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Alle sorgenti del socialismo di Amedeo Di Sora
una proposta di lettura alla luce della lezione gorziana
Alfonso Cardamone
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Ho scritto, nella Prefazione al libro, che Amedeo di Sora con questo saggio in due capitoli, ciascuno dedicato a un personaggio che, sia pure per carature e livelli differenti, possiamo definire di “confine” (il “condottiero” Giuseppe Garibaldi e lo scultore ciociaro Ernesto Biondi), vuole restituirci la memoria di idealità e di tensioni che sembrano smarrite, lontanissime dalle sensibilità e dalle attenzioni della contemporaneità, e che, invece, se riproposte con vigore e pertinenza, diventano pungoli, assilli, stimoli fecondi alla coscienza di chi il disagio avverta insostenibile del permanere nell’oscurità asfissiante di una società in cui la razionalità economica è un moloch che tutto assorbe e tutto divora, generando disumanità, disperazione e insignificanza, sfascio delle relazioni sociali e rottura, a rischio di irreversibilità, degli stessi equilibri ambientali e naturali.
A me pare, infatti, che questa coraggiosa riproposizione, senza infingimenti, dei valori del socialismo etico e libertario, potrebbe oggi tornare di attualità sulle ceneri del socialismo cosiddetto “scientifico” e di quello cosiddetto “reale”, ormai defunti e macerati dai fallimenti della Storia.
È luogo comune, ma anche verità acclarata, che con la caduta del muro di Berlino e con la fine dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” , il Capitalismo in Europa abbia vinto ovunque: ormai non esiste altro sistema economico al di fuori del capitalismo.
Ha vinto, certo, ma dobbiamo tornare a porci ancora le domande cruciali che già si pose il compianto Andrè Gorz: Su chi? Su cosa? E per realizzare che cosa?
Rispondere non è difficile. Basterà cominciare dalla seconda domanda: Per realizzare che cosa?
Apparentemente (così almeno sostengono i suoi laudatores e propagandisti), per realizzare la democrazia (e, magari, per esportarla). Ma, in realtà, la sua vittoria, sotto la maschera della democrazia, è stata il trionfo senza limiti del mercato, della competizione, degli obblighi produttivisti, della febbre per il profitto a tutti i costi e dell’amore sfrenato per il guadagno….
Su chi? Su che cosa?
Certo, sul piano immediatamente politico e delle relazioni internazionali, il capitalismo ha vinto, a partire dal crollo dell’ 89, sul cosiddetto socialismo reale, sulla dittatura stalinista (che, sia detto per inciso e a scanso di equivoci, riteniamo che abbia imbrattato il volto del Novecento non meno del nazifascismo, e che fin troppo a lungo era durata). Ma, sul piano politico di lungo periodo e su quello sociale, non c’è dubbio che, alla resa dei conti e per quello che riguarda le società venute fuori dai nuovi equilibri internazionali, la vittoria del capitalismo in Europa si sia risolta, molto più brutalmente, nella vittoria della razionalità economica sulle aspirazioni e sulle (pur modeste) conquiste dei più deboli. Aspirazioni e conquiste che vengono oggi, con la massima indifferenza e disinvoltura, annientate insieme col diritto alla sicurezza sociale e dei servizi pubblici, ormai votati al progressivo smantellamento, mentre di contro tendono a divenire endemiche la diffusione della malattia sociale della disoccupazione e la più scellerata devastazione ambientale.
Difficilmente contestabile è il convincimento che nelle coscienze della gran parte dei cittadini delle società neocapitalistiche i sentimenti predominanti siano la paura dell’avvenire, il rinchiudersi nella vita privata, l’alienazione vissuta e sofferta come disperante carenza di orientamenti e di prospettive, di progetti esistenziali in grado di dare un senso alla partecipazione dell’individuo alla società.
L’alienazione, da sempre denunciata dai socialismi storici di ogni ispirazione come portato tragico del capitalismo, non è dunque tramontata. Anzi, ha solo cambiato pelle, ma divenendo più feroce che mai, perché motivata e potenziata dal senso di devastante impotenza derivante dalla complessità incontrollabile e incomprensibile di un sistema sociale dominato dalla razionalità economica autonomizzata, che tutto determina, fagocita, corrompe e consuma, beni e coscienze.
E il senso di impotenza cresce e si aggrava a fronte della mancanza tanto di un modello alternativo credibile, quanto di un “soggetto storico” passibile di interpretarlo, crollate ormai tutte le illusioni otto-novecentesche sulla fine delle società capitalistiche e sulla loro sostituzione con entità statali comunitarie di tipo premoderno.
Superfluo è sottolineare –con Gorz- cheimproponibile è un modello che si rifaccia teoricamente allatipologia comunista, come quella sperimentata dalla Russia sovietica, che ai difetti di una società immobile premoderna affiancava quelli del capitalismo industriale, “senza i vantaggi rispettivi dell’uno e dell’altro”. Così come improponibile appare il ricorso teorico ad un modello “deindustrialista” radicale, anch’esso inteso come ritorno a un fondamentalismo premoderno, bloccato nell’attesa dell’azzeramento catastrofico del capitalismo, che si vorrebbe inesorabilmente veicolato dalle stesse devastazioni umane, sociali e naturali che esso provoca inesorabilmente.
Di fronte a tanto smarrimento, la domanda che ci si deve porre –suggerisce Gorz- è oggi, propriamente, la seguente: Senza pretendere di tornare a fantasiose e improponibili seduzioni premoderne, è possibile superare il predominio vorace della razionalità economica, nonostante e, anzi, proprio a partire dalla complessità delle articolazioni della società moderna? E cioè: uno sviluppo ri-orientato della loro complessità, nel senso di un diverso equilibrio interno alle articolazioni, potrebbe superare le nuove forme di alienazione?
Detto in altre parole: lo stesso sviluppo della società moderna nel senso di una differenziazione sempre più spinta delle attività non esige che ora venga abolito proprio il dominio della razionalità economica –cioè del mercato, del valore di scambio, della logica del capitale- sulle aspirazioni e i bisogni vissuti? Diviene affatto necessario oggi –afferma Gorz- ipotizzare non un arretramento al premoderno, bensì uno sviluppo in grado di orientare l’economia e la tecnica, e quindi il modello di consumo, non nel senso della massimizzazione dei rendimenti ma di una qualità della vita ottimal.
Si tratterebbe di “sottomettere lo sviluppo economico e tecnico a degli orientamenti riflessivi, democraticamente discussi; … di ricollegare le finalità dell’economia alla libera espressione pubblica di bisogni sentiti, invece di creare continuamente nuovi bisogni con il solo fine di permettere al capitale di accrescersi, in una spirale perniciosamente avvitata su se stessa.
L’idea, propugnata da Gorz, di una “evoluzione riflessiva dell’economia” potrebbe rappresentare “l’approccio più fecondo per il rinnovamento e la ridefinizione del socialismo”. Si tratterebbe, in breve di “democratizzare le decisioni economiche”, puntando sull’azione permanente di contro-poteri espressi da individui democraticamente organizzati.
Credo che sia chiaro che non si sta qui perorando la banale pretesa (anch’essa storicamente fallimentare) ad una coincidenza astratta tra socialismo e democrazia. Bensì ricercando un possibile andare oltre, una rifondazione della democrazia da ricostruire sugli obiettivi fondamentali di un socialismo finalmente etico. Obiettivi che potrebbero essere, per esempio e solo per dirne qualcuno: a) il predominio del valore della giustizia sociale, inteso come fine a cui conformare la razionalità economica; b) il riequilibrio del rapporto bisogni-consumi, contro l’attuale sfrenato predominio dei bisogni artificialmente indotti e dei consumi polarizzati; c) il consolidamento del valore assoluto della pace contro ogni logica di guerra, che è sempre e comunque un portato velenoso dello stradominio della razionalità economica.
Tutto questo significherebbe, appunto, ridare forza e vigore, funzione di senso e di riorientamento all’azione, proprio a quei valori del socialismo etico e libertario, umanitario e utopico, che sono il background della ricerca espressa da Amedeo nel suo breve ma intenso e encomiabile saggio.
E, per chiudere, con alcune brevi considerazioni sulla legittimità teorica dell’operazione tentata dall’ Autore, mi piace, a questo punto, citare Nietzsche. Il Nietzsche che, Sull'utilità e il danno della storia per la vita del 1874, esprimeva un pensiero semplicissimo ma di enorme portata, che si può riassumere così: noi abbiamo bisogno della Storia, ma ne abbiamo bisogno per le esigenze della nostra vita e della nostra azione nel mondo, "a favore di un tempo venturo". Ne abbiamo bisogno per produrre nuova storia, per inventare il presente e il futuro. In questo spirito oggi è necessario rileggere la storia del Socialismo ai fini di una nuova ripartenza della Speranza di cambiamento.
Chi fu sconfitto ieri nel duro confronto ideologico (e non solamente ideologico) tra le varie anime del socialismo, può fornirci oggi preziosi riferimenti alternativi.
Già nel 1992 Stefano Merli scriveva: "i profeti disarmati si prendono le loro soddisfazioni e i vinti di ieri (fossero dentro o fuori il moderno principe) riemergono dall'oblio e dal disprezzo come i profeti del domani".
Il crollo dei regimi comunisti ha attualizzato e reso cogente l'esigenza, che con sguardo profetico aveva già animato il pensiero di Raniero Panzieri, di tornare a individuare le "basi etiche" del socialismo. Basi al tempo stesso radicalmente opposte allo spirito del capitalismo e fuori dal condizionamento dello storicismo di marca hegelo-marxista, come d'ogni ideologia del lavoro e di ogni logica produttivistica. E ancora a Panzieri dobbiamo una intuizione fondamentale per una nuova ripartenza della sinistra e, cioè, la rivendicazione del valore politico, oltre che etico, di un rapporto riequilibrato tra mezzi e fini: il fine non giustifica mai i mezzi, come al contrario vorrebbero i machiavellismi di ogni risma e sorta.
L'uso del pensiero marxiano potrà ancora tornare utile per una ridefinizione del Socialismo, ma non più certo in un senso fideistico-dogmatico, bensì in chiave semplicemente metodologica, finalizzato essenzialmente all'analisi della struttura dinamica delle nuove forme che via via assume il capitalismo. Per essere chiari: la riconquista della "moralità militante", per una rinascita delle prospettive del socialismo (nel senso ampio del termine, ovviamente, come di un orizzonte di senso) non significherà solo recupero e valorizzazione dei valori etici e sociali, ma anche impegno politico e scientifico, nella direzione di una riattualizzazione degli strumenti di analisi della realtà economico -sociale, e, in primo luogo, della struttura delle dinamiche interne della razionalità economica nelle società capitalistiche.
Occorrerà tenere presenti i mutamenti della "composizione di classe", l'incalzare delle innovazioni tecnologiche, le trasformazioni incessanti e il dinamismo propri dei processi di ristrutturazione interni all'economia e alla società capitalistiche.
Resi saggi dal fallimento dei regimi comunisti da una parte, e coscienti da un'altra dell'obbrobrio delle devastazioni sociali, umane e naturali che lo sviluppo incontrastato della razionalità economica comporta, non potremo tornare indietro ad ipotesi premoderne che non tengano conto delle autonomie delle diverse articolazioni del vivere sociale e individuale, ma impegnarci nella riduzione del potere della razionalità economica rispetto alle altre razionalità. In una parola, un progetto di socialismo etico e libertario si dovrà basare non sulla distruzione, ma bensì sullo sviluppo delle diverse forme che assumono le autonomie del vivere civile, assoggettando ai bisogni socialmente avvertiti la razionalità economica, il che vorrà dire ancora affidarsi alla costruzione di nuove forme di potere fondate sull'autogoverno dei cittadini e sul controllo democratico.
Naturalmente, quando parliamo di Socialismo da rifondare non pensiamo a nessun partito politico organizzato o in via di organizzazione, non sono le alchimie di vertice che interessano il nostro discorso. Bensì, per citare ancor il compianto André Gorz, pensiamo al Socialismo come a "un orizzonte di senso che sviluppa una esigenza di emancipazione e di autonomia", poi che "lottare per il socialismo significa rivendicare in tutti i campi il diritto degli individui all'auto-determinazione, all'eguaglianza, all'integrità della persona, agendo perché possa essere rimodellato tutto ciò che, nella società, fa ostacolo a questo diritto".
E se questo è già un altro discorso, non può non tornarci imperiosamente in mente, comunque, il Biondi riproposto da Amedeo, che alla sua personale concezione del Socialismo connetteva il ruolo fondamentale dell'artista e dell'intellettuale non-organico che, nell'esercizio del pensiero libero e dell'attività estetica riconosce l'ineludibile spinta verso una società di giustizia sociale, di pace tra i popoli e di libertà.
Alle sorgenti del socialismo di Amedeo Di Sora, 2007, edizioni polis poiesis
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