Portalo nel regno di Dio! Dimentica le mie lacrime, dimentica le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto!».
«Non ti capisco!» disse la morte «vuoi riavere tuo figlio oppure devo portarlo nel paese che ti è sconosciuto?»
La madre si gettò in ginocchio e, torcendosi le mani, pregò il Signore: «Non ascoltarmi, se prego contro la tua volontà, che è la migliore! Non ascoltarmi! Non ascoltarmi!».
E piegò il capo in grembo.
La morte se ne andò col bambino in quel paese sconosciuto.
La stretta relazione tra fiaba e mito è evidente nella “Storia di una mamma”(1) , in cui ad una madre viene rapito il piccolo figlio dalla morte, che per entrare in casa della donna si traveste da povero vecchio infreddolito.
Nella mitologia nordica si racconta che quando il Dio Baldr morì, ucciso dal vischio lanciato dal vecchio Dio cieco Holdr, la cui mano fu guidata da Loki, fu inviata una delegazione nell’oltremondo per chiedere di far tornare Baldr sulla terra, ma Hella ripose che il ponte che separa i morti dai vivi si varca una sola volta e in una sola direzione(2) .
Come Baldr viene ucciso con l’inmganno, così accade anche al figlio della protagonista della novella di Andersen, ma le analogie non si fermano qui. Questa madre non rinuncia facilmente al suo piccolo e s’incammina per trovare la morte e chiedere indietro il figlioletto. Gli Dei avevano stipulato un patto con tutte le creature della terra affinché Baldr non fosse mai toccato e non morisse, ma il vischio non udì, perché era coperto di neve; anche questa madre addolorata deve concludere terribili accordi con elementi della natura: dapprima un rovo le chiede di essere scaldato dal suo cuore ed ella accetta e sanguina; poi un lago pretende i suoi occhi, infine una vecchia reclama i suoi capelli. La vecchia racconta che in quella notte molte piantei e molti fiori sono appassiti. Quando Baldr muore, il mondo precipita in una terribile depressione: la terra non dà più fiori, gli alberi appassiscono e uomini e Dei dimenticano cosa sia la gioia. Infine la madre giunge nel mondo della morte, dove le vite sono state trasformate in fiori, ma allorché ella sta per strapparne uno la morte l’avverte che in tal mondo renderà infelice un’altra mamma. La morte propone una terribile scelta fra due fiori: una vita sarà una benedizione per il mondo, l’altra sarà dolore e miseria, orrore e infelicità: uno dei due fiori è il destino del figlio, ma la morte non dice qual è.
La donna rinuncia e lascia il bambino alla morte.
Una terribile scelta era stata proposta anche agli Dei che avevano incontrato Hella, la custode del mondo dei morti. Ella aveva detto loro di vagare per ogni luogo della terra per vedere se tutti gli esseri umani avessero pianto per la morte di Baldr, ma se ne avessero trovato solo uno che non avesse versato lacrime, Baldr sarebbe rimasto in quel luogo. Gli Dei vagarono per monti, valli, laghi, deserti ed infine incontrarono una vecchia che disse loro di aver avuto in gioventù un solo figlio, ma nato morto; quando avrebbe visto una lacrima sul viso di Baldr, anch’ella avrebbe pianto.
Il racconto di Baldr ha anche un altro finale, ma che probabilmente è un’aggiunta cristiana: gli Dei tornano da Hella, la quale li consola dicendo loro di non disperare, perché Baldr un giorno tornerà ma sotto un’altra forma.
Nella storia germanica gli Dei rinunciano, come rinuncia la madre della fiaba di Andersen.
NOTE
1) Andersen, Hans, Christian, op. cit.
2) Vedi Sturlson, Snorri ed anche Grønbech Vilhelm, Miti e Leggende del Nord, Einaudi
gennaio 2011
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