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Re: Aprea rilancia il proprio DDL. Regionalizzare la scuola
Paola Capozzi
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In una logica qual è quella che esponi, lo sviluppo di un'autonomia
didattica realmente intesa
sarebbe stato sufficiente a garantire quel margine d'identità tra
cultura nazionale e tradizionale di
cui lamenti la mancanza. Anche se, dalle mie parti, la proposta
d'inserire in quota Pof un corso di
dialetto artenese compendiato da poesie "a braccio" stornellate da noti
cantori locali, è tramontata tra
qualche sarcasmo e l'indifferenza generale. E, d'altra parte, non è che
nell'imporre una linea educativa piuttosto
che l'altra mi sembra dirimente se a farlo sia il Potere di uno Stato o
quello di una Regione, visto che sempre di
decisioni autoritarie e calate dall'alto si tratta. Nè ho capito se la
visione federalista della Lega - che non è davvero
quella di Cattaneo - preveda l'inserimento d'ufficio - a prescindere -
del dialetto e delle tradizioni locali
nei programmi scolastici regionali (ammesso e non concesso che questi
peana campanilistici abbiano senso al
di là di una demagogia populista, oltremodo efficace e strumentale ai
fini della gestione del potere politico di Roma ladrona).
Quanto al fatto che la scuola statale sia sempre stata un corpo estraneo
per le realtà locali, lascia che opponga
a tale giudizio oltremodo lapidario il suo necessario margine di
opinabilità. Da una parte perchè non c'è Stato unitario - federalista o
meno - che possa
eludere l'esigenza di una cultura e una lingua nazionali. Poi perchè, a
smentire la tua tesi, c'è la realtà di una "cultura" nazionalpopolare
costruita
soprattutto dai media che, ben lungi dal non trovare riscontro e
consenso rappresenta enormemente, più della scuola stessa, il veicolo di
quelle ideologie
che l'istruzione e la cultura individuali dovrebbero tamponare. Di ciò
che io chiamo, da obsoleto relitto della sinistra quale sono, "coscienza
critica" e che, bando
alla forma, dovrebbe essere al cuore della funzione stessa della scuola
pubblica oggi come oggi: soprattutto là dove questa non voglia
trasformarsi in mero strumento di regime, veicolo
di modelli culturali apparentemente obsoleti e svuotati da qualsiasi
significato che non sia noia o puro diletto intellettuale.
C'è poi una affermazione che tu fai e che, caro Gavalot, mi fa davvero
sorridere. Quando dici: "Semmai oggi dovremmo chiederci che tipo di
scuola regionale vogliamo creare.
Una scuola più funzionale alle esigenze di una società avanzata,
borghese fino al midollo delle sue ossa? Una società che non crede più
in alcuna alternativa a se stessa?"... Ma
veramente credi che la società italiana sia una società avanzata
borghese fino al midollo delle sue ossa? Nemmeno nei momenti più felici
l'Italia si è identificata
con una cultura borghese, figuriamoci in un periodo di crisi qual è
quello che stiamo attraversando. E quale sarebbe, poi, questa borghesia
italiana? Pasolini aveva previsto
che, morto l'unico tessuto culturale (quello schiettamente popolare,
legato alla terra e alle tradizioni popolari del XiX secolo), con
l'avvento di una "rivoluzione" industriale solo formale
e di una società del benessere che non aveva mai trovato radici in
alcuna rivoluzione di classe, noi avremmo perduto anche quel poco di
anticorpi a segnare almeno
un distacco morale tra i diritti e i bisogni della massa rispetto ai
privilegi di una pletora di politicanti proni solamente ai propri
interessi e a quelli delle proprie famiglie. L'idea di un
progresso inteso solo in termini temporali, privato della sua profondità
storica è - nel caso migliore - il tentativo di ritornare ad un passato
che non esiste più. Nel caso peggiore, quello che
stiamo vivendo tutt*, senza distinzione di razza, sesso o fede politica,
una tragica corsa al ribasso, alla ricerca di un "fondo" che non arriva mai.
11 aprile 2010
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