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Tat-zebao.
“La libertà dei servi” tra percezione e consapevolezza.
Aldo Ettore Quagliozzi
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Pongo un problema. Esiste, e se esiste qual è, il confine sottile e permeabile tra la “percezione” e la “consapevolezza”? Ovvero, fino a qual punto e dove la “percezione”, affondando le sue radici negli strati e nei sottostrati della coscienza degli umani, ché solo dopo aver convenientemente affondato le sue radici se ne possano attendere significative trasformazioni, fino a qual punto del profondo della coscienza, dicevo, può la stessa “percezione” trovare ed immergersi nella linfa vitale della “consapevolezza” e quindi trasfigurarsi, di conseguenza, in essa? O, per tanti degli umani - per quanti e perché? –, l’affondare di quelle radici non consentirà mai loro il raggiungimento della linfa vitale e genuina della “consapevolezza”? E’ che, se così fosse, vana sarebbe la mia promessa fatta al carissimo fraterno amico F. L. di professare un ottimismo che, per mia natura, avrei difficoltà a professare. E sarebbe come fare un torto grande a quella carissima amicizia di F. L., un venir meno alla cara parola data, se non provassi a sforzarmi, ancor oggi, per professare un pur larvato ottimismo, giusto per fare intendere, ai pochissimi che visitano questo mio blog, che nulla in verità è ancora perduto. Ma la realtà è ben altra. Ed il problema che pongo ha bisogno di risposte chiare e rapide che sciolgano le mie riserve in un ottimismo che non può essere solo di maniera. Che la “percezione” sia essenzialmente un qualcosa legato alla sfera del sensibile, alla sfera dei sensi degli umani, è una cosa vecchia come il mondo e scontata assai; si ha “percezione” del caldo e del freddo, dei colori e dei suoni e di quant’altro ancora della vita sensibile. E questa realtà della “percezione”, legata essenzialmente al mondo fisico, non riesce a dare le risposte che cerco, anzi mi conferma in un “determinismo” che mi incute paura e che cerco di combattere con tutte le mie deboli forze. Ma da un po’ di tempo in qua l’utilizzo di quel lemma ha invaso anche altri settori della vita sensibile degli umani, ed abbiamo potuto ascoltare parole autorevoli secondo le quali una crisi, o la crisi in corso dell’economia, per esempio, sarebbe ascrivibile non ad una ben determinata realtà, con tanto di parametri ed indici incontrovertibili, quanto solamente alla percezione personale, errata per il millantatore di turno, di ciascuno di noi, dello stato delle cose del mondo. E così di questo passo.
Ed allora: dov’è quel confine tra “percezione”
e “consapevolezza” nell’ambito di quanto è avvenuto, e tuttora avviene, nei fatti politici e sociali del bel paese? Sono così profondamente situati e resi inaccessibili gli strati della coscienza individuale e/o collettiva perché si raggiunga la “consapevolezza” di uno stato servile nel quale versa una delle moderne democrazie del mondo? Pongo il problema non individuandone una risposta che sia accettabile e plausibile. Non ne ho la stoffa. Attendo aiuto.
Mi imbatto intanto nelle mie ardite letture e mi sconforta assai l’idea di essere indotto a tradire le promesse fatte al carissimo F. L., ovvero d’abbracciare un ottimismo almeno di maniera, in nome di una antica fraterna amicizia. Mi inoltro infatti nella lettura dell’agile volume “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli – Laterza editore (2010), pagg. 139 € 15,00 - ed alla pagina XII della premessa leggo:
“La caratteristica precipua del sistema di corte (del signor B. da Arcore n.d.r.) è (…) la sua capacità di diffondere o rafforzare i costumi servili: l’adulazione, la simulazione, il cinismo, il disprezzo per gli spiriti liberi, la venalità e la corruzione. Se a questo aggiungiamo che un uomo con poteri enormi può facilmente farsi signore delle leggi, è facile intendere che dove si è formata la corte non può esserci libertà del cittadino”.
Riconosciuta o riconoscibile la realtà? O è soltanto una “percezione”? Quanto è diffusa nel bel paese la “consapevolezza” d’essere nel pieno di una servile collettiva condizione? E se il mio inclinare verso un certo “determinismo” negli affari degli umani trovasse altri riscontri ancora?
Intanto propongo di seguito la lettura della interessante intervista che Maurizio Viroli ha concesso al giornalista del quotidiano l’Unità Emiliano Sbaraglia, intervista che è stata pubblicata col titolo “L’Italia? Un paese libero di essere servo di un uomo solo”. La trascrivo nella quasi sua interezza.
“(…) E. S. Professor Viroli, partiamo dalla «libertà dei servi», il titolo del suo libro, a cui lei oppone quella dei cittadini. Qual è la differenza?
M. V. «Il concetto di libertà dei servi ha una lunga storia nel pensiero politico, antico e moderno. Abbiamo la libertà dei servi quando gli individui sono sottoposti al potere arbitrario o enorme di un uomo. Perché se sei sottoposto al potere arbitrario ed enorme di un uomo che può fare ciò che vuole non sei libero come cittadino, ma hai la libertà dei servi, che consiste spesso nel poter fare ciò che vuoi, ma sempre sottoposto alla volontà di qualcun altro. La libertà del cittadini è diversa, non è sottoposta al potere arbitrario o enorme di un uomo, ma soltanto alla Costituzione, alle leggi e ai principi morali. Tutto questo si intende bene se consideriamo una frase di Cicerone: - La libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto -. Un po’ quello che, per tornare a pensatori più vicini, secoli dopo ha affermato anche Rousseau: - Un popolo libero serve solo le leggi per non servire gli uomini -. Questa è la differenza tra libertà dei servi e libertà dei cittadini».
E. S. Dunque quando si smette di essere cittadini e si diventa sudditi?
M.V. «Non parlerei tanto di sudditi, quanto proprio di servi, perché la sudditanza dipende dalla forza, mentre la servitù è costruita sulla persuasione... Ad ogni modo la libertà del cittadino termina nel momento in cui all’interno della res publica si forma un potere arbitrario o enorme, come dicevamo. Ma bisogna aggiungere che è del tutto irrilevante chi abbia tale potere, e neppure conta come venga utilizzato. Il problema è la semplice esistenza di un potere, che imponendo la propria volontà fa sì che non si possa parlare più di libertà dei cittadini, ma di libertà dei servi. È importante avere chiaro che, come hanno sempre sottolineato gli autori di commedie nella Roma antica, i servi sottoposti al potere di un uomo possono essere felici, e spesso lo sono, perché sono in condizioni di fare più o meno ciò che vogliono. Ciò nonostante, il semplice fatto di essere sottoposti a un potere non li rende liberi nel senso della libertà del cittadino. Come spiegava Machiavelli, sono uomini liberi quelli che non dipendono da altri. Nel nostro paese, come in tutti, anche se questo enorme potere l’avesse, che so, madre Teresa di Calcutta invece di Silvio Berlusconi, il problema ci sarebbe lo stesso».
E. S. Nel suo libro lei scrive anche di «tradimento dell’élite», che ha consentito quest’anomalia italiana della concentrazione di poteri in mano a un uomo solo. Ma ritiene anche che riforme e nuove leggi elettorali non servirebbero a molto, perché «un potere enorme è sempre in grado di conquistare il consenso popolare». La domanda è: come se ne esce?
M. V. «Beh, come scrivo anche nel libro, una legge costituzionale che vietasse a chiunque possieda immense ricchezze o imperi mediatici di accedere a cariche politiche non sarebbe male... Ma al di là di questo, innanzi tutto bisognerebbe comprendere come e perché in Italia ci sia questo potere enorme, che non ha paragoni in nessun paese democratico o liberale dei nostri tempi. Come si sia arrivati a un monstrum unico, di un uomo che dispone di una ricchezza personale sterminata, del controllo diretto o indiretto dell’impero dei mezzi di comunicazione di massa, e che controlla una rete di uomini a lui leali che egli ha unito in un partito personale, e che, oltre tutto questo, dispone anche del potere esecutivo. È la somma di tali poteri che definisce un potere enorme nel vero senso del termine. Per quanto riguarda il tradimento dell’élite, è fondamentale invitare a riflettere su una questione semplice: come è stato possibile per un potere simile affermarsi senza violenza all’interno di un sistema repubblicano e democratico? La risposta è duplice: da un lato la determinazione dell’uomo che ha voluto costruire tale potere, trasformando a suo vantaggio i più gravi mali antichi dell’Italia, a partire dallo scarso senso civile. Dall’altro la responsabilità dell’elite politica, culturale e imprenditoriale italiane, che ormai è evidente. Ecco perché un vero cittadino dovrebbe porre loro questa domanda: perché non lo avete fermato? Non avete capito la gravità del processo di formazione di tale potere, o non avete voluto fermarlo? Qualunque sia la risposta, la responsabilità di questa elite è gravissima. Si è permessa la formazione di un potere che ha effetti di corruzione politica e morale che sarà difficilissimo attenuare, quando e se ci si libererà di questo potere».
E. S. Torniamo alla legge elettorale...
M. V. «La legge elettorale. (…) … nel libro ho cercato di sottolineare che la vera emancipazione dal potere enorme esige una riforma particolare, un diverso modo di sentire e di ragionare. - Le buone leggi senza buoni costumi sono inefficaci -, diceva ancora Machiavelli. La vera emancipazione quindi non sarà l’introduzione di una nuova legge elettorale, ma nuovi costumi civili, che ispirino ribrezzo nei confronti di costumi servili e cortigiani».
E. S. Professore, alla fine del suo libro lei rivolge una sorta di appello alle persone di animo grande, indicando come riferimento, per riconquistare lo status di cittadini, un sentimento del dovere nel passato identificato in personalità quali quelle di Piero Gobetti, Norberto Bobbio, Paolo Sylos Labini, Giorgio Ambrosoli, per citarne alcuni. Una nuova rinascita italiana è ancora possibile?
M. V. «Io credo nelle persone di animo grande, perché non credo esistano soltanto persone dedite al sistema della corte. La conseguenza della formazione della corte è la diffusione molto larga della mentalità servile, che si traduce nell’adulazione, nella menzogna, nella cortigianeria, nel vivere da buffoni, nel culto delle apparenze. Tuttavia in Italia ho potuto verificare in mille occasioni che esistono uomini e donne passati attraverso un nuovo processo di maturazione civile e politica, perché hanno vissuto un sentimento di distacco e ripugnanza, un sentimento di sdegno nei confronti della corte riunita attorno al signore. E questa è la caratteristica di chi si oppone davvero e vuole conquistare la libertà del cittadino. Secondo me la parola che riassume tutto è intransigenza, nel senso della volontà di costruire non una corte più piccola, con cortigiani meno disgustosi, ma di vivere senza corti e senza cortigiani. Il sentimento dell’intransigenza è quello che ha ispirato i processi di emancipazione più importanti della nostra storia. Il Risorgimento nazionale è la storia di uomini e donne intransigenti che vollero costruire un’Italia completamente diversa, così come la Resistenza ebbe preparatori e ispiratori che l’intransigenza la professavano. Basti ricordare quel che diceva Ferruccio Parri dei suoi compagni: - Erano intransigenti perché disinteressati -. Ecco, se mai ci sarà un processo di riconquista della libertà dei cittadini, potranno guidarlo solo uomini e donne intransigenti, che si oppongono al sistema della corte non per invidia ma per sdegno, per la convinzione che qualcuno abbia offeso dei valori e dei princìpi imprescindibili. D’altra parte, in Italia i processi di emancipazione sono stati sempre guidati da minoranze. L’importante è che queste minoranze si uniscano e sappiano ispirare, guidare, testimoniare con l’esempio e la coerenza che nel nostro paese è possibile eliminare e distruggere la libertà dei servi.”
ottobre 2010
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