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Considerazioni a margine della Sapienza
Antonio Limonciello
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10 novembre 2008
Tornando a casa dopo la mattinata a “La Sapienza” di Roma mi sono ritrovato a tracciare paralleli e marcare differenze tra quanto da esterno ho visto e quanto ricordo delle mie esperienze giovanili.
Li ho visti più gioiosi di noi del 68, e questo senza confondere il movimento del 68 con quello del 76-77 (quest'ultimo fu il seppellimento definitivo del primo). Pasolini, che i giovani li conosceva non per lettura o televisione ma per assidua frequentazione, scriveva che la generazione del 68 era cupa, sembrava malata. In effetti ci sentivamo tragici ed epici, sì, ci caricavamo il destino del mondo sulle spalle, sentivamo l'urgenza del distruggere per edificare ex novo, dunque non c'era tempo per sottigliezze e quisquiglie come la didattica (la scuola era solo da distruggere) o lo studio, la comprensione e le proposte alternative alle leggi (lo stato si abbatte e non si cambia). Questo ci portava ad interminabili discussioni di teoria politica per definire la più efficace e risolutiva delle strategie per abbattere lo stato ed edificarne un altro. Quasi tutti eravamo d'accordo sul fine che giustifica i mezzi, dunque la necessità della violenza per raggiungere il sommo obiettivo. Non ci interrogavamo mai sull'io, proiettati come eravamo verso un noi indispensabile e in cui "dovevamo" trovare il modo per stare insieme. Naturalmente generavamo per partenogenesi gruppuscoli che appena nati si suddividevano in altri ancora, e così in un moto continuo fino alla nascita del terrorismo che mise in faccia a tutti la pratica di tante affermazioni espresse prima solo a parole.
Potremmo oggi dire che noi parlammo, scrivemmo, manifestammo, un po' dopo ci sprangammo, ancora più in là alcuni si bucarono, alcuni spararono, altri tornarono a casa, altri ancora scelsero pratiche più conciliabili con la vita di piccoli borghesi che si andava a realizzare. Oggettivamente piccoli borghesi, ma soggettivamente ci definivamo proletari, come gli operai. Gli operai da parte loro non hanno mai creduto a queste autodefinizioni, essi sapevano ben vedere e misurare le differenze e dunque il vuoto di alcune nostre affermazioni.
E l'Onda? L'Onda, come molti movimenti, parte per contrastare un atto del governo, poi piano piano prendono corpo analisi e conclusioni più radicali e globali di quelle di partenza. Le loro sembrano analisi apocalittiche e i media diffondono le visioni governative tipo: non conoscono la proposta del governo, i giovani sono strumentalizzati, eccetera, eccetera. Balle televisive allo scopo di creare un'immagine negativa e accerchiare il movimento nascente. Cattiva informazione con tutti i media che hanno? La verità è che temono il movimento. Intanto con gli universitari hanno fatto una piccola marcia indietro.
Lo temono per vari e fondati motivi.
Il primo, rispetto alla legge: il movimento, come il governo, e credo anche le opposizioni, non ama questa università (dunque solo costruzione di cattiva immagine quella che dice che questi sono strumentalizzati e/o difendono i baroni), ma la soluzione che propone il governo procede in direzione diametralmente opposta a quella che vorrebbero gli studenti. Gli studenti vogliono abbattere questa università per un vero libero accesso al sapere e ai suoi database. Gli studenti vogliono vere pari opportunità.
Cosa risponde il governo? Che oltre ai controlli e ai poteri già esistenti essi dovranno sottostare anche al potere del mercato, quindi gli studi saranno aiutati nella misura in cui i soggetti del mercato trovano in essi interessi da ricavarne. Gli studenti non hanno capito? Hanno capito benissimo.
Il secondo: la loro pratica di lotta è dirompente, non tanto quando manifestano per strada e occupano le facoltà, ma proprio quando si mettono a regalare il loro sapere.
Essi da una parte dimostrano come l'università può essere a disposizione del territorio e dei suoi bisogni, dall'altra tagliano fuori i meccanismi che regolano la ricchezza prodotta. Infine creano alleanze con le lotte della scuola elementare e lanciano un ponte a tutto il sistema scolastico. Insomma i poteri, a cominciare da Confindustria e le sue potenti lobby, sbraitano a ragione. Questi giovani, mogi mogi, lemme lemme, esercitano pratiche sovversive.
Non c'è mediazione possibile. Il problema non è ritirare un decreto, questi mettono sul piatto questioni ben più radicali.
Il terzo: questi giovani producono un sapere che le istituzioni preposte non sanno dare, o forse non vogliono dare. Mi riferisco alla capacità di organizzarsi, decidere collettivamente ed orizzontalmente, gestire situazioni complesse come assemblee, coordinamenti, collettivi, gestire spazi, laboratori, seminari e non ultime queste esperienze didattiche rivolte a segmenti scolastici diversi. Si può dire che a loro modo mettono in pratica esperienze riferibili al cooperative learning, e non mi pare che in Italia si usi molto una pratica di apprendimento del genere, né nelle scuole, tanto meno nelle università.
Fuori si dice che essi occupano perché non vogliono studiare, gli studiosi se ne stanno a casa a svolgere quello che è il loro ruolo, prepararsi bene per il loro futuro e per il futuro del paese, in realtà non si vuole permettere alle persone di creare produzione di pensiero non controllabile e non gestibile dal sistema.
Il quarto: costituiscono un pericolo per le gerarchie date e per il sapere come Potere. Prepararsi bene per che cosa? Per il mondo che gli adulti hanno confezionato? Il bel mondo del paese Italia? Questi giovani sanno già chi diventerà avvocato, chi dentista, chi giornalista, e a chi toccherà lottare per l'osso spolpato. Dunque essi non hanno neanche il sogno americano, queste cose funzionano lì, da noi diventano barzellette per il Presidente del consiglio.
Il sapere che loro elaborano non è disciplinabile nel sistema dato, e dunque non può da questo essere riconosciuto come tale.
I professori professoroni diranno che c'è un sapere che non può essere ignorato. E certo che non può essere ignorato, ma dove sta scritto che lo devono trasmettere solo nel modo codificato dal sistema? Perché non sono lì a lavorare con questi studenti? Perché non si mettono in discussione e costruiscono insieme una piattaforma alternativa forte? La storia che chi occupa lo fa per prendere lauree svalutate è una balla di chi se ne sta a casa a fare i fattucci propri, lo era nel 68 e lo è adesso. E' una balla di chi studia per realizzare un sapere come potere personale da spendere sul mercato.
Dunque è qui il nocciolo del problema: Il sapere come potere. Se l'accesso è davvero per tutti che valore avrà? E per questi egoismi che non si creano le condizioni per un salto di qualità dell'Italia.
Nel mondo che stiamo vivendo la conoscenza è il bene primario, la qualità della vita di un paese, la sua capacità di interagire con i processi dipende dal livello culturale complessivo, e questo non si definisce come una semplice media, no, la capacità di cambiamento di un sistema complesso dipende dalla velocità del livello bottom, non certo dei pochi eletti, che possono pure prendere il nobel ma il paese non saprebbe cosa farsene. Bisogna elevare il piede del sistema, non solo e non tanto il vertice. E' soprattutto il piede che in Italia rimane inadeguato. Questo vuol dire che senza risolvere il nodo della scuola l'Italia va da una sola parte: verso il basso.
A dire il vero i ricercatori con gli studenti c'erano, c'era anche qualche professore, una estrema minoranza. E questo perché durante le occupazioni gli altri, i ben inseriti, da una parte colgono l'opportunità di seguire con maggiore profitto le altre molteplici attività che hanno, dall'altra non possono rinunciare al potere dato dal loro sapere. Insomma a loro sta bene quel sistema che ha consentito loro di arrivare in alto. E non molleranno.
Rimane il che fare della scuola, dove tra l'altro il cosiddetto processo di riforma ha ottenuto il voto del parlamento. Perché la scuola non è capace di individuare il ruolo che riveste nel sistema e creare pratiche alternative di lotta? Perché non si adottano didattiche alternative, contenuti alternativi praticando fino in fondo la libertà di insegnamento riconosciuta dalla nostra costituzione? Come mai pratiche come il cooperative learning, il no copyright, il libero accesso alla cultura e alla formazione non sono praticate come forme di lotta?
Dunque non scioperi costosi e che trovano una totale insensibilità da parte del governo, o per lo meno non solo scioperi, ma tutti a scuola a lavorare sodo per praticare un'altra scuola. Per ritrovare il piacere di creare, di essere protagonisti, per spezzare la catena quotidiana dei vincoli, a partire dai quadri orari per arrivare ai programmi da svolgere, le aule, il setting dell'apprendimento.
Insomma cominciare a spostare il punto di vista.
10 novembre 2008
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