|
Il “new deal” di Obama
Marino Faggella
|
1 - Secondo molti esperti commentatori la pesante eredità lasciata da Bush metterà a dura prova i collaboratori e la squadra di governo del suo continuatore, che non poche difficoltà si troveranno ad affrontare per realizzare gli obiettivi geostrategici ed economici del neoeletto presidente.
Per questo, all’indomani della sua grande affermazione, dopo aver ringraziato i leader mondiali per gli auguri ricevuti, Obama si è messo subito all’opera per concentrarsi sui contenuti, sul metodo, sui tempi di attuazione del suo programma elettorale e sulla formazione della sua squadra di governo.
Per dare una risposta immediata alle drammatiche sfide che lo aspettano che, come risulta dal suo discorso pronunciato subito dopo l’election day sono per sua ammissione “le più drammatiche della nostra epoca”, il neoeletto presidente ha stabilito di occuparsi con priorità assoluta di tre problemi fondamentali: la crisi finanziaria, il terrorismo, le due guerre che ancora impegnano l’America nel medio oriente. Si tratta di questioni di capitale importanza, in alcuni casi di portata epocale, come la terribile crisi finanziaria, che richiedono di essere trattati con interventi immediati e nello stesso tempo meditati, in grado di dare non solo risposte rapide ma anche durature e stabili nel tempo. L’impresa non è certamente facile per i successori di Bush, il peso che dovranno sostenere non sarà agevole, anche per i pesanti lasciti della precedente amministrazione, i cui metodi, “il vecchio modo di fare” politica, vengono rigettati da Obama per approdare ad una politica del cambiamento e delle riforme tanto attesa dagli americani e nel mondo.
Ma il presidente neoeletto, malgrado il successo, non si è abbandonato ad affermazioni trionfalistiche, che pure sarebbero concepibili nel momento della vittoria, le sue affermazioni non indicano solo fiducia in se stesso, ma rivelano anche molta prudenza e pragmatismo:”La strada che abbiamo davanti sarà lunga. La salita ripida. Forse non arriveremo al traguardo in un solo anno, forse non basterà un unico mandato. Ma mai come stasera, America, sento che ce la faremo”. Queste parole, che si trovano nella parte centrale della sua orazione, spiegano la vittoria del candidato democratico. Tutto il discorso di Obama è un invito alla speranza e all’ottimismo e contemporaneamente a un forte richiamo all’unità del Paese, a un modello di democrazia che fa appello, non solo per il proprio interesse ma anche per quello comune, a un nuovo amor di patria, a un nuovo senso di responsabilità, a cui tutti sono chiamati per poter superare le drammatiche difficoltà del momento e per partecipare, come gli antichi padri fondatori dell’Unione, alla ricostruzione della nazione.
Giustamente Kerry Kennedy ha scritto che la vittoria e il discorso di Barak Obama richiamano da vicino, per l’invito al senso dell’unità, i seguenti versi di una poesia di Langston Hughes:”Che l’America sia di nuovo America / la terra che finora non è mai stata / Eppure deve essere / La terra dove tutti sono liberi / La mia terra / Quella dei poveri, degli indiani, dei neri… / Chi ha fatto l’America,… / Deve riportare in vita il nostro grande sogno. / Noi, il popolo, dobbiamo riscattare la terra,le miniere, gli alberi,i fiumi, / Le montagne e le pianure sconfinate / Tutto, tutto ciò che si distende su questi verdi stati / E ricostruire di nuovo l’America”.
2 - Anche se non è facile, molte volte si tratta di desumerli da semplici interviste o da dichiarazioni di principio dei commentatori, cercheremo di soffermarci per i nostri lettori sui punti salienti di quella che sarà probabilmente nell’immediato la prossima azione politica di Obama.
Uno dei primi atti del neoeletto presidente americano è stato quello di ricordare a tutti, amici ed avversari, di voler essere il presidente di tutti gli americani. Ma perché ciò si verifichi è necessario colmare, mettendoli da parte, ogni particolarismo o divisione ideologica che sarebbero un ostacolo all’idea dell’unità che egli intende perseguire. In questo egli ha dimostrato di ispirarsi non tanto alla filosofia del “Padrino”: ”Tieni vicini gli amici, ma ancora più vicini i tuoi nemici”, quanto piuttosto al nobilissimo esempio di Abramo Lincoln (come Obama giunse alla presidenza partendo dalla carica di governatore dell’Illinoys, ma quale candidato del partito repubblicano) il quale in una nazione molto più divisa dell’attuale, propose agli avversari un patto di unione, quello di essere non nemici ma amici. Analogamente al vecchio presidente anche il nuovo, per quanto sia diviso dalla passione politica e dalla recente rivalità, ha teso la mano al suo ex avversario McCain, chiamandolo a collaborare alla risoluzione degli urgenti problemi che assillano la nazione. Eppure per mesi essi si sono attaccati percorrendo ogni angolo dell’america o confrontandosi in nervosi dibattiti televisivi. Ma dopo l’election day, il presidente eletto e il suo rivale si sono incontrati a Chicago, facendosi ritrarre nello studio di Obama con al centro l’immancabile bandiera a stelle e strisce, per vedere come “rimettere le cose a posto nel Paese” in modo bipartizan e per poter avviare “una nuova era di riforme” in grado di mettere fine all’era Bush. Jhon McCain, mettendo da parte la recente rivalità, si è dichiarato disponibile ad aiutare l’amministrazione Obama su alcuni temi molto scottanti, quali l’energia e la lotta al riscaldamento globale.
Questo clima distensivo di unione, che caratterizza i rapporti del presidente neoeletto e del suo ex rivale, non si è verificato certamente da noi nel dopo-elezioni, dove, a parte le tirate polemiche neoradicali di Di Pietro contro Berlusconi, l’aria che si respira tra maggioranza ed opposizione è quella di una contesa mai smessa, che non giova certamente a risolvere la grave crisi economica del Paese.
Ma, dopo questo confronto, che serve a chiarirci ancora una volta le differenze che esistono tra la politica americana e la nostra, ritorniamo a McCain per proporci la seguente domanda: per quale ragione gli elettori degli Stati Uniti, preferendogli Obama, non lo hanno eletto? Non è facile rispondere a siffatta domanda, non fosse altro perché non è agevole etichettare il candidato del partito repubblicano. Questo eroe della guerra del Vietnam, scelto a settantuno anni dai repubblicani quale oppositore di Obama, è certamente un candidato un po’ sui generis, neppure molto disposto ad accettare la disciplina del suo partito. Per comprendere, pertanto, che tipo di presidente egli sarebbe potuto essere, noi guardiamo non tanto al suo programma, del resto mai ufficialmente presentato, quanto ai suoi diversi interventi, da cui risulta che questa specie di Eisenhower redivivo, riproponendo le linee essenziali della politica strategica di Bush e ribadendo l’impegno americano in Iraq e una guerra senza quartiere al terrorismo, sarebbe stato un falco in politica estera, quasi un clone dell’ex presidente. Non è bastato evidentemente agli americani, per eleggerlo, la proposta di chiudere Guantanamo e le sue affermazioni a difesa del clima e dell’ambiente. Riteniamo, in generale, che la sua mancata elezione sia dovuta soprattutto al fatto che gli americani hanno giustamente ritenuto che con McCain alla Casa Bianca si sarebbero verificati solo cambiamenti limitati, non quell’inversione di rotta rispetto all’azione della precedente amministrazione che essi si augurano avvenga con Obama.
3 - Subito dopo la sua elezione, Barack Obama, col proposito di avviare il suo programma di stabilizzazione e rinnovamento, si è messo a lavoro nella non facile impresa di scegliere i componenti della sua squadra di governo. Infatti egli si è trovato subito di fronte al dilemma, viste le difficoltà soprattutto economiche del momento, se imbarcare gente di provata esperienza oppure circondarsi di volti nuovi per rispondere alle richieste di quanti invocano più il cambiamento che la stabilizzazione.
Nella scelta dei suoi ministri Barack, rivelandosi un presidente progressista in abiti pragmatici, ha fatto prima di tutto i nomi di Tim Geithner (numero uno della Federal Riserve Bank of New York) e Larry Summers (già segretario al tesoro sotto Clinton e attualmente stretto consigliere di Obama), il primo come ministro del Tesoro, il secondo quale super-consigliere economico. Non tutti, soprattutto gli ultra-progressisti, si sono dichiarati favorevoli a queste scelte, sia a quella di Geithner, già traghettatore nella tempesta della prima crisi economica durante il mandato di Bush, sia a quella di Summers, ritenuto uno dei maggiori sostenitori della deregulation liberista degli anni ’90. Nessuno degli esperti, di qualsiasi estrazione, contesta l’autorevolezza e l’esperienza dei prescelti, ma è comprensibile che, nell’attuale tempesta finanziaria che ha tutte le caratteristiche di una crisi di sistema, quelli che in qualche modo hanno partecipato alla costruzione del più recente modello di capitalismo finanziario americano siano guardati con qualche sospetto, ma, è anche ingiusto ed inopportuno rinunciare alla loro provata esperienza, data la gravità del momento. Se è possibile una scelta dei componenti della squadra economica tenendo conto soprattutto delle capacità e del loro spessore culturale è però più che probabile che la maggior parte degli amici e dei più stretti collaboratori di Bush saranno giubilati, in quanto l’elezione di Obama preclude loro la possibilità di conservare qualche carica pubblica importante. Sulla stampa americana di questi giorni qualcuno ha ironizzato che il 20 gennaio più di qualche ex di Bush dovrà, come accade ai comuni mortali, fare la fila negli uffici di collocamento. Tra le vittime eccellenti probabilmente ci sarà anche Condoleeza Rice, la quale, per non rimanere disoccupata, si è fatta assumere come rettore dell’Università di Stanford in California.
4.In questi giorni come componente di riguardo della prossima squadra di governo da parte della stampa locale si è fatto con insistenza anche il nome di Hillary Clinton per subentrare alla Rice alla guida della diplomazia americana. Se è vero che Obama ha detto alla Cbs di aspettarsi da lei “consiglio e consulenza” nella sua prossima azione di governo, mi sembra non senza difficoltà la decisione di assegnare alla sua ex rivale democratica nella corsa alla designazione l’incarico di segretario di stato, non fosse altro perché tale nomina può sollevare non pochi problemi e configurare un eventuale conflitto di interesse per i rapporti che ancora esistono fra la fondazione dell’ex presidente Clinton le multinazionali e diversi paesi stranieri. Certo, se non proprio l’incarico di segretario di stato, qualche importante ruolo di responsabilità toccherà a quella che negli USA è definita” la seconda anima del partito democratico”, che ha conteso lungamente al neo presidente la vera identità democratica, non fosse altro perché Obama vuole incarnare una nuova leadership, il sogno di una politica capace di superare qualsiasi divisione ideologica, comprese le rivalità interne di partito. E’ noto che i sostenitori democratici di Hillary non sono gli stessi che hanno creduto alle proposte del neopresidente sia per ragioni socio-culturali che per una questione generazionale. Giustamente i politologi americani hanno sottolineato che la base elettorale dell’ex first-lady, i cosiddetti “baby boomers”, nati tra il 1946 e il 1964, non è propriamente la stessa di Obama, formata dai cosiddetti “millenials”, una generazione di elettori, nati a partire dagli anni Settanta e formata per la metà da afro-americani, latini e asiatici, che non ha conosciuto le forti divisioni politiche del passato, le contese per la guerra del Vietnam, né l’aspra battaglia degli studenti e delle minoranze per i diritti civili dell’era Kennedy.
A molte di queste battaglie degli anni sessanta, che hanno contribuito a fare la grande storia dell’America, ha assistito Anna Nixon Cooper, l’ultracentenaria ricordata nel suo discorso da Obama, che ha avuto la fortuna di vivere negli anni insieme eroici e tragici che vanno dalla uccisione di Martin Luther King all’approvazione del Civil rights act che, col sancire l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini americani, ha posto fine alla vergogna della segregazione razziale. Se confrontiamo gli anni sessanta dell’era Kennedy con l’attuale tempo dell’amministrazione di Obama possiamo riscontrare molte analogie, come testimonia il cosiddetto discorso della “nuova frontiera” pronunziato da John Fitzgerald Kennedy in occasione della sua nomination democratica: “Ci troviamo oggi alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni sessanta. Non è una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce”. In politica estera la sfida da affrontare era quella della pace e delle tensioni internazionali dovute al clima della guerra fredda che, dividendo a metà il mondo in due blocchi, facevano pensare ad un imminente e più distruttivo conflitto mondiale. Sul fronte interno il problema più urgente era quella della “guerra alla povertà” che minacciava i ceti più disagiati e discriminati della società americana di quegli anni. Se analizziamo il discorso di Kennedy confrontandolo con quello di Barack Obama vi riconosciamo una certa somiglianza, in quanto nell’uno e nell’altro sembra che si rifletta lo stato d’animo dei due, caratterizzato dal timore per le sfide presenti che si dovranno affrontare, ma anche dalla speranza in un futuro migliore, fondata sulla fiducia nelle proprie forze.
5 - Se puntiamo l’attenzione sulle attuali sfide esterne che incombono sull’America, la minaccia globale del terrorismo e le guerre combattute contro gli estremisti del mondo islamico, siamo colpiti da una parte dalla dichiarazione di Obama di voler continuare con determinazione la lotta contro il terrorismo fino alla cattura di Bin Laden, dall’altra dalla sua volontà di chiudere la prigione di Guantanamo, gestita dalla CIA, resasi responsabile di trattamenti inumani nei riguardi dei prigionieri. Quanto alle due guerre in atto nel medio oriente, il presidente neoeletto ha dichiarato che farà di tutto per ritirare le forze americane dall’Iraq entro il2011, mentre intende tenere in piedi quella dell’Afghanistan, utilizzando comunque una diversa strategia: più truppe da affidare al comando di David Petraeus, il generale che ha fatto miracoli in Iraq, dialogo con i talebani più moderati e i capitribù, una politica più decisa verso il Pakistan. Da queste indiscrezioni possiamo farci un’idea di quello che sarà l’ Obama style in politica estera, che pur senza rinunciare alla facoltà di decisione e ai suoi poteri eccezionali di presidente, appare tuttavia caratterizzata da una tendenza diversa dall’unilateralismo che ha segnato negativamente l’amministrazione Bush. Una tendenza più moderata e caratterizzata dal multilateralismo si profila anche nei nuovi rapporti che il neo-presidente intende instaurare con la Russia o ricomporre con gli alleati europei. Tutti sanno che una delle questioni che ha contribuito a guastare i rapporti dell’era Bush con la Russia è stata la decisione di installare in Polonia, proprio ai confini con i sovietici, il cosiddetto “scudo spaziale”, rivolto contro l’Iran secondo gli americani, orientato contro Mosca secondo Putin e compagni. Questa contesa, aggravata dai rapporti conflittuali della Russia contro lUcraina e la Georgia, ha creato di recente un ritorno simile al vecchio clima di “escalation della tensione”, in quanto Mosca, dichiarandosi vittima di una “strategia d’assedio”, ha minacciato come ritorsione, di schierare missili Iskander a Kaliningrad nell’enclave russa fra la Polonia e la Lituania. Nella questione Obama ha assunto giustamente, secondo noi, un cauto indirizzo dichiarando che qualsiasi decisione di installare i missili in Polonia sarà vincolata alla disposizione di accertare con una indagine conoscitiva di esperti l’utilità strategica dello scudo missilistico, rimandando in modo definitivo la questione al primo incontro ufficiale che egli terrà con i rappresentanti del Cremlino dopo il suo insediamento. Quanto ai rapporti con i partner europei, per chiudere il capitolo delle controversie che hanno caratterizzato le relazioni transatlantiche durante l’era Bush, riconfermando l’Alleanza Atlantica, pare che egli intenda arrivare ad un tacito consenso “bipartisan” su due questioni molto importanti: quella del riscaldamento globale, da condividere in modo più deciso anche da parte americana, e l’uso degli aiuti militari che egli si augura siano incrementati da parte europea per sollevare gli americani dal peso eccessivo sostenuto nelle guerre dello scacchiere mediorientale. C’è poi la questione dei rapporti con lo stato del Vaticano, che prima di essere un problema di politica estera ha soprattutto fondamentale importanza in quanto si ripercuote all’interno coinvolgendo i rapporti con i cattolici americani non sempre d’accordo intorno alla decisione del governo americano su alcune questioni molto scottanti come la liberalizzazione dell’aborto e la ricerca sulle cellule staminali. Con la sua telefonata di ringraziamento a papa Ratzinger Barack Obama ha aperto formalmente i rapporti fra il suo prossimo governo e la Santa Sede, proprio mentre le gerarchie cattoliche statunitensi ribadivano la loro posizione contraria alla ricerca sulle cellule embrionali e all’interruzione delle nascite. I vescovi americani hanno dichiarato, per bocca del loro portavoce Arroyo, di essere pronti a lavorare col nuovo presidente in nome degli ideali cristiani della pace, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, ma di non essere aperti ad alcun compromesso con Obama dichiaratamente favorevole alla pena di morte, ai “dico” e contrario ad ogni limitazione dell’aborto.
6 - Se la difficoltà delle relazioni con le irriducibili gerarchie cattoliche statunitensi, per unanime parere dei commentatori politici, si profila come uno dei più gravi problemi che la nuova amministrazione si troverà ad affrontare, tale questione certamente arretra di fronte a quella che è stata qualificata dallo stesso Barack Obama come “la peggior crisi finanziaria dell’ultimo secolo” che, come una frana inarrestabile ha travolto il sistema economico americano trascinando nella sua caduta tutte le economie del mondo globalizzato. Neppure la grande novità dell’elezione di Obama ha contribuito a frenare la corsa al ribasso di Wall Street che ha annotato nello Stock Exchange del mercoledì successivo una raffica di brutte notizie che riguardano la produzione e il mercato del lavoro: il crollo del settore delle costruzioni, la frenata dell’industria manifatturiera, il peggioramento inarrestabile del settore dell’auto, una contrazione inaspettata nel settore dei servizi, una forte impennata della disoccupazione. Questi dati così preoccupanti, contribuendo a spingere più in basso l’indice Dow Jones, confermano che gli Usa stanno precipitando in una profonda recessione che per la sua gravità è stata avvicinata agli anni del primo insediamento di Roosvelt, il quale con la politica “interventista” del suo New Deal riuscì ad ottenere il risultato di far risalire abbastanza rapidamente il listino, anche se i dati della disoccupazione continuarono ad essere al ribasso per alcuni anni.
Di fronte alle difficoltà dell‘attuale sistema economico e finanziario americano, alla sua gravissima crisi, che per l’unanime considerazione degli esperti è di natura non congiunturale ma strutturale, le aspettative di una soluzione non possono essere di breve corso. Anche Obama, per quanto ottimista, condividendo il parere degli economisti è convinto che nulla di decisivo potrà verificarsi in tempi ridotti, qualsiasi decisione vorrà adottare il nuovo corso governativo, ci vorranno anni prima che la cura produca effetti positivi nell’economia reale. Ma vediamo quali sono le ricette che il nuovo presidente intende adottare per aver ragione della crisi. Fra i primi provvedimenti che Obama pensa di adottare per evitare che la crisi finanziaria evolva in una vera e propria depressione ci potrebbero essere misure straordinarie di sostegno economico a favore delle famiglie e delle imprese, da conseguire con una forte riduzione del gettito fiscale (il cosiddetto relief di Roosvelt). Sono queste, secondo il parere del nuovo presidente, le misure pregiudiziali per far ripartire l’economia americana.
A questi provvedimenti iniziali ne dovranno seguire altri che siano di stimolo alla ripresa (recovery), caratterizzati da un forte intervento dello stato con un’ampia progettazione di lavori pubblici (soprattutto per la produzione di energie alternative del petrolio) in grado di produrre una notevole quantità di posti di lavoro. Una tale politica economica, senza negare il libero scambio e la necessità del profitto individuale, appare dettata innanzitutto da una scelta di tipo keynesiano, quando individua nello stato il miglior sostegno dell’imprenditoria nel momento della crisi. Questo spiega la volontà di salvare con una forte iniezione di denaro pubblico le grandi imprese americane dell’automobile, quali General Motors, Chrysler e Ford, già favorite dalla defiscalizzazione che, oltre le imprese, riguarderà anche una parte consistente del ceto medio. Quest’ultima soluzione è pensata innanzitutto quale volano per incrementare i consumi e la circolazione monetaria.
C’è da dire che uno dei punti critici che riguardano l’attuale situazione americana è da individuare nella difficoltà di tener fede al proprio statuto costituzionale democratico, che impone di fornire a tutti i cittadini possibilità di benessere e di progresso da conseguire con l’estensione dell’ istruzione e l’allargamento delle possibilità di lavoro. Il sistema economico del capitalismo moderno americano, che si è esteso fino ad identificarsi con i confini del mondo, pur avendo prodotto una grande quantità di ricchezza, ha creato anche profonde disuguaglianze non solo nei paesi nei i quali quel modello è stato esportato, ma anche con un violento effetto boomerang negli stessi Usa, dove il capitalismo globalizzante ha toccato ai giorni nostri la sua deriva fino all’implosione del sistema. Gli esperti sono andati alla ricerca delle cause individuando nella metà degli anni ’80 l’inizio di un progressivo allentamento delle regole interne (deregulation) del capitalismo fino al collasso delle leggi del mercato. Questo fenomeno ha assunto aspetti macroscopici soprattutto nel territorio americano, la cui crisi economica corrisponde ad un particolare modello sociale che negli ultimi tempi ha visto il trionfo di una nuova ideologia, quella che pretendeva un eccesso di beni di consumo fondati prevalentemente sul debito. Secondo i cosiddetti “apocalittici”, qui si riconoscono i precedenti dei fatti della storia più recente che in successione sono indicati dallo scandalo dei mutui subprime, dal collasso del credito, delle banche e delle Borse. Non è pensabile che un sistema che ha scelto di funzionare senza regole, recuperandole, possa trovare all’interno di sé quelle norme etiche in grado di arginare la frana in corso. Ben venga a questo punto la superiore autorità dello stato a imporre dall’alto quelle leggi che quel sistema economico non è in grado di darsi da solo, sostituendolo o integrandolo con una rete di provvedimenti economici e sociali (la cosiddetta safety net) in grado di garantire la sicurezza dei più deboli con l’intervento di coperture assicurative compartecipate in grado di assicurare non solo il diritto alla vita ma anche quello all’istruzione e alla salute attualmente negato al 15% della popolazione americana. E’ questa, quella degli interventi sociali, la terza erre del programma di Barack Obama (reform) sulla cui realizzazione si gioca la fortuna o l’insuccesso dell’azione riformista del suo governo, il suo New new Deal.
2 gennaio 2009
in attualità/discussione: |
|
dello stesso autore: |
|