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I limiti dell'ipertesto illimitato
Alessandro Perissinotto
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Questo lavoro rielabora ed amplia notevolmente una riflessione sul possibile fallimento cognitivo dell'ipertesto da me presentata al XXVIII Convegno dell'Associazione Italiana di Studi Semiotici (Castiglioncello, 6-8 ottobre 2000) ed inseguito pubblicata in P. Bertetti e G. Manetti, Forme della testualità, Testo & Immagine, Torino 2001. ,
Un fallimento cognitivo?
Il recente proliferare dei portali Web ci induce a chiederci se forse non ci troviamo di fronte al fallimento, sotto il profilo cognitivo, delle strategie ipertestuali, almeno di quelle che potremmo definire "classiche". Certo, non possiamo dimenticare che l'attenzione per questi portali è determinata in parte da ragioni commerciali ed economiche e che presto il loro numero sarà costretto necessariamente a ridursi; tuttavia non possiamo neppure ignorare che gli interessi commerciali intorno ai portali sono mossi da un'indubbia funzionalità di questi oggetti testuali e che in virtù di essi il Web sembra essere molto cambiato. L'impressione è che, col passare del tempo e con l'accrescersi esponenziale dei materiali in Rete, la struttura del Web diventi sempre meno reticolare e sempre più ordinata in maniera gerarchica e categoriale; in altre parole, sembra che la tassonomia abbia prevalso sull'associazione, più o meno libera, tra testi.
Nel Web degli esordi, e ancora in quello dei primi anni Novanta, la componente ipertestuale e intertestuale era basilare e prevalente; la navigazione avveniva soprattutto grazie ai collegamenti che l'autore di ogni pagina Web stabiliva con altre pagine, in un gioco praticamente infinito di rimandi intertestuali, di letture e di scritture trasversali. Ogni sito era un frammento nella Rete e del frammento conservava le caratteristiche più salienti, cioè il fatto di essere un elemento a se stante e nel contempo di essere riconoscibile come parte di un tutto, un blocco concettuale che finiva là dove iniziava un altro blocco concettuale e che nel raggiungere i confini della propria trattazione denunciava la presenza di altre trattazioni, proprio come ogni pezzo di un puzzle, con la forma dei suoi bordi, richiama la presenza di un altro pezzo.
Il Web di oggi non è più così, anche se la sterminata estensione del Web stesso rende impossibile dire cosa e come esso sia nel suo complesso. Navigando, o forse esplorando, la Rete si ha l'impressione che i siti siano sempre più delle isole, degli elementi autosufficienti e programmaticamente separati dagli altri: ad essi non si accede più in maniera orizzontale, trasversale perché essi stessi, con la loro povertà di links esterni, non offrono più questa possibilità; l'accesso è eminentemente verticale e mediato dal portale.
Ammettendo allora che questa impressione derivi da un reale mutamento, possiamo attribuire la trasformazione a due distinte ragioni. La prima è, ancora una volta, di ordine economico. Se infatti nel Web dei pionieri chi disponeva materiale in Rete era mosso prevalentemente dal desiderio di condividere e comunicare conoscenza, esattamente come i teorici dell'ipertesto da Bush a Nelson, nell'epoca dell'utilizzo commerciale della Rete, gli autori si trasformano spesso in inserzionisti e i siti diventano spazi di promozione e di vendita; ecco allora che il link trasversale, quello che riunisce ambiti tematicamente affini, rischia di trasformarsi in un improponibile collegamento con la concorrenza. Risultato: pochi, pochissimi links esterni e soprattutto collegamenti non pericolosi, cioè quasi inutili; e se certo non possiamo dire che tutti i siti siano commerciali, neppure possiamo escludere che tali siti, tra i più belli per grafica e soluzioni multimediali, abbiano una forte influenza sui modelli mentali di chi progetta siti anche dai contenuti completamente diversi.
Più rilevante è invece la seconda possibile ragione di trasformazione, quella connessa ai processi cognitivi. Andiamo per un attimo con la memoria ai primi ipertesti, sia on-line che off-line, andiamo ad esempio all'ormai classico Afternoon di Michael Joyce, ma anche a tanti ipertesti argomentativi. In quei primi prodotti di ipertestualità elettronica, così come nei software che permettevano di generarli, prevaleva nettamente l'attenzione per le hotword testuali rispetto a quella per le hotword procedurali. Definiamo testuali le hotword ricavate all'interno del testo stesso e costituite da parole, frasi, interi periodi, o immagini, là dove il testo sia dotato anche di una significativa componente iconica. Diciamo invece procedurali le hotwords ricavate al di fuori del testo con lo scopo di permettere operazioni su di esso, hotword che si presentano sotto forma di "pulsanti", di "menu" e di altri dispositivi tipici degli interfaccia grafici. La differenza non è solo nella posizione, ma soprattutto nel diverso procedimento logico che è sotteso all'uso delle une e delle altre(1) . Quando clicchiamo su un pulsante che reca l'indicazione "avanti" noi siamo certi che l'azione che ne seguirà sarà il passaggio alla pagina successiva, siamo certi perché abbiamo attuato quella procedura mille volte e per mille volte essa ha dato lo stesso risultato e ne deduciamo che essa darà ancora lo stesso risultato ogni volta; la scritta "avanti" posta sul pulsante non si configura quindi come un testo da interpretare, ma come un semplice segnale da decodificare. Al contrario, quando in un ipertesto ci troviamo di fronte ad una frase che funge da parola attiva, come ad esempio la proposizione "Lavate sotto acqua corrente 350 grammi di fagiolini verdi", noi dobbiamo fare un deciso sforzo interpretativo per immaginare che tipo di caratteristiche avrà la pagina alla quale giungeremo cliccando su quelle parole: potrà essere un'altra ricetta a base di fagiolini, potrà essere un manuale su come lavare efficacemente la verdura, potrà essere persino un link con il testo del famoso saggio di Greimas sulla soupe au pistou dal quale ho preso questa frase. Qui dunque interpretiamo e interpretiamo doppiamente: una prima volta per comprendere il senso del testo e una seconda volta per comprendere il possibile senso del link, la ragione e il risultato di quel collegamento ipertestuale. Qui dunque non c'è più semplice deduzione, perché le hotwords testuali non si ripetono né nella forma, né nella funzione; qui vi è abduzione.
Vediamo la questione con gli occhi di Peirce:
2.267 Una Deduzione è un argomento il cui Interpretante lo rappresenta come appartenente a una classe generale di argomenti possibili precisamente analoghi fra loro, tali che nell'esperienza, a lungo andare, la maggior parte di quelli le cui premesse sono vere avranno conclusioni vere.(2)
2.270. Un'Abduzione è un metodo per formulare una predizione generale senza alcuna assicurazione positiva che essa risulterà valida né in un determinato caso né solitamente. La sua giustificazione è che essa è l'unica possibile speranza di regolare razionalmente la nostra condotta futura, e che l'Induzione tratta dall'esperienza passata ci incoraggia fortemente a sperare che essa avrà successo nel futuro.(3)
E siamo così giunti, attraverso un cammino un po' tortuoso, a delineare la seconda possibile causa di una trasformazione del Web da reticolare a tassonomico: la debolezza predittiva del meccanismo abduttivo. Dicendolo con una semplificazione forse eccessiva, navigare attraverso le hotword testuali può rivelarsi troppo dispendioso sotto il profilo dell'energia psichica e troppo dispersivo in relazione alle necessità di una ricerca mirata. La trasformazione che forse è attualmente in atto nel Web potrebbe corrispondere ad una sorta di malattia della crescita: l'organizzazione di tipo ipertestuale non sarebbe in grado di garantire la navigabilità rapida attraverso una massa tanto sterminata di materiali e i portali verrebbero dunque in soccorso proponendo un modello organizzativo completamente diverso, un modello di navigazione che invece di procedere di testo in testo e di sapere in sapere, prevede continue incursioni in saperi specifici, seguite da ritorni obbligati a luoghi, i portali stessi, non già di sapere, ma di metasapere. All'incerto processo abduttivo dell'ipertesto, i portali sostituiscono la potenza della deduzione, la sicurezza, assoluta o relativa, che da una certa premessa, come il click su di una determinata categoria, discenderanno sempre le stesse conclusioni, cioè la presentazioni di pagine caratterizzate da un preciso tema.
Siamo dunque costretti a rivedere alcune delle convinzioni che negli ultimi dieci-quindici anni abbiamo avuto a proposito dell'ipertesto; siamo cioè nelle condizioni di domandarci se davvero, come sostengono i connessionisti, la rete, e quindi l'ipertesto in quanto testo reticolare, costituiscano la migliore rappresentazione della conoscenza; se davvero l'ipotesi di un'intelligenza collettiva avanzata da Pierre Lévy pensando soprattutto al Web sia praticabile. Se il nuovo modello reticolare collassa sotto il peso eccessivo dei testi in Internet esso è davvero così potente da servire come chiave interpretativa per la conoscenza nel suo complesso? O forse la vecchia organizzazione gerarchica, categoriale e, in qualche misura, lineare del sapere è ancora la più funzionale?
Certo, mi rendo conto che, in questo modo, si rischia di confondere tra loro due campi distinti, quello della rappresentazione della conoscenza e quello della sua ricerca e fruizione; ma il fatto che nella ricerca e nella fruizione noi troviamo più pratico ed efficace un certo modello organizzativo non significa forse che quel modello corrisponde meglio alla rappresentazione che noi facciamo dell'oggetto cercato?
Questi interrogativi ci impongono una seria riflessione sul nostro modo di utilizzare l'ipertesto in didattica: probabilmente il fallimento dell'ipertesto non è così netto come si è provocatoriamente ipotizzato qui sopra, ma sicuramente non possiamo più dare per scontata una sua efficacia a tutto campo, non possiamo più rifarci ad esso come paradigma assoluto delle nuove metodologie di formazione.
Sulla necessità di rappresentare il sapere
Com'erano gli ipertesti quando nasceva il nostro entusiasmo per le loro capacità esplicative ed interpretative? Erano sì delle reti concettuali, ma reti locali tematicamente e fisicamente separate da altre reti. Gli ipertesti dei primi anni Novanta erano memorizzati su dischetti o, nei casi più avanzati, su Cd-Rom; il Web praticamente non esisteva ancora e la separazione di un ipertesto da tutti gli altri era una necessità, un limite tecnico che vivevamo come una costrizione: sognavamo ipertesti sempre più estesi, globali, ma intanto facevamo teoria su ipertesti locali, ben delimitabili, "com?prensibili" cioè abbracciabili interamente in un solo sguardo. Le tracce di questa discrasia tra desideri di globalità e rassicurante finitezza si trovano in molte delle più consolidate teorie e consuetudini riguardanti gli ipertesti, come ad esempio quella che impone di dotare l'ipertesto di una mappa. L'ipertesto ben concepito - dicevamo un tempo e diciamo ancor oggi - deve mettere a disposizione del suo utente una mappa che gli consenta di localizzare, in ogni momento, la propria posizione all'interno del reticolo di links e nodi: l'utente deve poter navigare senza smarrirsi, esplorare l'ignoto senza mai perdere la capacità di dire "io sono qui". Ma una mappa funziona in uno spazio limitato, le coordinate hanno un senso se riferite ad un sistema finito, ma in un ipertesto illimitato il concetto di localizzazione assoluta, di "qui", perde di significato. Si obietterà che il Web non è infinito, e, matematicamente parlando, non lo è, ma, stando alle stime degli studiosi del deep Web, il numero di documenti disponibili in Rete e potenzialmente collegabili tra loro si aggira intorno ai 550 miliardi: in relazione alle possibilità cognitive dell'individuo sarebbe da considerarsi praticamente pari ad infinito anche un numero decisamente minore di pagine da navigare.
La rete globale ci priva dunque della mappa, di un dispositivo che già consideravamo vitale nella rete locale e che a maggior ragione ci servirebbe quando, come nel Web, la navigazione si fa più complessa. Ma la mappa non è solo uno strumento di navigazione, di orientamento spicciolo attraverso i nodi dell'ipertesto, è anche un mezzo per inquadrare un sapere o, in un ipertesto che tende alla globalità, "il" sapere.
In quanto strumento di navigazione il suo ruolo è quello di prevenire il disorientamento cognitivo che si determina quando l'utente perde di vista il legame che unisce il suo progetto conoscitivo alle zone di informazione che egli sta leggendo. Il disorientamento può nascere da una relativa mancanza di coerenza interna della rete ipertestuale, oppure da uno scarso grado di pertinenza dei contenuti testuali rispetto alle necessità del lettore o ancora, più semplicemente, dai limiti della memoria a breve termine, la quale è spesso insufficiente a contenere la traccia dei legami concettuali che ci hanno condotto a un certo punto della navigazione.
In quanto quadro concettuale la mappa ci permette invece di collegare un sapere locale, quello della pagina che stiamo visualizzando, con un sapere di livello più generale: la mappa dà struttura all'informazione programmaticamente destrutturata dell'ipertesto. Ogni testo ha bisogno di una mappa, anche il libro cartaceo, il quale la identifica nel sommario; ma se nel libro la mappa/sommario non fa che "fotografare" una struttura lineare precostituita e immutabile, le mappe interattive degli ipertesti devono rendere conto, con il loro continuo ricostruirsi, delle mutevoli strutture che l'utente, con la sua navigazione, dà al sapere destrutturato.
È dunque l'opposizione "strutturato" vs. "destrutturato" a condurre questa seconda parte della nostra riflessione sui limiti dell'ipertesto. Un sapere preventivamente strutturato (come quello dei libri) rischia di diventare autoritario, dispotico, di non tenere conto della molteplicità degli approcci alla conoscenza, ma un sapere destrutturato (come quello dell'ipertesto) non diventa conoscenza se non costituendosi come struttura individualmente determinata in seguito all'interazione tra l'utente e il testo: una struttura in forma di mappa (fisica o anche puramente mentale).
E torniamo per un attimo a prendere in considerazione l'elemento con il quale avevamo aperto questo lavoro: il successo dei portali. Si è detto prima che la funzionalità dei portali e di conseguenza il fallimento dell'organizzazione ipertestuale del Web dipende, in buona misura, dal maggior potere predittivo delle hotword disposte in un quadro tassonomico a sviluppo verticale (tipico appunto delle Web directory e dei portali), rispetto a quello delle hotword testuali che agiscono in maniera trasversale. Questo non è che un aspetto: le considerazioni sulle mappe fatte qui sopra permettono di segnare un ulteriore punto a favore dell'organizzazione ad albero e a sfavore di quella reticolare: navigando nel Web, la nostra capacità di strutturare il sapere "sparso" che andiamo raccogliendo qua e là può essere compromessa dal sovraccarico cognitivo o dalla sovrabbondanza di materiale disponibile, dall'illimitatezza dell'ipertesto totale, e nessuna mappa viene in nostro aiuto, perché dell'infinito non c'è cartografia. Privato così della possibilità di costruire quadri concettuali di riferimento a partire da ogni singola esperienza di navigazione, l'utente rinuncia ad una fruizione testuale di tipo esplorativo, tipica dell'ipertesto, e si affida all'organizzazione sistematica dei portali, che il quadro di riferimento non chiedono di costruirlo, ma lo danno a priori. Nell'impossibilità cognitiva di strutturare autonomamente il sapere destrutturato ci si orienta verso i luoghi dove il sapere, di nuovo in maniera autoritaria, viene fornito già strutturato. Pensiamo ai risultati di una ricerca condotta su base testuale da un motore di ricerca, essi sono quanto di più destrutturato si possa pensare: nessun legame concettuale unisce e organizza i siti così reperiti e offerti alla fruizione dell'utente, essi stanno insieme solo sulla base della ricorrenza dei termini introdotti come chiave della ricerca e il loro stare insieme è dotato di coerenza e coesione solo nella misura in cui la chiave stessa è univocamente interpretabile. Al contrario, i siti presentati sotto ciascuna delle molte voci di un indice categoriale costituiscono sicuramente (almeno in linea di principio) un insieme coerente, e quindi strutturato, sotto il profilo contenutistico: l'indice o il portale funzionano così da mappa del sapere in Rete, una mappa limitata (e proprio in questo risiede la sua forza) e precostituita, molto più simile al sommario di un libro che alla rappresentazione grafica di un ipertesto, ma pur sempre una mappa.
Ancora una volta dimensione sterminata del Web, la sua infinita ricchezza a rendere impraticabile la via ipertestuale alla gestione della conoscenza.
Reti locali e rete globale
Con questa seconda riprova dovremmo concludere che davvero l'ipertesto non è quel formidabile sistema di apprendimento che tutti credevamo, ma a questo punto si impone qualche cautela e qualche riguardo nel cancellare con poche battute quello che si è costruito in tanto tempo.
In realtà, le considerazioni fatte in questa sede, non intaccano il valore delle strategie ipertestuali in sé, ma invitano a riconsiderare la loro portata. Se, da un lato, l'ipertesto si dimostra straordinariamente efficace nel rappresentare e trasmettere conoscenze in ambiti estesi ma circoscritti, esso si rivela fondamentalmente inadeguato nel momento in cui si propone come supporto di una conoscenza globale. Di fronte a questo compito grandioso e straordinario il movimento che procede dall'acquisizione di un sapere diffuso e destrutturato alla sua successiva strutturazione entro quadri di riferimento sembra enormemente più dispendioso, in termini cognitivi, del procedimento opposto, quello che attraverso una struttura (la tassonomia dell'arbor scientiae) permette di accedere a singole porzioni del sapere. Usando la metafora della rete, potremmo dire che l'ipertestualità permette di realizzare ottime reti locali, ma che una rete globale organizzata su base ipertestuale è, cognitivamente, una pessima rete, o meglio, una rete non fruibile(4) . Non è un caso che molti siti si interfaccino con l'utente attraverso sistemi di mappe concettuali interattive o attraverso knowledge manager come "The brain" (www.thebrain.com): per la dimensione locale del singolo sito o dell'insieme di siti riuniti in un unico prodotto ipertestuale (ad esempio un corso on-line) questi strumenti (5) sono particolarmente efficaci, ma non sembra neppure concepibile un sistema di mappatura dell'intero Web.
L'approccio connessionista diventa così complementare e non contrapposto agli approcci che organizzano gerarchicamente le categorie della conoscenza. Dizionario ed Enciclopedia, come ha notato Umberto Eco nel corso di una tavola rotonda in cui avevo avanzato questa idea del fallimento cognitivo dell'ipertesto di fronte al Web, si collocano in tempi e in livelli diversi dell'organizzazione testuale del sapere ma senza escludersi mutuamente.
Tutto ciò ci fa dire che, di fronte ad un World Wide Web sempre meno ipertestuale dobbiamo resistere alle tentazioni massimaliste e continuare ad usare l'ipertesto per quello che può dare, senza investirlo di responsabilità e compiti che non gli sono propri.
NOTE
1) Per la distinzione tra hotword testuali e hotword procedurali mi permetto di rimandare a: A. Perissinotto, Il testo multimediale, Utet Libreria, Torino 2000 pp. 14-42.
2) C.S. Peirce, Semiotica (a cura di M.A. Bonfantini, L. Grassi, R.Grazia), Einaudi, Torino 1980, p. 150.
3) Ibid., p. 152.
4) Queste considerazioni conclusive nascono anche dal confronto con Barbara Bruschi e con Alfredo Milanaccio durante i dibattiti sviluppatisi all'interno del gruppo FAR (Formazione Aperta in Rete) dell'Università di Torino.
5) Per una panoramica completa sui software di mappatura e di gestione della conoscenza in Rete si veda il lavoro di Andrea Montorio e di Alessandro Nardi al sito www.far.unito.it/mappe
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