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Dell’educare. 86
“La tensione imposta alla mente del ragazzo…“
Aldo Ettore Quagliozzi
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Come sono diventato un insegnante tanti anni addietro.
Divenni un insegnante semplicemente, come “pescato“ da una lunghissima graduatoria di nomi stilata secondo numeri. Allora quei numeri erano la trasformazione in punteggi dei voti di laurea. Così divenni un insegnante.
A nessuno venne in mente di accertare le mie capacità didattiche, le mie “particolarità“ e competenze psico-pedagogiche. A nessuno interessava la questione. E se non fosse interessata anche a me la questione, avrei potuto trascorrere il resto della mia vita scolastica di docente così come l’avevo bellamente iniziata. A dire il vero ci fu una sola persona che si interessò a me come docente, però in una forma del tutto singolare. Ho voglia di raccontare questa stupefacente ed incredibile storia di vita scolastica.
Ero all’inizio della mia carriera, che carriera si fa per dire. Quell’anno, l’anno scolastico 197*/197*, fui spedito ad insegnare in un paese collinare della mia regione. Un paese splendido, solare, in faccia all’incantevole mar Ionio; in quel golfo laddove si racconta la leggenda dell’Ulisse migrante che abbia incontrato la dolcissima e bellissima Nausica, principessa dei Feaci. Incontrai io invece il signor preside, ché allora così si designavano gli attuali dirigenti scolatici; lo incontrai al momento della mia presa di servizio e sporadicamente, nel corso dell’anno, nelle rare occasioni in cui si presentava a presiedere qualche consiglio di classe o nei rarissimi collegi dei docenti. Il nostro fu un approccio esclusivamente burocratico. Per il resto, il nulla. Nel senso letterale del termine.
Orbene, si era nel mese di giugno, canicolare da quelle mie parti; suole dirsi anche, in quelle mie amene contrade, che il mese di giugno sia il mese in cui gli asini ragliano al meglio. E ragliano assai; sarà forse una questione ormonale. E l’asino ragliò.
Un mattino, un bidello, ché così si chiamavano allora gli attuali collaboratori scolastici, mi comunicò, con un fare di furba intesa, di presentarmi in presidenza per comunicazioni. La comunicazione che ricevetti allora, da quel bontempone del signor preside, era relativa al mio servizio scolastico, valutazione che al tempo veniva tradotta con un aggettivo. Il mio aggettivo fu allora “valente“. Tale fu allora la valutazione del mio servizio da parte di quel signor preside, valutazione data senza riscontro alcuno, senza una visita in classe, senza un abboccamento che dir si voglia. Alle mie osservazioni in merito mi fu risposto che la valutazione seguiva la consolidata prassi: con quel “valente“, veniva valutato indistintamente ed indifferentemente il servizio svolto da un insegnante al suo primo anno di lavoro nella scuola pubblica del bel paese. E fu così che dovetti tenermi stretto stretto il mio “valente“, a dispetto di più generose valutazioni concesse in altri contesti ad insegnanti nelle mie stesse condizioni iniziali di carriera.
Così l’asino ragliò ed io divenni un insegnante. Ed avrei potuto continuare ad esserlo, contrassegnato com’ero stato da quel “valente“, per il resto della mia vita scolastica. Esserlo come i tanti, senza una sensibilità emotiva che sia, senza un interessamento alle discipline pedagogiche e didattiche che mi facessero superare il fossato esistente tra chi è un insegnante e chi vuol divenire un educatore. Ché a tale ultima condizione aspiravo di pervenire sin da quell’inizio; divenire un educatore. Ché in quell’etimo – educare - è sottesa e ben conservata la radice propria dell’essere, come di chi voglia condurre per mano, guidare, con amorevole autorevolezza, verso traguardi di umanizzazione e socializzazione sempre più complete, i preadolescenti che il caso affida. Tra le mie carte ingiallite dal tempo ho ritrovato la riflessione semplice ed in pari tempo ardita, ed il più delle volte disattesa nella aule scolastiche del bel paese, che di seguito trascrivo.
Essa è tratta da una lettura per me fondamentale, “Ai piedi del maestro [1910]“ di J. Krishnamurti [ 1895-1986] , lettura già tante volta opportunamente proposta in questa rubrichetta senza pretese.
“(…)La tensione imposta alla mente del ragazzo – e specialmente dei più giovani – è troppo grande e dura troppo a lungo; la durata della lezione dovrebbe essere interrotta, e l’insegnante dovrebbe vigilare con gran cura a che i ragazzi non si stanchino. Il suo desiderio d’impedire una simile tensione di mente, gli farà escogitare nuovi metodi d’insegnamento che renderanno le lezioni molto interessanti, ed il ragazzo che s’interessa, difficilmente si stanca. Io stesso mi ricordo come solevamo essere stanchi quando ritornavamo a casa, talmente stanchi da non poter far altro che abbandonarci al riposo. Ma al ragazzo (…) non è concesso riposarsi, neppure quando ritorna a casa, poiché proprio allora egli ha da cominciare i suoi compiti, (…), quando invece dovrebbe riposarsi o giocare. Questi compiti sono ripresi l’indomani mattina, prima di andare a scuola, ed il risultato sarà che egli riconsidererà un vero supplizio anziché come un piacere. (…) Le ore di scuola sono abbastanza lunghe, ed un insegnante intelligente può impartire in esse proprio tutto ciò che ogni ragazzo dovrebbe imparare nella giornata. Ciò che non potrà essere insegnato nel limite di quelle ore, dovrebbe essere rimandato al giorno dopo. (…)”
ottobre 2010
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