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Saperi e formazione
Valentina Fulginiti
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Diritto all'istruzione e privatizzazione dei servizi sociali.
Il problema dell'accesso al sapere si snoda a livello mondiale, ed è in atto, anche su questa scala, un irrigidimento, un arretramento complessivo, su diritti già in partenza negati. Lo verifichiamo nella crisi dei sistemi pubblici di istruzione, nell'aumento dell'analfabetismo mondiale e soprattutto di quello femminile, nello sfruttamento e la mercificazione delle risorse intellettuali (anche il controllo dei mezzi di comunicazione, o la questione dei brevetti e della proprietà intellettuale rientrano in questa logica) e nella cosiddetta "fuga dei cervelli".
La limitazione e negazione di diritti elementari come l'istruzione rientra in pieno nello spirito di quel fondamentalismo neoliberista falsamente naturale, che noi combattiamo, cui contrapponiamo concrete alternative.
Da un lato, la battaglia per la dignità, a livello mondiale, non può tralasciare il diritto, elementare, all'istruzione, che è negata ai tre quarti della popolazione mondiale da guerre, sfruttamento del lavoro minorile, povertà; motivi che non sono dettati da fatalità o casualità, ma rientrano nel progetto globale del neoliberismo. E, anche in Europa, la svendita e la privatizzazione dei sistemi scolastici sono contestuali a questa svolta del neoliberismo, di un sistema che, in crisi, per permanere deve farsi crisi, e tagliare quei diritti sociali che la nostra cultura dava per acquisiti.
Riteniamo pertanto che la questione debba essere affrontata non solo con un'ottica settoriale, ma che debba essere inscritta in un più generale disegno di affermazione e costruzione di diritti nuovi, contrapponendo un salto in avanti e un attacco politico allo smantellamento della sicurezza sociale, alla decostituzionalizzazione forzata e alla generale riscrittura, o meglio cancellazione, dei diritti sociali.
Precarietà nell'istruzione o educazione alla precarietà?
Il problema dell'accesso al sapere diventa immediatamente il problema di una società che si fa precaria e instabile. In primo luogo perché crescenti reparti impiegati nel settore sono legati a modalità di produzione non protette: basti pensare ai lavoratori, insegnanti o ATA, con contratti a termine; ma anche al crescente numero di studenti che, fin dalle scuole superiori, entrano nei circuiti del lavoro interinale, spinti o da necessità economiche crescenti, o da un percorso di formazione-lavoro che, attraverso la "trappola" degli stage e dell'alternanza scuola lavoro, si traduce in periodi di servizio sottoqualificato, non retribuito, anzi, valutato ai fini della promozione. Per quanto riguarda poi l'università, la stessa frequenza richiede agli studenti di impiegarsi in attività sottopagate, lavori in nero, o in circuiti interinali, per potersi garantire il pagamento dell'accesso (tasse), dei materiali didattici, e la stessa sussistenza, visti gli alti costi di case, mense, trasporti e altri servizi elementari.
Tuttavia, l'articolazione del rapporto tra formazione e precarietà è ben più complesso, e richiede un intervento anche di tipo culturale. Infatti è vero che l'apporto più immediato e duraturo che la formazione ha sui ragazzi è l'interiorizzazione di modelli sociali e valoriali, attraverso l'imitazione della struttura che la scuola stessa rappresenta e incarna; e, del resto, anche la modalità dell'insegnamento oggi costituisce un progetto ideologico, via via più settorializzante e modularizzata, improntata su un falso tecnicismo che si può giustamente definire addestramento (meccanismo stimolo risposta). L'assioma proposto e, di fatto, imposto dal neoliberismo è che la flessibilità e la competitività sociale siano valori importanti sul mercato del lavoro, e che il sistema di istruzione debba essere reso efficiente da questo punto di vista: formare persone in grado di inserirsi presto sul mondo del lavoro, perché dotate di una formazione specifica, ovvero di un addestramento funzionale a un determinato tipo di impiego. Il progetto va dunque oltre alla precarizzazione dei contratti scolastici e del lavoro precario offerto dagli studenti, si tratta di un'educazione al valore sociale della precarietà attraverso impostazioni ideologiche, criteri fortemente selettivi e repressivi, e soprattutto modelli di formazione funzionali alle necessità economiche del territorio. Tale progetto va smontato alla radice, contrapponendo alla cultura dell'adattamento sociale i valori di una formazione personale, e dell'integrità delle persone: integrità che passa anche attraverso la libertà e la gratuità (assenza di vincolo) di un percorso di formazione che veda i ragazzi come soggetti; occorre smontare, anche con un'azione culturale, i falsi e contrastanti miti del successo individuale, siano essi la chimera della scuola di élite per la futura classe dirigente, o della formazione ipersettoriale che garantisce facile guadagno senza troppe pretese intellettuali.
Educazione nazionale o regionale. Quale identità?
L'acquisizione di un'identità culturale è un'altra delle mitologie più diffuse e radicate, sempre nella discussione su quali debbano essere gli obiettivi dell'istruzione. La formazione della persona sarebbe dunque un'acquisizione assolutamente verticale dei valori fondanti la nostra civiltà, quali il legame con il territorio (la storia del proprio Comune?), con la propria cultura di appartenenza, sempre più spesso identificata con la religione, nella prospettiva imperante di un supposto scontro di civiltà e nel delirio di superiorità culturale che contagia vari esponenti della politica e della cultura.
Pertanto, problematizzare i paradigmi identitari non è questione da poco. Nell'ottica di una diversa possibile globalizzazione, opponiamoci a questo tentativo di schiacciare la formazione su un'idea di cultura, che si traduce, concretamente, in ignoranza e negazione dell'alterità. La questione non si gioca più solo in termini di laicità della scuola, o di interessi economici del Vaticano: siamo di fronte a una negazione della democrazia e della dialettica interna, anche attraverso la costruzione di un consenso culturale e di un'appartenenza conformistica e formale a una cultura vissuta in maniera gerarchica e acritica. Sintetizzando, si può affermare che siamo di fronte un attacco della laicità del sapere, intendo per laicità la sua assoluta autonomia da altre sfere di interesse. In tal senso può essere interpretata la parificazione degli istituti privati, nella stragrande maggioranza connotati religiosamente, l'estensione del concetto di offerta formativa a qualsiasi ente decida, per ragioni proprie, di aprire una scuola, il crescente peso della formazione religiosa anche nella scuola pubblica, l'assunzione in ruolo dei docenti di religione cattolica, e sul piano dell'opinione pubblica, la crociata sulla presenza degli immigrati o dei loro figli (definiti, con un'impostazione discutibile, "immigrati di seconda generazione") nelle scuola e sulle attività multiculturali, viste come un pericolo per una nostra pretesa identità cattolica. Anche sotto questo aspetto, occorre impostare una battaglia per l'accesso dei cittadini migranti all'istruzione in tutti i suoi gradi, affinché il loro diritto non sia visto come un minimo indispensabile (alfabetizzazione), e la loro presenza non sia emergenza, ma arricchimento.
Democrazia e partecipazione
Una scuola sempre più verticistica, in cui le competenze e i ruoli specifici dei docenti sono viste solo in termini di gerarchia professionale e salariale, in cui la partecipazione delle componenti alla gestione e alla scelta delle priorità è limitata, e gli incarichi gestionali sono affidati alle provvide mani di tecnici ed esperti, non è che lo specchio di una società che rimette in discussione le garanzie minime di democrazia, e al tempo stesso il grimaldello culturale per cui fare passare, anche in futuro, un' idea di società impostata dall'alto, in cui le istituzioni siano sempre più estranee alla società, formali e incontrollate. Non è più per il controllo sulle scelte di chi governa, che ci dobbiamo battere, ma per affermare la partecipazione dal basso, anche nelle singole realtà lavorative e sociali. A maggior ragione ciò è vero in un momento idealmente lontano dalla produzione e dal mercato, come quello formativo. A tal proposito, esiste una ricchezza di esperienze che comprende i momenti autogestiti, delle occupazioni di facoltà e di scuole, ma anche il proliferare delle assemblee congiunte tra varie componenti, sin qui dettate dalla rabbia o dalla preoccupazione per la crescita del disagio, in opposizione alla strategia repressiva e autoritaria, messa in atto dal governo. A tal riguardo, il metodo dell'autorganizzazione dal basso può diventare uno dei punti di forza, una strategia di partecipazione reale, anche in positivo e non solo in opposizione alle kermesse mediatiche e alle strategie inquisitorie messe in atto nelle realtà scolastiche. Resti però fermo che l'autorganizzazione non sia un intervento volontaristico di sostegno e recupero a disagi preventivati da un ordinamento miope e ineguale, ma un susseguirsi di momenti di elaborazione, un progetto consapevole e critico: politico. Occorre che il vento di democrazia che ci portiamo dietro da Porto Alegre e le istanze di rinnovamento delle vecchie forme di delega e rappresentanza trovino un punto di contatto con questo bagaglio di esperienza ed elaborazione. I diritti sociali sono imprescindibili da una loro gestione partecipata; e la partecipazione diretta è, del resto, il primo dei diritti sociali.
Per un'educazione resistente
Il sapere può diventare una zona franca, libera dall'invasività dei mercati, che vedono precocemente nell'infanzia una merce: o in forma di lavoratori, o, come accade nelle nostre società ipertrofiche, di precoci consumatori.
Una zona resistente, dunque: non solo alle barriere del mercato, che nel mondo della formazione non deve entrare, né come soggetto promotore e decisionale, rispetto alle scelte degli istituti e ai progetti da finanziare, né come sponsor o fornitore di servizi (dovremo assistere anche in Italia allo spettacolo di Mc Donald's che finanzia e fornisce le mense nelle scuole elementari?); ma anche al valore della competizione, il vero cardine su cui ruota l'intera controriforma della scuola, con la sua ambigua sintesi di moralismo e produttivismo. Vogliamo costruire un sapere libero, che si muova in un'ottica di collaborazione e di integrazione culturale, di confronto e di dialogo (impostazione collegiale).
Il sapere ha in sé la forza per resistere: affermando i valori dello scambio di idee, dell'importanza di un'espressione libera, non finalizzata ad altro; resistendo anche alle impostazioni unilaterali, militaristiche o semplicemente gerarchiche della cultura (la base teorica dei razzismi, della disinformazione, della prevaricazione sociale); e ancora più semplicemente, la resistenza sociale passa per la garanzia paritaria degli strumenti critici di base (logici, matematici, linguistici, storico-geografici), che soli sono già una forte difesa della democrazia.
Rispetto a questo, le esperienze, avviate nel corso dell'ultimo anno in singole realtà, come assemblee congiunte, autogestioni o cogestioni, occupazioni di scuole e facoltà (a volte in part-time proprio per non svalutare il momento dell'insegnamento), possono essere riprese in maniera consapevole, come momenti di costruzione di saperi diversi; è importante saper coniugare la riflessione e l'azione generale con il piano del proprio quotidiano.
Le proposte che questo documento si propone di articolare vanno però oltre, e rientrano in un lavoro di associazione. Si può, ad esempio, attivare un lavoro di ricognizione, nelle realtà locali, dei poteri forti su cui agire (i corrispettivi di quei blocchi sociali, a livello nazionale, costituiti dal Vaticano e, soprattutto, dalla Confindustria), per attivare lotte sociali e proposte di gestione diversa, nelle scuole, e nei luoghi della formazione.
Un'altra ipotesi può essere la creazione di iniziative culturali diverse - di carattere seminariale, come già si fa in molte realtà di università e talvolta anche di scuole superiori - che possano promuovere un sapere critico, svicolato da logiche produttive e di mercato, ponendosi come spazi liberi di confronto; zone franche, appunto, da cui estendere letture diverse della realtà, per estendere, anche concretamente, il diritto alla critica e ai liberi pensieri: l'utopia di un altro mondo rischia di restare tale, senza un lavoro nei luoghi della formazione, senza la costruzione di un altro sapere.
giugno 2002
in educazione e politica:        |
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