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Povertà nel Tardoantico (seconda parte)
NOTE IN MARGINE AL DE NABUTHAE DI AMBROGIO
Antonella Reina
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prima parte
C) 2. Plebe Rustica
La grande massa della popolazione rurale era formata da lavoratori agricoli, ma vi erano anche artigiani e minatori, sia liberi che schiavi.
Lo strato più tipico e omogeneo di lavoratori agricoli era costituito dai coloni. Essi erano de facto in una condizione di dipendenza più stretta degli schiavi. Diocleziano aveva praticamente istituzionalizzato il loro vincolo alla terra a scopi fiscali.
La fuga continua dalle campagne per sfuggire all'oppressione delle tasse minacciava l'efficienza dell'esazione. Una serie di leggi furono tese a limitarla come quelle che stabilivano pene severissime nei confronti del colono fuggiasco e quelle sulla proibizione al colono di entrare nell'esercito o nel clero. Addirittura si giunse al divieto di matrimonio al di fuori del proprio rango sociale.
L'oppressione fiscale era insopportabile perché gravava per la maggior parte sulla proprietà terriera (capitatio/iugatio) . Essa non distingueva fra piccoli proprietari e semplici affittuari e generò una povertà diffusa aggravata da durissime condizioni di lavoro, senza giorni di riposo come era la domenica per le urbanae plebes (editto di Costantino del 321). Questo favorì , da un lato, il latifondo enorme e sempre più autonomo, dall'altro il fenomeno degli "agri deserti". Osserviamo anche nelle campagne, naturalmente, la coesistenza di malattia e miseria insieme al persistere in modo più tenace che nelle città di forme di paganesimo e di superstizione.
Per questi luoghi di morte si aggiravano bande erranti di poveri che miserevoli fra tutti facevano risuonare il loro "lamento inusitato" (Greg. Nissa, Sermo de pauperibus amandis, II) a causa di terribili malattie quali la lebbra, che veniva considerato il male sacro (Iera nosos). Anche nelle fonti agiografiche la malattia viene presentata come la conseguenza (sintomos) di una colpa. La causalità è sempre di tipo morale e non fisico o sociale. Si aggiungono, pertanto, a gravi menomazioni fisiche, disturbi psichici: frequenti i casi di epilessia, disturbi della parola e della capacità motoria, depressione. Essi, se caratterizzarono, da un lato persone ritenute possedute da spiriti maligni, dall'altro, marcarono anche quelli che diventarono gli asceti, i padri del monachesimo. Jones osserva che nella biografia di Teodoro di Sykeon, come in molte fonti agiografiche di V e VI sec., si evidenzia come i contadini conducessero un'esistenza completamente dominata dai demoni. Gli agricoltori mentre smuovevano, senza accorgersene, una roccia, o scavavano un tumulo, liberavano sciami di demoni che si impossessavano non solo di loro ma pure dei vicini e degli animali e bisognava chiamare il "santo" per scacciare gli spiriti maligni e rinchiuderli nel loro covo (25).
L'uomo santo, infatti, come vedremo meglio nelle pagine seguenti, fece della mortificazione della carne, dell'astinenza da cibo, acqua, sonno e sesso un mezzo di allontanamento dalla cultura per tornare alla natura. Dopo l'ascesi l'uomo santo può poi tornare nel consorzio umano più forte, vincitore del male: i suoi miracoli sono i segni del suo essersi liberato dai limiti della condizione umana.
Tornando alla composizione sociale della plebe rustica, abbiamo detto che lo strato più tipico e diffuso era quello dei coloni adscripticii, ma vediamo anche altre categorie , sia pure estremamente meno consistenti nel numero:
inquilini = lavoratori che risiedevano nelle proprietà ma fino a Valentiniano I avevano ancora il diritto di andarsene; salariati = lavoratori che facevano un contratto con il proprietario dietro compenso pattuito (merces placita)- a questa categoria appartenevano i lavoratori stagionali come i circumcelliones, itineranti del Nordafrica che ogni estate fornivano manodopera per il raccolto nelle grandi proprietà della Numidia - ; contadini indipendenti = piccoli proprietari; tributarii = prigionieri barbari divisi fra proprietari terrieri, tenuti a lavori di produzione; schiavi, sempre meno utilizzati come manodopera agricola.
D) Tensioni sociali e tentativi di risoluzione.
La tensione anti-fiscale e quindi anti-statale, sfociò in due modi, uno più brutale e violento, come il brigantaggio e numerose rivolte contadine; l'altro, per così dire, "istituzionalizzato", sia pure in forme spesso illegali, come il fenomeno del patronato.
Nel primo troviamo il movimento dei Bagaudae che divampò in Gallia e Spagna e i cui componenti sono indicati dalle fonti come rusticani, agrestes, rustici,agricolae, aratores, pastores, latrones (26) o come il movimento dei circumcelliones cui si unirono anche coloni e schiavi fuggiaschi che rivolsero il loro odio contro la Chiesa cattolica e in particolare contro episcopi e chierici (Agostino, Ep. 185,7,30) (Il movimento era legato alla controversia donatista.)
Del secondo Jones (27) ci informa che il termine patronatus/patrocinium è vago e indica molte forme di accordo legali o illegali che prevalsero nei vari periodi o regioni.
La documentazione tratta da Libanio (Or. XLVII, 1-16) riguarda la Libia alla fine del IV sec. e ci parla di protezione offerta da un dux a capo di truppe stanziate in un villaggio di proprietari liberi contadini che in cambio del buon trattamento offerto ai soldati protegge i contadini dal curiale quando viene a riscuotere le tasse o dall'agrario (o dal suo agente) nel caso di un villaggio di affittuari.
Per Salviano (V sec.) il patrono è un grande agrario che offre la sua protezione al singolo contadino contro l'esattore delle tasse in cambio della riversione della terra del contadino alla sua morte.
Ora è evidente come quest'ultimo concetto si evolva successivamente nell'idea del vescovo come patronus nelle realtà urbane e del martire e del santo come patroni celesti in campagna quanto in città.
Si può concludere che i contadini fossero i primi a soffrire in tempi di penuria. In parecchie occasioni sentiamo parlare di contadini che in periodi di scarso raccolto affluivano nelle città a mendicare il pane .
Ambrogio commenta amaramente l'espulsione di tutti i non residenti a Roma nei periodi di carestia e ci dice di come un illuminato praefectus urbi rifiutasse di prendere questa posizione protestando con i ricchi aristocratici:" ...se tanti coltivatori sono ridotti alla fame e tanti coloni muoiono, il nostro approvvigionamento di grano sarà gravemente rovinato: noi vogliamo escludere proprio coloro che normalmente ci forniscono il nostro pane quotidiano" (Off.,III, 45 sgg.).
"L'intera spesa dell'impero, il costo di nutrire e vestire l'esercito e gli impiegati civili, il mantenimento dei trasporti pubblici, il mantenimento della corte e il rifornimento di cibo delle due capitali con la sola eccezione del donativo alle truppe era sostenuto interamente dall'agricoltura e soltanto parzialmente da una tassa diretta sul commercio e l'industria" (Jones, Tardo impero... ,cit., p.680).
3. Il buon patrono.
Peter Brown fornisce indicazioni preziose per comprendere quanto fosse simile il ruolo che in Occidente nelle città assunsero i vescovi, rispetto a quello che l'uomo santo assunse per i villaggi e le campagne in Oriente, nonostante le profonde differenze di ruolo e di status.(29)
Il dato comune, interessante dal punto di vista della risposta sociale ad un bisogno non più soddisfatto dalle istituzioni statali, è quello che coincide con il fenomeno del patronato. "Ciò che la gente si aspettava dall'uomo santo coincideva con le speranze riposte nel patrono rurale. Ciò che essa voleva da lui era una versione del buon patrono di Libanio, un uomo potente abbastanza forte 'da poter dare una mano ai bisognosi' " (p.88). Brown, commentando la funzione di arbitrato spesso svolta dall'uomo santo nei villaggi, invita a non trascurare la continuità tra le aspettative riposte nel ruolo del vescovo nelle comunità cristiane primitive e quelle riposte nel più tardo uomo santo: ambedue venivano stimati in quanto detentori di poteri carismatici che li abilitavano a fare da arbitri e a "scrutare i cuori" . Questo risulta ancora più vero in vescovi come Ambrogio, ad esempio.
Alla fine del IV secolo nasce quello stretto rapporto fra il vescovo e la sua città che si sviluppò in un vero e proprio patrocinio nei sec. VI-VII. Quando l'attività tutoria e coordinatrice del vescovo in occidente assicurò il persistere stesso della vita civile, egli svolse vere e proprie funzioni pubbliche e venne spesso insignito del titolo di patronus (28) Patronus proprius viene definito Martino di Tour, uno dei più antichi e accertati esempi di patrocinium. Quella dell' episcopus urbanu può essere definita una sorta di magistratura urbana, alla quale compete la vigilanza sul complesso delle altre, con attività giurisdizionale per la soluzione di controversie di diritto privato tra laici senza che per questo il vescovo debba identificarsi con alcuna figura di pubblico funzionario municipale (Orselli, cit.p. 86).
Sul crinale di due realtà, Oriente e Occidente, campagna e città, viene a delinearsi lo sviluppo della figura del patronus da forme laiche (il patrocinio dei collegia in città e il patrocinio agrario nelle campagne) verso forme religiose: l'uomo santo, spesso monaco e asceta, come patrono rurale nei villaggi di Siria ed Egitto; il vescovo come patrono cittadino in Occidente, si pensi a vescovi come lo stesso Ambrogio.
Il bisogno di sicurezza e di autorità era espresso in modo accentuato in una società impoverita e insicura come quella tardoromana nella quale ad ogni livello dell'esistenza quelle istituzioni che in età classica erano sembrate in grado di sopportare la tremenda responsabilità della stabilità e del divino erano decadute o si erano dissolte .Agli uomini non era rimasto nulla su cui fare affidamento se non altri uomini come loro (30).
Nell'Occidente una forte corrente di opinione risalente ad Agostino si aspettava che la grazia trionfante di Dio si rivelasse dentro la società nella forma di persone sante chiamate per lo più a ruoli di guida nella Chiesa cattolica; queste persone avevano "vinto il mondo" e molti di loro l'avevano fatto in qualità di vescovi di capi delle città e incarnazioni della legge e dell'ordine in Gallia e in altre regioni occidentali: santità e ufficio ecclesiastico tendevano a convergere. In Siria e altrove (in Oriente soprattutto), si pensava invece che lo Spirito Santo suscitasse tanti uomini e donne in gran numero operanti al di fuori della società, nel deserto (31).
Questo "deserto" non era assoluto, ma spesso ai margini di grandi villaggi e permetteva agli asceti, vedi Simeone stilita, attraverso lunga penitenza e lungo lavoro sul proprio corpo una potenza che poi potevano spendere nel mondo come capi carismatici. Essi erano la rappresentazione angelica di un paradiso realizzato. Realizzavano un simbolico scambio a profondo livello immaginativo: avendo prosciugato da se stessi tutte le tracce del mondo, convalidavano quello stesso mondo pregando incessantemente per lui.
La figura dell'uomo santo è, dunque, un concentrato di bisogni insoddisfatti di una società disorientata e fortemente competitiva. A quali esigenze provvedeva la sua persona? 1) Esigenze di giustizia, ma nello stesso tempo di pietà (egli era un padre e non solo un dominus per il suo popolo); 2) Esigenza di professionismo in un mondo di dilettanti (era un esempio perenne e non occasionale di dedizione al sacrificio e alla preghiera; era così garante del pentimento); 3) Esigenze di sicurezza, catarsi dell'angoscia quotidiana (egli placava i sensi di colpa; aveva una risposta a malesseri fisici e psichici: era un patèr pneumatikòs = padre spirituale) (32).
L'uomo santo vive prevalentemente in Oriente: Siria o Egitto; è un uomo che vive nel deserto: qui egli ritorna allo stato di natura, nella preghiera e nella mortificazione. È autosufficiente. Vive al confine tra divino e demoniaco. Si radunano intorno a lui dei seguaci; spesso si tratta di persone sbandate assai misere, ad esempio, torme di ciechi senza lavoro che si pongono sotto la sua protezione. Egli sfugge a qualsiasi giurisdizione: è un nomade, uno straniero indipendente ai limiti del villaggio, di cui spesso finisce per assumere la leadership. Subisce frequentemente la repressione dei vescovi e diviene capro espiatorio per ogni sorta di crimini (omicidi, stupri, malocchio, ecc.).Si sostituisce man mano al patrono rurale; Libanio ci dice che il patronato era accettato da tutti come istituzione, ma era esercitato dalle persone sbagliate, spesso militari , e che ad un certo punto si sentì "il bisogno di persone in grado di porgere una mano di soccorso a chi si trovava in difficoltà" (Or. 47,11). L'uomo santo, possedendo la dynamis, e la chàris energoùsa, elementi cardine del buon patrono, li spende in favore del villaggio. I movimenti delle sue mani operano il bene e il male e la mano stessa concentra il suo potere: maledice i potenti iniqui, guarisce le malattie, allontana la vendetta divina, redime le controversie tra gli abitanti del villaggio, pratica l'esorcismo. Insomma funge da mediatore nel villaggio: pone un freno alle tendenze centripete del mondo agricolo tardo romano, riportando, attraverso una vistosa ritualità, lo spirito di identità comunitario , da forme di individualismo esasperato (ad esempio, un villaggio assalito da donne-lupo fu esortato ad un battesimo collettivo, e si riportò così la tranquillità attraverso un atto rituale collettivo). Spesso, mette in scena la conflittualità tra se stesso e gli spiriti demoniaci riuscendo a fugarli: padroneggia in tal modo le tendenze all'aggressività, all'invidia, alla recriminazione reciproca, che spesso venivano definite demoniache. Grazie a questi carismi egli può favorire la cancellazione dei debiti, il rispetto dei confini dei vicini, il prestito di denaro a basso interesse, può intercedere per gli uomini di fronte al Re dei Re nel consistorium del cielo. Possiede infatti, anche la straordinaria facoltà della parresìa , la parola libera da condizionamenti sociali e politici che ne fa espressione in terra della divinità: egli la utilizza insieme alla gestualità della mano in modo estremamente suggestivo. È il muro, la torre, il leone (33). La principale funzione del culto dei martiri e dei santi uomini in generale - patriarchi e profeti del Vecchio Testamento, apostoli ed evangelisti, eremiti e asceti dei tempi più moderni - fu quella di sostituire nella religione popolare del tempo, specie nelle campagne, gli antichi dèi pagani. Essi guarivano gli ammalati, davano figli alle donne sterili, proteggevano i viaggiatori dai pericoli in mare e in terra, scoprivano gli spergiuri e predicevano il futuro. Il culto dei martiri e dei santi portò in seno alla chiesa cattolica queste credenze popolari: gli uomini santi ascesi al cielo avevano nella sfera celeste un ruolo analogo a quello dei potenti della corte imperiale , attraverso di loro le petizioni potevano essere portate a conoscenza dell'imperatore con più efficacia che se fossero indirizzate direttamente a lui; nel linguaggio del tempo gli stessi termini si applicavano ai patroni sia celesti sia terreni, dei quali si ricercavano i suffragia (34).
In Occidente, in ambiente urbano, il vescovo vive di rendita e dunque è autosufficiente. Presto diventa patronus urbis e assume la guida e la tutela della città quando il potere ordinario è indebolito o vacante; è curator civitatis e defensor civium , sostituendo nella sua persona queste magistrature che si stanno snaturando. Egli, il vescovo, vigila sulla città soprattutto nella qualità intrinseca al suo ufficio di pater, non di dominus : "Episcopi patres se sciant esse , non dominos" (Hieronymus, Epist., LXXXII, 11). Grazie alla sua funzione tutoria e assistenziale, sostiene gli indigenti, è ospite degli orfani e dei pellegrini, redentore dei prigionieri, intervenendo nella liberazione dei carcerati. Artifex ad intercessiones, intercede per il popolo dei credenti di cui è pastore, possiede dynamis e parresia, detiene infatti il mysterium tremendum del sacrificio eucaristico: è portavoce della parola e giustizia di Dio. La sua azione mediatrice soccorre gli infermi, storna le sventure dalla città in pericolo, può scacciare gli incendi e allontanare i supervenientia mala ( ad esempio i barbari). Con la sua preghiera intercede presso Dio (Praesules...apud divinam clementiam Humani generis agunt causam, Capitula Caelestini, I, VIII, D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Florentiae, 1760, IV, c.461). Secondo Ambrogio (De Abraham, I, VI, 48; Expos. Ps. CXVIII, 22, 41), "il giusto vescovo è per la sua stessa qualità muro e garanzia di salvezza per la propria città". La tutela del vescovo sulla città si protrae anche dopo la morte, se la città ne conserva le reliquie. Fu Ambrogio a ritrovare le reliquie (vere o presunte qui importa poco) dei Santi Gervasio e Protasio a Milano nel 385 e a diffonderne il culto nella città. Diventando Patronus celeste della cattedrale e della città il santo rafforzava il prestigio del suo rappresentante e ben presto successore in questo mondo: il vescovo (35).
Come si può notare, tra l'uomo santo e il vescovo esistono delle coincidenze di funzione: entrambi possiedono capacità di mediazione fra il popolo e i potenti, grazie a grande carisma e autorità che si esprime mediante certa vistosa ritualità di gesti e libertà di parola. Sono patroni che tutelano i propri assistiti e li difendono dalle ingiustizie e dalle prepotenze . Sono entrambi un " muro" di protezione.
Entrambe queste figure, uomo santo e vescovo, concretizzano, dunque, nella lingua nuova del cristianesimo, i concetti che nello stato romano pre-cristiano erano stati del patronus agrario e del patronus cittadino.
E' naturale che già nel corso del quinto secolo, messi al vertice della città, molti vescovi si trovavano implicati in un sistema di potere istituzionale che spesso utilizzarono per proprio tornaconto personale e per soffocare espressioni di religiosità più radicale che si presentava spesso nei monaci.
Anche il tempo dei martiri passò presto; quello degli eremiti di tipo orientale, in Occidente non sarà che una moda letteraria e i penitenti solitari e poveri saranno presto malvisti da una Chiesa gerarchica che non concepisce più la pratica dell'ascetismo se non inquadrata nel monachesimo cenobitico (36).
Ma grandi prelati come Ambrogio e altri Padri della Chiesa furono capaci di contemperare la forza derivata dal potere ecclesiastico con quella carismatica del proprio comportamento, eredità dei profeti ebrei. Come si evidenzia dalla biografia e dagli scritti di Ambrogio egli si pose come difensore dei pauperes Christi ai quali devolvette gran parte del proprio patrimonio, prese dura posizione contro l'arianesimo, non esitò a imporre all'imperatore Teodosio la nota pubblica ammenda per l'eccidio da quello perpetrato ai danni della popolazione di Tessalonica, si identificò con il profeta Elia che "chiuse le piogge del cielo, diede in pasto ai cani Achab e Jezabel, massacrò i sacerdoti di Baal" (Vita Sym. Stil., 80, pag. 127.4).
4. Il De Nabuthae: Ambrogio come Elia.
Ambrogio, alla fine del IV secolo, interpreta efficacemente questa rappresentazione ideologica della chiesa come struttura in favore dei pauperes.
Egli stesso distribuì aurum ai pauperes nel 385/86; molti nobili di famiglia senatoria, convertitisi al cristianesimo, liquidarono i propri beni. Questa carità degli uomini di Chiesa, come ha osservato Giardina, era eversiva, smantellava la permanenza delle casate e la stabilità dei ceti dominanti. "Il dono pagano era destinato alla città, al popolo inteso come insieme dei cittadini, i donatori cristiani indirizzavano invece la loro carità ai poveri, intesi come categoria sociale e morale, non civica" (Giardina, Melania la Santa, in Roma al femminile... , cit., pag. 249).
Nel De Nabuthae Ambrogio esplicita il concetto, seguendo questo ragionamento: la ricchezza è in sè fonte di perdizione, ma c'è un modo per il ricco di guadagnarsi la pietà di Dio: "tu dici: demolirò i miei granai; il Signore ti risponde: "cerca piuttosto che quanto è contenuto nel granaio è destinato ai poveri, fa in modo che codesti tuoi magazzini riescano utili agli indigenti (egenis). Ma tu insisti: ne farò di più grandi e lì raccoglierò tutto quello che i campi hanno prodotto per me. E il Signore risponde: spezza il pane che è tuo all'affamato. Tu dici: porterò via ai poveri la loro casa. Il Signore invece ti chiede: conduci a casa tua i poveri che non hanno un tetto"(X,44).
Ambrogio si appella contro l'idea generalizzata nella società del tempo del povero come maledetto dalla divinità, ben conoscendo l'ideologia dell'uomo romano ed evidenzia come i poveri venissero, come abbiamo già in precedenza ricordato, da questo distinti in meritevoli e non meritevoli: "ma forse dirai anche tu quello che avete l'abitudine di dire in queste occasioni: 'non abbiamo diritto di fare regali a colui che Dio ha tanto maledetto da volere che vivesse in miseria', invece, non è vero che i poveri sono maledetti; al contrario è detto beati i poveri perché‚ di essi è il regno dei cieli . Non a proposito del povero ma a proposito del ricco la Scrittura dice che 'Chi accaparra il grano per alzarne il prezzo verrà maledetto'. E poi non stare ad indagare i meriti delle singole persone ( deinde non requiras quod unusquisque mereatur). La misericordia è abituata a non giudicare il merito della gente, ma a venire incontro alle necessità altrui; ad aiutare il povero, non a soppesare la pura giustizia ( misericordia non de meritis iudicare consuevit, sed necessitatibus subvenire, iuvare pauperes, non examinare iustitiam). Sta scritto 'Felice colui che pensa al bisognoso e al povero'; Chi ne ha compassione, chi si sente partecipe della medesima natura con lui, chi comprende che il ricco e il povero sono ugualmente creature del Signore, chi sa di santificare i propri raccolti, se ne riserva una porzione per i poveri. Insomma dato che hai per fare del bene, non rimandare dicendo: 'darò domani': potresti anche perdere la possibilità di donare. E' pericolosa qualsiasi dilazione nel salvare gli altri; può accadere che, mentre tu continui a rinviare, quello muoia. Preoccupati piuttosto di arrivare prima che muoia; può accadere infatti che quando arriva il domani, l'avarizia ti trattenga e le promesse siano annullate". (De Nab., VIII,40)
In riferimento al seguito di Ambrogio, Mazzarino osserva che "la composizione del populus ambrosianus era
varia: in gran parte erano pauperes Christi. Fra essi Ambrogio aveva distribuito monete d'oro. Ma c'erano anche, classe agiata di questo populus, i mercatores o i negotiatores". Mazzarino si chiede se ci sia contraddizione fra l'amore di Ambrogio per i suoi pauperes e i legami che egli ha con i ricchi mercatores. Ideologicamente questi contrappone la proprietà allo stato di natura (De Nab. I,2 nescit natura divites, quae omnes pauperes generavit) o insiste spesso sulla condanna del prestito a usura (De Tobia). Ma conduce le sue rivolte nell'ambiente milanese perché‚ può contare sull'appoggio di una borghesia che fonda il proprio benessere sull'ampia intrapresa commerciale-industriale che la caratterizza. Di qui il suo elogio delle ricchezze, a condizione che possano essere utili alla virtù. L'aristocrazia senatoria alla quale apparteneva si era caratterizzata per la grande accumulazione di ricchezza.
Mazzarino conclude che Ambrogio come concentrazione chiede quella spirituale (egli è nutritor di un monasterium) e che il punto di contatto fra la largitas dei pagani e quella dei cristiani è la largitas in favore dei poveri cui Ambrogio propende e con la quale supera il conflitto (37). D'altra parte, osserva Brown, "per questo aspetto come per molti altri, Ambrogio è parte integrante di quel primo mondo bizantino che seguì la corte imperiale da Antiochia a Treviri" (38) "È stato generoso, ha dato ai poveri, la sua giustizia rimarrà in eterno. Che cosa meglio di così. Quelle cose sono buone se le dai al povero (bona sunt si pauperi largiaris), perché attraverso lui ti rendi debitore Dio stesso, come se gli avessi fatto un prestito di misericordia. Le ricchezze sono buone se apri i granai della tua giustizia, in modo da essere pane dei poveri, vita dei bisognosi, occhio dei ciechi, padre degli orfani". De Nab., VII, 36.
Nel De Nabutha, dunque, Ambrogio nel suo incisivo ruolo di vescovo, difende i poveri, prende le parti di Naboth, contro il ricco re Achab. Egli tuona contro i ricchi e contro il comportamento dei malvagi regnanti Achab e sua moglie Jezabel, brandendo nelle sue ammonizioni la minaccia di una giustizia superiore, quella divina: Terribilis est Dominus et nemo possit potens et dives resistere; iudicium caeleste iaculatur, De Nab., XV,65; cfr. V,19; 25; VII,37; VIII,40. Nei rapporti con il potere imperiale Ambrogio trascinò Graziano, Valentiniano II, Teodosio, nella sua inesorabile volontà. Nel 379 già Graziano , sembra, subì l'influsso di Ambrogio, quando rinunciò al titolo di Pontifex maximus, e contemporaneamente proclamò Teodosio imperatore d'Oriente 34. Dopo l'uccisione di Graziano, nel 383, come sappiamo, fu grazie anche all'intervento di Ambrogio che il piccolo Valentiniano II rimase signore della prefettura italiana , nonostante i suoi dodici anni, in opposizione all'usurpatore Massimo. Nel 384 l'intervento del vescovo risolse in senso cattolico la vicenda dell'Ara della Vittoria in opposizione all'aristocrazia pagana dei Simmachi con la minaccia della scomunica a Valentiniano II che dovette cedere alle sue pressioni; nelle rivolte milanesi del 385-386 il vescovo capeggiò la rivolta cattolica contro gli ariani a Milano in opposizione a Giustina, madre di Valentiniano , nel 388 rimproverò pubblicamente Teodosio nella cattedrale in merito all'episodio della sinagoga di Callinico; nel 390 impose a Teodosio la pubblica penitenza per l'eccidio di Tessalonica dopo averlo minacciato di scomunica.
terza parte
note
in antichi saperi:      |
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