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Sulle Università "virtuose"
dalla lista Didaweb
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A proposito della crisi delle Università Statali, riportiamo la discussione che si è aperta tra alcuni iscritti alla lista del Didaweb generale dopo la promulgazione dei criteri di individuazione delle "Università virtuose".
Laureati nuovi emigranti
Io mi chiedo se al sistema faccia davvero comodo "una scuola che formi".
Quanti laureati emigrano perché non riescono a trovare un lavoro corrispondente agli studi fatti? Circa 3.000 l'anno. La percentuale di laureati che ha lasciato il paese è quintuplicata tra il 1990 e oggi. Ancora oggi, ogni anno, 70.000 laureati e diplomati del nostro Mezzogiorno si trasferiscono al Nord per motivi di lavoro e di realizzazione professionale.
E i laureati che rinunciano definitivamente a cercare qualcosa inerente agli studi fatti (quindi senza emigrare)? Si contano a decine di migliaia.
Il tasso di disoccupazione è al 20,4% per i laureati di età compresa tra 25 e 29 anni, e resta all'8% per quelli tra i 30 e i 34 anni.
Forse non è neanche il caso di ricordare che tra i paesi Ocse il nostro paese ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile.
Su 20 milioni di laureati dei paesi Ocse soltanto 7 su 1000 scelgono di trasferirsi nel nostro paese per continuare la propria attività. Meno di quanti hanno scelto la Turchia!
In Italia è stato stimato che su cento laureati nazionali circa 2,3 sono stranieri, mentre la media degli altri paesi Ocse è del 10,45: negli Stati Uniti ce ne sono 11, in Austria 12, in Svezia 14, in Olanda e Gran Bretagna 16, in Nuova Zelanda 21, in Canada 25, in Irlanda 26 e in Australia 44.
Oltre la metà di laureati italiani occupati all’estero ritiene molto improbabile, se non quasi impossibile, il rientro in patria.
In Italia soltanto il 15% dei giovani a 5 anni dalla laurea trova un lavoro stabile e coerente col proprio percorso di studi. All’estero i laureati più brillanti rivestono maggiormente posizioni di funzionario, direttivo e quadro (18% contro l’8% dell’Italia) e ricercatore (10% contro l’1% dell’Italia).
In sintesi, l'Italia spende molto poco per la ricerca o comunque non attrae come ambiente di ricerca, i nostri giovani migliori non hanno fiducia nel proprio paese, gli stranieri non considerano l'Italia fra le proprie opzioni. Anche se formiamo ottimi studiosi, di fatto li spingiamo ad andarsene.
Di questi dati il web è pieno. Ma noi tendiamo sempre a minimizzare i problemi perché in realtà non sappiamo come risolverli.
Enrico Galavotti
Dopo la pubblicazione degli elenchi delle università virtuose (che peraltro premia l'ateneo nel quale lavoro) ho in mente alcuni pensieri che mi ronzano in testa e che sono assai poco politicamente corretti.
In poche parole ho ben più di un'impressione che - con una università allo sfascio - tutti i dati che riguardano laureati e diplomati, se raffrontati ad altri Paesi di nobili tradizioni universitarie - diciamo dal Burkina Fasu in su - sono assolutamente fuorvianti.
In altre parole il fatto che un laureato italiano sia considerato "un laureato" è una pura fictio, in quanto il suo bagaglio di competenze quasi mai è concretamente raffrontabile a quello dei colleghi laureati in università algerine o indiane (non scherzo, è vero)... quindi il fatto che una alta percentuale di essi si debba accontentare di lavori che non presuppongono la laurea non è altro che un adeguamento alla realtà che il mercato impone.
Se poi c'è qualcuno sveglio, dotato e volenteroso... è evidente che scappa all'estero. Che ci fa in un sistema in mano a consorterie e baronie (di più colori) se non appartiene alla casta?
Gli studenti, poi (soprattutto quelli impegnati nei gruppi che esprimono i rappresentanti nei consigli di facoltà ecc.) hanno più o meno consapevolmente stipulato un pactum sceleris con le baronie: voi mi date un appello al mese ed il 18 assicurato, noi non vi rompiamo le scatole... e le università "debbono" dare il 18 a tutti, sennò diventano "non virtuose" perché aumentano i fuori corso e risultano pochi esami sostenuti...
Sull'università si dovrebbe fare una seria riflessione, ed anche qualche clamorosa autocritica...
Settimio Carmignani Caridi
I Ministri, il Cepu e la virtù
Concordo pienamente, sia sulla diagnosi che sull'autocritica.
L'Università tende verso il suicidio a causa della corruzione interna ma i vari governi che si sono succeduti (e l'attuale più di ogni altro) le offrono la pistola carica. La grottesca "virtù" di cui i ministri parlano consiste infatti in due ben precisi elementi:
- tagli drastici che costringeranno, fra l'altro, ad alzare -e di molto- le tasse di iscrizione;
- esami facili per tutti.
Insomma più che virtù è Cepu.
Aggiungo alcune righe di un comunicato dell'ANDU:
I criteri adottati per formulare questa classifica sono improvvisati, arbitrari, parziali, non discussi con il mondo universitario e sono stati utilizzati dati vecchi.
Ma quello che è ancora più grave è l'idea stessa di premiare gli Atenei 'virtuosi' e di punire gli altri senza PRIMA avere rilanciato gli Atenei statali. Un rilancio che richiede PRIORITARIAMENTE il consistente aumento (come negli altri Paesi) dei finanziamenti (il contrario del crescente 'strangolamento finanziario' in corso da molti anni) e una vera riforma della 'governance' e del reclutamento che consenta finalmente la gestione democratica e responsabile degli Atenei e che debelli realmente il nepotismo.
Certamente non salverà "le nostre università'" una riforma che, come quella voluta dalla Confindustria, dal Ministero, dal PD e dalla CRUI, aumenta senza limiti "il potere dei rettori", già oggi potenti per l'assenza di un reale controllo da parte dei propri Atenei, attraverso Organi che (a differenza degli attuali SA 'dominati' dai Presidi) dovrebbero essere composti esclusivamente da rappresentanti eletti direttamente da tutte le componenti universitarie.
Ed è vero che LA QUESTIONE oggi è quella rappresentata dai tagli; tagli mortali voluti e decisi dagli 'economisti' del Ministero dell'Economia. Di questa 'semplice' realtà, invece, i rettori-capponi di Renzo sembrano non rendersi conto e in ogni caso non sono certo essi che potranno affrontarla adeguatamente, essendo espressione di quell'assetto di potere oligarchico che e' una delle principali cause del dissesto degli Atenei e della crisi dell'Università statale.
Ciò che non sembra essere chiaro a Francesco Giavazzi è che il vero ministro dell'Università, che è quello dell'Economia, per evitare che gli Atenei "brucino" non può che 'scegliere' di "rinunciare ai suoi tagli".
Infatti, se la soluzione adottata dal ministro Tremonti dovesse essere quella di confermare i tagli e 'sanare' gli Atenei con l'aumento delle tasse degli studenti, a novembre (ma anche prima) gli Atenei "bruceranno" e ci auguriamo che a fianco degli studenti ci siano anche quei docenti che vogliono opporsi alla mercificazione della conoscenza e alla protervia dei 'privati' e dei loro 'addentellati' accademici che, in nome del "libero mercato", vogliono appropriarsi delle risorse pubbliche per l'alta formazione e la ricerca, come hanno già consistentemente cominciato a fare.
Alberto G. Biuso
... ma la cosa più ridicola è che vengono premiati i bravi e puniti i somari, come se fossimo a scuola!
A parte che neppure a scuola ci permettiamo di agire sempre e comunque così, in quanto i somari vanno incentivati per migliorarsi, altrimenti dovremmo dar ragione al Leopardi quando parla di "natura matrigna". Ma il problema più grave è che il Ministero non capisce che l'Università non può essere paragonata alla scuola.
L'Università dovrebbe essere un centro di ricerca che collabora col territorio in un rapporto d'amorosi sensi: rispondere ad esigenze produttive e a sua volta porne di proprie. Quando poi esistono facoltà di eccellenza, il territorio diventa addirittura "villaggio globale" e dall'estero si precipitano a iscriversi a dette facoltà per gustarsi il nettare che fuoriesce dalle loro cattedre.
Invece da noi come si procede? Come nella parabola dei talenti, il tenutario ne dà di più a chi ha già più capacità, più risorse, più mezzi, che guarda caso ha la fortuna di trovarsi "A NORD". Invece di fare un'analisi sui motivi dei ritardi, delle inadempienze, ci si comporta come un padre padrone che giudica ed elargisce a sua discrezione. E senza neppure avere il criterio etico secondo cui in teoria dovrebbe essere aiutata di più la facoltà che ha più problemi, se proprio si vuole gestire la cosa dall'alto, come tanto ama fare il nostro Stato centralista, che tale è rimasto anche con la Lega al governo.
E così abbiamo un Ministero che non solo non riesce a capire, come il dr. Watson, i criteri elementari dell'ispettore Holmes, ma non riesce neppure ad accettare l'idea che dovrebbero essere la società, il mondo del lavoro, le imprese a stabilire quali facoltà vanno davvero premiate e quali no. Non è forse così in un qualunque paese del capitalismo avanzato, quale noi volens o nolens siamo?
Ma quelli di Napoli, con quattro facoltà considerate spazzatura da un governo che si vanta d'avergliela tolta dalle strade, non se la sono presa nemmeno un pochino?
Enrico Galavotti
luglio 2009
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