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Foto sfocate
Elena De Gasperis
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All’improvviso si levò la luce
All’improvviso si levò la luce, le mie mani non sembrano le solite di sempre… Sono tre anni che non mi sono più lasciata andare, ho vissuto di assaggi, assaggi di gioia, piacere, paura, rabbia, tristezza… Non ho portato un mio sentimento all’ “esagerazione”.
I miei passi riluttuosi rimbombano contro l’asfalto.
Passeggio in serpentine vie buie dove ascolto la riluttuosità dell’atmosfera.
Una vita sfortunata la mia, ecco come la descrive la gente ubriaca di pettegolezzi.
Ebbene sì, non ho mai avuto una bella vita.
Vivo in una grande e vuota casa, con mia madre e il suo nuovo insulso compagno, (mio padre vive in Spagna e si è rifatto una famiglia) sì, i miei genitori sono divorziati.
Non sento né vedo mio padre da quando avevo quattordici anni (ora ne ho diciassette) e non mi manca minimamente, è solo un idiota.
Con mia madre non vado d’accordo, col suo compagno ancora meno.
Ho iniziato a fare uso di eroina due anni fa, quando morì mia sorella, che aveva un anno in più di me, uno schifoso bastardo la violentò e sgozzò, non lo trovarono mai quei poliziotti incompetenti.
Lei era tutta la mia vita.
Il giorno della sua morte tentai il suicidio facendo un cocktail di Valium, tranquillanti, pasticche per la pressione, per il metabolismo, aranciata, vodka, whisky e medicinali vari: sapore micidiale e orrendo! Quello che mi importava era solo che fosse micidiale; stramazzai al suolo con spasmi allo stomaco e gli occhi sbarrati… Non morii perché una bidella mi trovò sul pavimento del bagno.
Mi svegliai presa a schiaffi da una dottoressa; mi infilarono contro il mio volere un tubo in gola fino all’intestino facendomi vomitare il mio letale spuntino.
Dio mio quanto odio vomitare.
La mia cara ed alcolizzata madre mi spedì in un ricovero per gente “deviata”, anche se secondo me sarebbe dovuta andarci lei.
Fui dimessa dopo un mese.
A scuola vado male, la mia casa la chiamo deposito perché ci tengo solo la mia roba e qualche volta ci dormo.
Il compagno di mia madre mi ha picchiato varie volte, ma io facendo kick boxing da autodidatta l’ho sempre steso ed in più per via del suo stato di sobrietà inesistente non si reggeva nemmeno in piedi da solo.
Conosco tanta gente, ho tantissimi amici ma mi sento sola.
Ho due lavori: faccio la cameriera in un ristorante palesemente costoso il finesettimana per pagarmi la droga e ho un negozio di dischi con un mio amico.
Smisi di farmi di eroina dieci mesi fa grazie al metadone, mi sono data alla cocaina (motivi di soldi e un’alta percentuale di overdose da evitare).
No, non posso concludere questa mia penosa riflessione per distrarmi dal freddo che si infila nei miei vestiti con un “Ora non mi drogo più, ho una vita fantastica e bla bla bla”.
Continuo a vagabondare guardando le nubi scarlatte, i tetti umidi decorati da luccichii grigio perla come tanti ghirigori con i miei occhi imporporati di rabbia provando a immaginare il mio futuro.
“Esistono narcotici per il rimorso, droghe che possono addormentare il senso morale: ma qui vi era un simbolo visibile dell’avvilimento del peccato, un segno sempre presente della rovina che gli uomini portano nella loro anima.”
O. Wilde
Il nespolo maledetto
La prima cosa che mi colpì nell’osservare il giardino fu quel nespolo che la tradizione definiva maledetto.
Una donna fu impiccata dal marito geloso ed esposta al pubblico; una donna avvelenava i mariti con la marmellata di nespole.
Io avevo compreso il motivo per cui si diffondevano queste leggende e accadevano nel quartiere fatti strani.
La domanda da porsi era il perché non si sapeva mai che fine facevano gli autori dei delitti.
Questi emblemi mi erano sempre piaciuti e quella cocente estate avevo un bel po’ di tempo a mia disposizione e vestii i panni di investigatore improvvisato.
Come ogni bravo segugio, quando vengono fiutati delitti si va a fiutare negli archivi, purtroppo però erano andati persi in un incendio anni fa.
Il caso volle, forse, che il maresciallo del quartiere abitava proprio nel quartiere del mistico nespolo.
Quest’uomo aveva sempre avuto uno sguardo furtivo, non era il classico maresciallo fiero e simpaticone del paese, ma riservato e misterioso, un uomo tutto di un pezzo.
Citofonavo al suo appartamento ma nessuno rispondeva, sarei ripassato quella stessa sera.
Nel frattempo ritornavo frettoloso nella mia residenza.
Lentamente scrutavo i passanti umidi di sudore dalla finestra della mia camera da letto.
Con le mani giunte e la fronte aggrottata cercavo di scatenare quest’enigma intrecciato.
Il sole iniziava a celarsi dietro i verdi smeraldi colli.
Era sera ormai.
Camminavo quatto nella stradina stretta.
Era una sera ambigua e in quel quartiere neanche la luna vi era a fare compagnia.
Improvvisamente uno sportello di auto si chiudeva.
Istintivamente mi ero nascosto dietro un tozzo albero in foglie. Era lui, trascinava un sacco nero giù dalla macchina alto più o meno un metro.
Restavo lì in silenzio fin quando non vedevo l’uomo entrare nella sua casa.
Cosa trasportava così affannato in quel bustone? Un cadavere?
Il vecchio era il mio primo e unico sospetto.
Mi serviva decisamente un piano per entrare nella sua abitazione.
Mi balenava in testa una folle idea.
Formulavo frettolosamente la frase da recitare e citofonavo agitato.
Mi aveva aperto la porta col fiatone.
“Salve, lei è il maresciallo giusto? Piacere sono Giuseppe.”
“Sì…cosa vuole?”
“Devo parlarle di una persona defunta che l’amava, ma che non ha mai avuto nemmeno il coraggio di rivolgerle anche solo un saluto”
Con occhi sbarrati rispondeva balbettando: “C-c-cosa? Prego, entri pure.”
Scrutavo la casa, ancora nel salone affianco ai divani era posizionato il grande sacco nero e lucido.
Un brivido mi percorreva la schiena mentre mi chiedevo cosa di tanto dannato c’era nel sacco.
Mi dovevo concentrare.
“Allora…lei abita nella casa di fronte al vecchio nespolo…!”
“Già…ci manca solo che ci girino un film su…ma ora la prego mi parli della sua visita…”
Era stato molto vago riguardo a quella pianta.
“Mia sorella morì qualche anno fa. Negli ultimi suoi mesi di vita trovava interesse per lei. Ma la mia sorellina, Teresa, è sempre stata molto timida sa? Anche essendo una bella donna: alta, mora, slanciata…non ha mai avuto neanche il coraggio di farsi vedere da lei…non lo so di preciso cosa mi sia balenato nella mente da venire qui a dirglielo…è strano da spiegare ma penso mi abbia capito…”
“Oh beh…sì…c’è…avrei tanto voluto conoscerla…ha una sua foto? La prego…ho sempre cercato la donna della mia vita senza successo…e ora vengo a sapere di lei…”
“Lo so che per lei è sconvolgente…ma non ho nessuna foto…la prego, il suo era un interesse appena rilevante,non ci stia male…”
“S-sì…”
“Mi trovo un po’ in imbarazzo e anche lei…Ma cos’è quel sacco lì giù?”
“Oh…ho comprato dei nuovi cuscini per il divano a poco prezzo quest’oggi…”
“Scusi la mia invadenza…immagino di averle recato disturbo quindi per sdebitarmi vorrei aiutarla a mettere i cuscini”
“Oh no, ma si figuri!”
“Davvero insisto!”
“Beh se proprio vuole…!”
Quella risposta placa e composta mi lasciava sbigottito.
Intanto l’uomo cacciava i cuscini dal bustone.
In quel preciso istante il mondo mi crollava sul cranio.
Stupido: stupido era l’unico aggettivo con cui riuscivo a descrivermi.
Stupido perché nella mia vita non avevo concluso nulla di buono e per una volta volevo sentirmi importante, un eroe.
Ma non era così. In quei tempi dove tutti correvano avvolti dalla loro chioma di egocentrismo.
E io, io che toccavo sempre il fondo e più giù.
Ero pieno e vuoto. Pieno di rimpianti e vuoto di conclusioni.
Ero il nulla.
La porta si aprì
La porta si aprì, lei entrò in maniera elegante come al solito attraente con il vestito nero da lutto … e beffarda serpeggiava intrisa di sguardi.
Quello che poteva provare per quegli spettatori disidratati era solo una pena astratta.
Correvano blasfemi e grondanti di lussuria entro le loro ruote tonde e spesse.
Erano carnefici di ragazze prosciugate in scheletri e ragioni offuscate da spot pubblicitari assillanti e squallidi.
Perché è la TV del dolore, della disperazione.
Manipolando le disgrazie e truccando quei volti scarni di fame e scoperti di corpo.
Allora lei con i suoi occhi dissacranti voleva spazzarli via come il vento che spazza via granelli di sale, quel sale che sterilizza i terreni della logica degli umani.
Era un piano perfetto il suo.
Li incatenava, loro erano euforici, schizzati e non comprendevano il tutto.
Le catene cadevano pesanti ai loro polsi, tutti intrappolati contro un muro bagnato e freddo, si respirava un’aria umida e penetrante.
Li cospargeva di acqua, le vesti costose colavano con i loro capelli.
Si allontanava appena aveva finito di incrociare gli spregevoli.
Dall’altra estremità della stanza afferrava una leva fredda tirandola giù con voga.
I bastardi scintillavano e i loro volti si gonfiavano sbigottiti e lividi.
Tutto sarebbe cessato.
E rideva, rideva godendo di quello spettacolo esilarante.
Righe fragili di una ragazza che non riesce più a sorridere
Dipingimi con gioia, come se saltassi su cerchi colorati dal sole leggero.
Non riesco più a sentire l’erba fresca fra le dita dei piedi e la vedo rossa.
Sento come se il vento mi maltrattasse ogni volta che mi smuove i capelli.
E ho paura di guardare attraverso il vetro e sono troppo timida ormai per guardare le stelle.
I miei frattali di gioia sono come incellofanati, come se qualcuno volesse tenermi docile non facendomi respirare.
Prima accarezzavo le foglie e gli steli dei fiori, ora non riesco persino a toccare la rugiada, un complesso innocente.
L’acqua che scorre sul mio viso non mi fa più vedere, mi cuoce la pelle.
Non voglio più abbracci o carezze, mi avvolgono in uno spiraglio di angoscia.
Sento come se tutte le cose che prima mi avevano provocato gioia e stabilità ora volessero solo sbattere violentemente contro di me.
Brucia tutto qui intorno e arde dentro me.
La mia anima è assorta composta tra le fiamme.
Una donna rientra stanca dal lavoro e la casa comincia a ribellarsi
Si stiracchiò nel letto, sveglia ormai, ma troppo stanca per affrontare una nuova giornata di lavoro, traffico, panini per pausa pranzo e stress.
Si diresse lentamente verso il bagno, si raccolse i capelli in un mollettone rosa e girò la manopola del lavandino al massimo per far uscire l’acqua calda.
Spremé il dentifricio e si iniziò a spazzolare i denti mentre il rumore dell’acqua le fece compagnia.
Dopo una lunga sosta nel bagno ne fece una altrettanto lunga davanti l’armadio per scegliere quale cappotto con la pelliccia indossare.
Decisa, afferrò due pantaloni, li buttò nell’oblò vuoto della lavatrice e l’accese.
Voltandosi verso la parete alla sua sinistra notò che l’orologio la stava avvertendo del suo ritardo.
Uscì di casa lasciando le luci accese e pur avendo la fermata delle circolari davanti casa decise come ogni mattina di raggiungere l’azienda di moda dove lavora con la sua automobile.
Finito il turno di lavoro tornò nella sua dimora; una sensazione strana le cavalcò la mente e inserendo le chiavi nella fessura della porta laccata di bianco una forte scossa la colpì fino al polso.
Entrò e la porta si richiuse di scatto sbattendo violentemente.
Le mattonelle si sollevarono e la fecero inciampare ad ogni suo passo.
Lei non capì, perlustrò scettica la scena intorno a sé che si impadronì della sua immensa casa.
I vetri esplosero e le sfregiarono il volto, dei rami spinati la strinsero forte come se un gigante la volesse stritolare in una mano.
Piante d’edera si arrampicarono per le scale e scartarono la carta da parati che le costò moltissimo.
Fu scaraventata contro la cristalliera che teneva per il salotto mentre le spine le bucarono sempre più la pelle.
Un varco di lampi le si aprì davanti.
Vi scorsero ombre che si resero sempre più nitide alla sua vista.
Pezzi di vita dei suoi sprechi futili, dei suoi ragionamenti superficiali e la sua malvagia frivolezza nel sintetizzare che ogni uno…due…tre…quattro…cinque secondi muore un bambino di fame, muoiono persone vittime della guerra, le multinazionali aumentano lo sfruttamento e la povertà nel terzo mondo, che i programmi televisivi elaborano come una lavanda gastrica sul nostro cervello, che l’effetto serra, l’inquinamento dovuto alle persone uccide la natura, l’inaccortezza per un fiore, le sevizie sugli animali, pellicce al posto di migliaia e migliaia di creature innocenti.
Il suono della sveglia le sbarrò gli occhi con un sussulto, fu un brutto sogno.
Questa donna cambiò vita da quella mattina.
L’uomo deve rispettare anche uno scomodo trifoglio che cresce lungo un marciapiede.
Cadere
Liquida come una goccia di Valium.
Tremo.
Vorrei vomitare anche quest’anima ingannata per sentirmi purificata.
Striscio quel dito che mi violenta la gola.
Ormai ho iniziato, mi sono fatta ingabbiare dalle mie debolezze.
Cado sempre, non riesco ad alzarmi.
Non ho freddo ma questo corpo non si ferma.
Cerco solo delle spalle che non si voltino a me.
E sbaglio in questo.
Devo camminare sola ma cado sempre.
Cado ora.
Cado sempre.
L.
Intrapreso il cammino con le tue dita fragili, ove non si ode nessun’ombra e crolla la nebbia.
Cammini con piedi gelidi sul tuo terreno impassibile a tutto questo mio, nostro, non tuo.
Diluvia polvere sulle tue palpebre che celano i tuoi ciechi occhi.
Scarti ogni passione incoscientemente, butti via le mie speranze.
E vorrei inserire una lama nella tua pelle.
Non è una tua colpa, né mia … Ma io non so darmi una ragione e non posso.
Il tuo sguardo mi trafigge, non perché cattivo, ma perché vuoto.
Sbatto contro il tuo muro di vetro scuro e non ti vedo e ti faccio male, lo so.
E mi odio per l’odio che riesco a provare per te.
Tu neanche questo puoi provare intensamente e mi strugge questo mio pensiero.
Quelle convulsioni assillanti mi tormentano e tu non provi nulla.
Che cosa poco lineare.
Scavo per delle conferme, le mie mani si stanno consumando ormai.
Ora in un movimento struggente che a te arriva quieto.
Stendimi le tue labbra fragili.
La mia ira ti ingoia e lo so, che ti fa male.
A me sta uccidendo.
Agonizzo su quell’umida soglia.
Voglio distruggerti e per non farlo distruggo me.
Quale forma del mio più sincero affetto verso di te potresti pretendere?
Strappami la pelle, sporca le mie parole.
E quella parola cosciente di domanda mi perseguita!
Voglio possa finire questo ma non è così.
Cado nei sospiri chiusi che mi rapiscono, questi mi intrappolano, ma tu?
Io sono colpevole e graffio le mie guance mentre le tue così scarlatte …
I segni del dolore non si raccontano sul tuo viso.
Guardami a lungo e addormentati fra i miei capelli.
Perché queste nubi mi avvolgono?
Sono nere come il mio sangue ma io non ho fatto nulla.
Non sono protetta e tu sei sempre vulnerabile.
Io cosa potrei darti?
Urla incessanti?
Sguardi confusi e a malapena ricambiati?
No.
E tu tracci fili su quei fogli e ti poni muta.
E che ne sarà di te?
E che ne farò di te?
Non lo so, e io mi sento così glaciale.
Il freddo mi cola sulla testa.
Tremo in questa confusione.
Nessuno si ferma mai.
Nessuno guarda più bene qualcosa.
L’osservazione è una dote rimasta a pochi.
Io osservo e mi dispero.
Mi vuoi lontana?
Mi vuoi vicina?
Posso correrti sull’iride, posso lanciarmi in quel baratro di follia.
E tu correresti con me?
Suppongo di no, sei troppo lenta.
Tu non puoi nulla.
Io non posso capire.
Io posso ormai solo bruciare.
Quella volta...
"Quella volta dopo il primo bicchiere ho voluto sfidare la sorte, avevo rinunciato troppo in fretta ed era passato solo un anno e non potevo gettare tutte le mie speranze al fuoco come legna da ardere.
Lei doveva essere mia, nessuno l’aveva mai amata come me.
Dovevo aiutarla, dovevo distruggere le sue paure.
E’ iniziato tutto l’estate scorsa, giuro che quando la conobbi l’idea che io mi potessi innamorare di lei non sfiorava nemmeno un attimo i miei pensieri.
Era incantevole, con i suoi boccoli ramati che le adornavano il suo bianco viso che veniva risaltato dai suoi occhi color del ghiaccio che si vede in trasparenza quando lo poggi su fili d’erba.
I suoi polsi, le sue braccia, le sue mani e il suo collo si affusolavano armoniosamente quando gesticolava parlando in quel modo così spontaneo.
Ricordo ogni suo movimento delle labbra, c’era un gran caldo e si scansava ripetutamente i capelli dalla fronte sbuffando in maniera buffa.
Quando se ne stava andando mi aveva lasciato una sensazione strana, mai provata prima.
Mi cercò e riparlammo ancora.
Un giorno, circa un mese dopo stavo uscendo per andare a fare una passeggiata, la trovai davanti a me, era appena uscita dal negozio affianco casa e mi sorrise, così…il suo sorriso mi faceva impietrire, mi emozionavo e mi salivano i groppi in gola.
Parlammo fin quando non dovette ritornare a casa.
Per tutta l’estate, appena possibile, ci incontravamo.
Fu lei che mi fece scoprire l’amore per le ragazze.
Mi diceva che ero bellissima, che le piacevo e io volevo fosse solo mia.
Dopo sette mesi ci baciammo per la prima volta.
Mi ricordo come se fosse ora la maniera in cui il pollice, l’indice e il medio giravano con la sua mano sinistra la chiave di quella porta mentre mi fissava convinta.
Si avvicinava svelta, mi prese il viso e ci baciammo.
Era stato il bacio più bello della mia vita, così frenetico, dolce, passionale.
Mi stringeva forte a sé e sentivo il suo respiro così vicino al mio collo …
In quei brevi istanti era mia, solamente mia.
Capivo finalmente di amarla davvero.
Passavano altri mesi e io passavo altri giorni, altre notti a pensarla, a guardare le sue foto, a ripensare ai nostri momenti.
Non capiva che non poteva farmi questo, mi stava distruggendo, avrei voluto prendere a calci ogni cosa che mi veniva in contro.
Non si faceva sentire e io stavo iniziando a morire dentro.
Non lo immaginava nemmeno quanto io l’amavo, quanto io riuscivo a ricordare alla perfezione ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni suo movimento. Amavo tutto di lei, dai suoi capelli al suo volto, dalla sua pelle al suo modo di muoversi, di camminare, di parlare, di guardarmi.
Non era colpa sua.
La madre morì quando lei aveva nove anni e suo padre era uno di quelle “persone” che odiano gli omosessuali, extracomunitari e qualsiasi cosa “che non si possa definire nella norma”.
Buffo, dato che io ero una donna russa e lesbica che amava alla follia la sua cara figlia.
Lei aveva paura di lui, non voleva essere scoperta, sapeva di non essere nel torto ma si vergognava, si sentiva in colpa anche solamente a guardarlo negli occhi e questa cosa mi dava troppo fastidio.
Non si poteva continuare così.
Le dissi che doveva scegliere cosa fare, voleva troppo bene a suo padre e quell’uomo non lo meritava, era spregevole.
“Se ti vuole davvero bene capirà e accetterà le tue scelte” erano state queste le parole con cui l’avevo convinta a dirglielo, dirigendoci verso casa sua.
Suo padre non reagiva affatto bene alle nostre parole.
Strillava, ci insultava, malediceva sua figlia.
Lei piangeva e io le stringevo forte la mano con gli occhi lucidi.
“Vai, amore, ti telefono dopo. Devo farlo calmare, è un brutto colpo per lui, se resti qui peggiori solo la situazione. Ti amo amore.”
All’inizio ero contraria, poi quel “Ti amo, amore” mi aveva dato un senso di quiete.
Fuori dalla porta una terribile sensazione mi inondava il cervello.
Un urlo straziante proveniva acuto dalla casa.
Aperta la porta lei era stesa al suolo con un lago di sangue che si distendeva dalla sua testa alla tappezzeria.
Suo padre giaceva a terra con una tenaglia per il fuoco immobile.
Non avevo la forza di muovermi, gridavo il suo nome.
Era morta.
La polizia che aveva chiamato il padre arrivò poco dopo, lui non opponeva resistenza e si faceva arrestare in lacrime.
Ero uscita dalla porta e correvo, correvo.
Raggiunsi il luogo in cui ci conoscemmo, la terrazza di un palazzo abbandonato.
Lì quella mattina, in quel palazzo, si svolgeva una gara di parkour, lì quella mattina la conoscevo.
Non potevo vivere senza lei, non sarei riuscita ad apprezzare più niente, ad amare più nessuno."
Ora sono qui, ho finito di scrivere questa lettera su questo pavimento, non so in quanti la leggeranno ma voglio che questa storia si ricordi per sempre.
Ho usato questi verbi al passato imperfetto perché la mia anima è morta con lei e ora anche il mio corpo cesserà di vivere gettandosi da questa terrazza, così importante per me.
Non smetterò mai di amarla.
Scatole
Scatole, scatole dove sono deposte lacrime.
Scatole dov’è deposta la rabbia.
Scatole dov’è deposta la gioia.
Quest’ultima l’ho persa, non la ritrovo più!
È buffo, eppure ho cercato ovunque.
C’è una grossa targa blu con scritto “gioia”.
Ma continuo a cercare e…nulla! Non si ritrova.
Quanta polvere! Ma da quant’è che non faccio ordine?
Mi sono ricordata solo ora, che quando ho aperto la scatola della rabbia non riuscivo più a richiuderla.
E sapete cos’ho fatto?
Ho mangiato la scatola della gioia.
Tutta! Anche la targa blu!
Ed ora non ho più fame.
Non voglio averne più.
aprile 2010
Studentessa del I anno del Liceo Artistico "Anton Giulio Bracaglia" di Frosinone
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