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Povertà nel Tardoantico (prima parte)
NOTE IN MARGINE AL DE NABUTHAE DI AMBROGIO
Antonella Reina
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Premessa
"Non unus Nabuthae pauper occisus est: cotidie Nabuthae sternitur, cotidie pauper occiditur. hoc metu percitum humanum genus cedit iam suis terris, migrat cum parvulis pauper onustus pignore suo, uxor sequitur inlacrimans, tamquam ad bustum prosequatur maritum". (Ma neppure Naboth è l'unico povero che sia stato ucciso, ogni giorno un povero viene ucciso. Angosciata da questo timore la gente si ritira dalle sue terre; e il povero carico del suo pegno d'amore, emigra con i figli, mentre la moglie lo segue in lacrime, come se accompagnasse il marito al sepolcro) Ambrogio, De Nab. I 1.
Nella storia biblica di Naboth, un povero agricoltore perseguitato fino alla morte dal prepotente re Achab e da sua moglie, la crudele Jezabel, Ambrogio trova il paradigma di un'ingiustizia sociale che gli sembra aver raggiunto ai propri tempi un livello insopportabile. Ogni giorno un "Naboth" viene ucciso - tuona appunto Ambrogio nel De Nabuthae Historia - e la gente abbandona i campi in funebri cortei. Ambrogio è vescovo di Milano dal 374 al 397, anno della sua morte, e in questo trattato, o forse omelia, con la potenza del profeta Elia, nel quale sembra identificarsi, documenta, appassionatamente, le condizioni di grave miseria che affliggevano al suo tempo vaste masse popolari. Ambrogio in Occidente e Giovanni Crisostomo in Oriente dipingevano a fosche tinte il contrasto tra la ricchezza e la povertà e finivano sempre col concludere che la ricchezza era alla radice dell'oppressione.
Nel De Nabuthae le vibranti parole che Ambrogio scaglia come pietre al suo uditorio, pur ricche di topoi letterari ed echi di omelie di Basilio, testimoniano una situazione storico-politica di grave tensione e sostengono la tesi ambrosiana sulla predominanza del potere spirituale su quello politico, sul rapporto, cioè, tra vescovo e imperatore. (1).
L'agonia del mondo antico si consumava su grandi linee di frattura: contrasto tra romani e barbari, tra pagani e cristiani, tra città e campagna, tra ricchezza dei possessori di oro e povertà di grandi masse di contribuenti non possessori d'oro (2). Il divario sociale ed economico tra ricchi e poveri oppressi da imponenti tassazioni, da condizioni di vita assai dure e decimati da guerre continue, fu allora di enormi proporzioni.
Lo stato, accentrato, fiscalmente esigente e parassitario (le entrate servivano principalmente a soddisfare i bisogni dell'apparato militare in un momento in cui anche la burocrazia era considerata una militia), non seppe sovvenire alla richiesta di aiuto e di protezione che saliva dalle campagne (coloni oppressi dalla tassazione) e dalle città (proletariato urbano). L' insecuritas, materiale e morale della maggioranza della popolazione, che nei secoli successivi divenne la cifra esistenziale dell'uomo (Le Goff)(3), trovò, invece, al suo nascere risposta nel cristianesimo: nell'organizzazione episcopale in occidente, monastica in oriente (Momigliano).(4)
La Chiesa delle origini contrappose, anche ideologicamente, la sua carità al linguaggio consueto dell'evergetismo romano. La pietà (eleemosyne) e non il prestigio (philodoxia) ne motivò la carità, l'obiettivo esplicito della Chiesa era predicare il Vangelo ai derelitti (ptochoi) non ai poveri in generale. Le vedove, gli orfani, i senza dimora e i malati che la Chiesa aiutava erano quasi ignorati dall'evergetismo romano. Essi venivano infatti considerati 'immeritevoli', 'plebaglia', (plebs sordida), come già li aveva definiti Tacito, Hist. I,4. Questa forma di carità, come può essere facilmente comprensibile, esercitò una potente attrazione nelle città tardoimperiali ed è una delle spiegazioni del successo del cristianesimo mentre le comunità civiche si disgregavano.
In Oriente, il movimento monastico si spinse oltre: santificò simbolicamente coloro che lavoravano con le loro mani o vivevano di elemosine. Il monachesimo evidenziò la figura taumaturgica dell'asceta, che spesso era anche un uomo santo. In Occidente, la figura del Santo Patrono, che si andava attestando nel V-VI sec., evidenziò il passaggio da terreno a celeste della funzione di protezione auspicata dalla società. In particolare tale funzione assume in Ambrogio quasi una forma paradigmatica. Nel De Nabuthae Ambrogio è il vescovo che difende i diritti del suo popolo, i pauperes Christi, contro il re o i ricchi; egli è il profeta, l'uomo di Dio che proclama il compimento della giustizia contro quel re o quei ricchi che, come Achab, si macchiano del sangue dei poveri , come Naboth: è Elia di fronte ad Achab.
Osserva Whittaker che "in definitiva il Cristianesimo per un breve periodo, raggiunse quella che Gramsci avrebbe chiamato una visione del mondo 'contro-egemonica', che integrava le istituzioni della chiesa e dello stato nell'ideologia popolare.(5)
Tenendo presenti tali considerazioni, nelle pagine seguenti si traccerà un breve quadro della situazione storico-sociale alla fine del IV secolo, illustrando le condizioni di vita dei vari strati sociali. Inoltre si evidenzierà l'emergenza sociale di due figure religiose, antitetiche per certi versi ma entrambe dotate di un grande carisma popolare: l'asceta - uomo santo e il vescovo, entrambe in qualche modo espressioni del bisogno di protezione che saliva dalle masse popolari rispettivamente nelle campagne e nelle città.
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1. Agri deserti "
"Una parola esce di frequente dalla penna di coloro che, all'alba del Medioevo, descrivono il paesaggio del vecchio Impero Romano di Occidente: solitudini. Grandi spazi silenziosi, privi di abitanti, dove le foreste erano cresciute fuori di ogni misura e le acque si allargavano in laghi immensi, dove le brughiere correvano squallide per chilometri verso un orizzonte lontano. Una lunghissima decadenza aveva scarnificato città, villaggi, fattorie, riducendole di numero, gettandole spesso nel nulla, facendone diminuire paurosamente gli abitanti, alzando e disseminando cumuli di rovine davanti agli occhi dei pochi superstiti. La floridezza si era trasformata in povertà e miseria, che trovavano uno specchio desolante nel paesaggio dove vagavano più bestie selvatiche che uomini; e questi erano diventati paurosi e insieme aggressivi." (6)
Sebbene Fumagalli abbia presente il VI sec. d. C: come punto più basso della parabola discendente, quando guerre, invasioni, rabbiose impennate del clima, lunghe malattie epidemiche accentuarono il processo di logoramento della civiltà romana, la situazione di crisi è già ampiamente segnata sul territorio nello scorcio del IV secolo.
Ambrogio, allora influente vescovo di Milano, nel 387, scrive al suo amico Faustino una lettera nella quale accomuna il destino di morte a persone, città e campagne: "Mentre venivi dalla città di Bologna, ti lasciavi alle spalle Claterna, la stessa Bologna, Modena e Reggio, sulla destra c'era Brescello, di fronte ti veniva incontro Piacenza che fa
risuonare ancora la sua antica nobiltà, e sulla sinistra provavi pena per le terre incolte degli Appennini, consideravi i castelli un tempo fiorenti e li passavi in rassegna con un doloroso sentimento. Orbene, tanti cadaveri di città semidistrutte e il funereo aspetto delle campagne non ti insegnano che bisogna ritenere più consolante la morte di una donna sola per quanto santa e ammirevole? Tanto più che quelle sono abbattute e distrutte per sempre, questa, invece, benché tolta a noi per un certo tempo vive lassù una vita migliore."(7) La situazione, appunto, peggiorò progressivamente e per il ripopolamento delle regioni spopolate, nell' interesse dell'economia romana, non ci fu altra possibilità che l' insediamento di barbari.
In seguito alla fuga in massa della popolazione - o verso le proprietà private protette o verso i barbari- vaste regioni andarono spopolandosi: tale era divenuta insopportabile la pressione fiscale e la tirannia dello stato, dell'imperium romano, nei confronti di vastissimi strati sociali.(8)
2 . Enorme divario fra ricchezza e povertà.
A) Strati sociali superiori. (9)
In ogni epoca della storia romana, povertà, mancanza di libertà e oppressione furono le normali condizioni di vita di larghi strati della società, ma nell'impero tardoromano le sofferenze della popolazione raggiunsero livelli insopportabili e si estesero a macchia d'olio allargando il numero degli appartenenti ai livelli inferiori e rimase un solo strato della popolazione, in realtà esiguo, a vivere nella prosperità. Questo strato di privilegiati non corrispondeva tout-court al ceto degli honestiores, che, come hanno dimostrato i più autorevoli studiosi di storia sociale di questo periodo, risultava estremamente eterogeneo al suo interno, ma ad alcuni ranghi, effettivi detentori del potere. Il potere concreto dei singoli gruppi sociali dipese, assai più che nelle epoche precedenti dal rapporto con il sovrano: cioè‚ si concretizzò negli uomini dell' apparato di potere imperiale. I gruppi più influenti erano formati dai membri del santo consistorium che comprendeva i capi delle più alte cariche amministrative, formava un corpo permanente costituito da generali eminenti, dai fidi servitori personali del sovrano e dai prestigiosi dignitari della chiesa. Il potere si misurava sulla ricchezza. E la maggiore ricchezza era data dalla proprietà della terra .
Con la crisi progressiva dell'artigianato e del commercio, l'asse economico si era spostato dai centri di produzione urbana alla grande proprietà terriera, anche se questo non va inteso come arresto della produzione cittadina.
Già dal IV secolo le grandi proprietà rinunciarono sempre più a coprire il proprio fabbisogno di prodotti artigianali soprattutto con il commercio, provvedendovi invece con la propria produzione. I proprietari terrieri furono più chiaramente che nei periodi precedenti lo strato sociale di punta economicamente determinante, mentre la massa nullatenente della popolazione più bassa divenne sempre più dipendente da tale strato di grandi proprietari terrieri. (10). Accadeva pertanto che il proprietario terriero si ritirasse sempre più nel suo latifondo che diventava un'entità economicamente e politicamente indipendente all'interno dello stato. È già l'inizio del Medioevo.
Spesso proprietà enormi erano senatorie. Ad esempio, Q. Aurelio Simmaco (console nel 391) possedeva tre case a Roma, una serie di ville nei dintorni di Roma e nelle zone più belle d'Italia, terre nel Sannio, in Campania, in Apulia, in Sicilia e nell'Africa Settentrionale. Allorchè alla fine del secolo un membro della ricca famiglia Valeria, Valerio Piniano e sua moglie Melania, ebbero la volontà di alienare tutto il proprio patrimonio per distribuirne il ricavato in elemosine, come cristiani convinti, trovarono delle difficoltà non solo nell'opposizione dei parenti ma nella consistenza stessa dei beni.(11). Insomma, in occidente, come ha mostrato bene Mazzarino, "l'economia della nobilitas senatoria, latifondistica, era il fenomeno più appariscente".(12)
Ma non tutti erano così ricchi e influenti. Nel Querolus, una commedia scritta tra il 410 e il 417 troviamo una "lista" di classi dirigenti laiche - un discorso a parte merita infatti l'ambito ecclesiastico -:Senatores = coloro che hanno divitias atque honores militares (si intendono qui le dignità civili, che nel tardo impero sono considerate una milizia). I senatori non arrivarono mai ad essere viri militares in senso stretto, questi invece ottennero formalmente il rango di senatore. Curiales = personaggi di spicco delle città responsabili della tassazione. Togati = avvocati ben pagati. Mercatores = commercianti. Fenerator advena = usuraio straniero.Altri ricchi. (13)
Si può concludere già solo da questa ripartizione che gli honestiores nel tardo Impero si frantumarono in numerosi strati con posizione sociale molto differente al cui vertice stavano i nobili senatori proprietari terrieri. Si pensi alla posizione ambigua dei curiali il cui rango da molti era considerato non un privilegio ma una punizione, a causa dei gravosi munera cui erano tenuti (14).
L'apparato di potere dell'Impero, che doveva mantenere un numero elevatissimo di burocrati e militari, opprimeva la società con un numero indescrivibile di tasse estese a tutta la popolazione (anche se con un altrettanto congruo numero di privilegi ed esenzioni) e frenava lo sviluppo sociale con il suo parassitismo. Esso si alienò per questo persino l'appoggio degli stessi proprietari terrieri.
B) Una società fondata sulla ricchezza.
Si può ritenere così che ad una società fondata sul prestigio (appartenenza all'ordine senatorio, ad es.) se ne sostituisse una fondata sul potere e la ricchezza. Il titolo di clarissimus come quello di spectabilis e molti altri potevano essere comprati e attraverso l'analisi degli editti imperiali possiamo comprendere come gli imperatori non facessero differenza fra honestiores e humiliores, come accadeva in precedenza, ma tra locupletes e coloro che per egestatem abiecti sunt in faecem vilitatemque plebeiam (Cod.Theod.,9,42,5). Con i soldi si poteva comperare la giustizia. Le disposizioni penali variavano a seconda dei ranghi che, in quanto categorie sociali, vennero a sostituire i vecchi ordines. Un editto del 412, distingue le pene a seconda dell'appartenenza: illustres e spectabiles -i gruppi più alti del rango senatorio; senatores e clarissimi - membri del senato e altre persone di rango senatorio; sacerdotales - sacerdoti provinciali; principales e decuriones - curiali eminenti e ordinari; negotiatores, plebei - persone libere risp. di città o campagna; circumcelliones - lavoratori stagionali delle proprietà, personalmente indipendenti; servi e coloni - citati a parte perché‚ per loro, poverissimi, non è prevista l'ammenda ma la fustigazione: sono gli schiavi e i lavoratori legati alla terra (Cod. Theod.,16,5,52 e 54) (15).
A proposito di questa disparità di trattamenti anche penali nel De rebus bellicis, l'anonimo autore - fondamentale per la comprensione di molti aspetti sociali del IV secolo - nell'ultimo capitolo, dedicato alla confusio legum, conclude"quid enim sic ab honestate consistit alienum quam ibidem studia exerceri certandi ubi iustitia profitente discernuntur merita singulorum? " ("cosa c'è infatti di così alieno dalla onestà quanto dedicarsi al certame oratorio dove sotto l'egida della giustizia si fa distinzione a seconda dei meriti di ciascuno?"). Alcune lettere di Simmaco ci testimoniano del "favor" di cui i giudici facevano conto nella amministrazione della giustizia (ad esempio, nei cfr. della madre di Nicomaco Flaviano, Symm., Ep. IV,71, p.123,11 Seek; Symm., Ep. IX,11, p.238,13 Seek). Di qui si capisce che i merita singulorum sono i favores di cui godono alcuni rispetto ad altri. Afferma Ammiano (XXX,4,11) che aveva avuto un'esperienza diretta delle repugnantes sibi leges, che se dimostravi a questi giudici di aver ucciso premeditatamente tua madre, essi promettevano che i loro reconditi studi ti avrebbero assicurato l'assoluzione, si te senserint nummatum.
Perciò la afflicta paupertas, osserva l'Anonimo, "constatando con i propri occhi l'inesistenza di qualsiasi rispetto per la legge e sentimento di pietà affidò al crimine il proprio riscatto"(Sed afflicta paupertas, in varios scelerum conatus accensa, nullam reverentiam iuris aut pietatis affectuum prae oculis habens vindictam suam malis artibus commendavit ". D.R.B.,II,3) (16).
C) Strati sociali inferiori.
Mentre fra gli honestiores potevano distinguersi gradi di potere e ricchezza e dunque posizioni sociali differenti, i vari strati degli humiliores assunsero una forma sempre più omogenea, caratterizzata da: a) condizione di non-libertà; b) povertà; c) sofferenza.
Naturalmente anche all'interno del vasto strato degli humiliores vi erano differenze sociali non solo tra popolazione urbana e popolazione rurale ma anche all'interno di queste due categorie fra i singoli gruppi. Ma una caratteristica rendeva comune la loro condizione: il rapporto di dipendenza economica, sociale e politica dagli honestiores. Il divario fra libertà e schiavitù era andato riducendosi fino a diventare nei fatti non significativo, e senz'altro a favore della condizione schiavile. La posizione giuridica degli schiavi fu migliorata da diverse leggi ed essi furono equiparati ai liberi sotto molti punti di vista. Ad es., una legge di Costantino del 325 proibisce la vendita a proprietari diversi dei componenti di una famiglia di schiavi, al fine di evitarne la dispersione (Cod. Theod., 2,25,1) .
Invece, la massa della popolazione "libera", a causa della proibizione della libera scelta di domicilio e di attività (vd. l' ereditarietà dei mestieri prevista per legge) e a causa dell'obbligo a prestazioni lavorative e a onerosissimi pagamenti fiscali, fu largamente abbassata a livello di schiavitù. Anche la teoria giuridica faceva sempre meno distinzione fra liberi e non-liberi, specie quando si trattava di coloni. (Jones) (17). A causa del vincolo alla terra (adscriptio glebae) già alla fine del IV sec., i coloni venivano considerati "servi della gleba": "...et licet condicione videantur ingenui , servi tamen ipsius cui nati sunt aestimentur" (Cod.Iust.,11.52.1.1).
C) 1. Plebe urbana.
Vediamone la composizione. Essa comprendeva commercianti, artigiani, il personale inferiore della comunità, il personale domestico e i lavoratori occasionali assolutamente poveri. Naturalmente lo stato giuridico comprendeva sia liberi che schiavi.
La componente più numerosa era quella dei commercianti e degli artigiani. Libanio attesta per Antiochia fornai, erbivendoli, argentieri, orafi, locandieri, barbieri, scalpellini, profumieri, operai metallurgici, calzolai, tessitori, alimentaristi, commercianti di tessuti (Or. 26,23; 46,23; 20,36; 29,27; 33,32) ; a Roma c'erano 254 piccoli negozi di fornaio (Notitia urbis Romae) ed era piena di lavoratori occasionali.
Lo strato più basso era formato dai lavoratori saltuari i quali erano particolarmente numerosi nell'industria edilizia). Tra questi ve ne erano di poverissimi, ad es. ad Antiochia gli Isauri erano dei montanari di cronica povertà che furono ridotti a guadagnarsi la vita con lavori saltuari quando non poterono più esercitare il brigantaggio (18).
Gli artigiani urbani e i negozianti erano dappertutto organizzati in corporazioni (collegia) . Le corporazioni erano utili alle autorità e a quelle imperiali per l'esazione del chrysargyron o collatio lustralis, tassa in oro da versarsi ogni 5 anni, poi ogni 4, imposta da Costantino, e per l'imposizione di corvées e servizio obbligatorio di vario genere. Tra queste corvées, secondo Libanio, estremamente pesanti e ingrate erano la pulitura delle fogne e l'anastilosis delle colonne (19).
Queste categorie erano vessate dalle tasse: Libanio, in un opuscolo scritto non molto dopo il 387, anno di un grave tumulto ad Antiochia durante il quale la plebe disperata all'annuncio di una nuova imposta si sollevò e abbattè le statue con le immagini imperiali, dice: "...devo ora parlare di quello che sorpassa ogni altra cosa, cioèl'intollerabile tributo dell'argento e dell'oro, che fa tremare gli uomini all'arrivo dei temuti quinquennalia. Questa tassa ha un nome ingannevole derivato dai mercanti, ma essi possono fuggire per mare e chi soffre sono coloro i quali la fatica manuale dà appena il pane. Non sfuggono neppure i ciabattini. Li ho visti spesso buttare le lesine per aria giurando che era tutto quello che avevano. Ma questo non li salva dagli esattori, che ringhiano contro di loro e quasi li mordono. Questo, maestà, accresce la schiavitù, privando della libertà quelli che sono venduti dai genitori, non per incassare il prezzo, ma per vederlo andare nelle mani dell'esattore. " (Or. 46,22-3).
Si aggiunga l'analoga testimonianza di Zosimo nel V secolo: "...Fu Costantino che impose la tassa dell'oro e dell'argento a tutti coloro che esercitavano il commercio, perfino ai negozianti di generi vari nelle città, anche ai più poveri, senza neppure esentare le misere prostitute da questa tassa. Così potevate vedere, quando il quarto anno si avvicinava, quando questa tassa doveva essere pagata, gemiti e lamenti in ogni città, e quando veniva, fustigazioni e torture inflitte ai corpi di coloro che per l'estrema povertà non potevano sopportare la perdita. E allora le madri vendevano i figli e i padri prostituivano le figlie, obbligati a pagare gli esattori del chrysargyron con il denaro così guadagnato". (Zos.,II, 38). Questa tassa terribile sarà abolita dall'imperatore Anastasio, nel 498, con grande sollievo di umili artigiani e mercanti.
Ancora Libanio ci attesta l'estrema miseria degli artigiani di Antiochia, pur città ricca per lo standard dell'epoca, le loro abitazioni erano miserabili, alcuni erano così poveri che venivano rovinati dal costo per ridipingere la loro piccola officina (20).
Non mancavano nelle città le grandi manifatture di stato, fabricae, in occidente 20 e in oriente 15 (Notitia Dignitatum), che nell'impero tardoromano furono create con lo scopo di sovvenire alle difficoltà di rifornire lo stato, soprattutto l'esercito, dei necessari prodotti artigianali (scudi, archi, frecce, uniformi). Vi lavoravano operai liberi, schiavi e anche detenuti. Naturalmente vennero organizzati collegialmente sia i lavoratori delle varie fabbriche che gli artigiani e i commercianti coll'imposizione dell'ereditarietà del mestiere per controllarne la pericolosità e nello stesso tempo la mobilità sociale (21).
Ma non si comprende veramente cosa significhi essere humilior nel tardo impero se non si considera, come lo studio della E. Patlagean ha messo in evidenza almeno per la parte orientale dell'impero, la stretta relazione esistente tra malattia e povertà (22).
Nel Cod. Iust.,I, 3,48, povero per eccellenza è definito colui che afflitto contemporaneamente da indigenza e malattia non è in grado di provvedere al proprio sostentamento. L'analisi della studiosa apre scenari di tormentosa miseria: ciechi, sordi, muti, paralitici, malati di sifilide e, nel caso più grave, di lebbra, si aggirano mendichi per campagne spopolate e per città morte. Esiste un nesso stretto fra denutrizione o mal nutrizione (dieta a base di solo frumento o legumi - cicerchie - che portano alla mancanza di alcune vitamine fondamentali come la "A" e quelle del gruppo "B") e la insorgenza e la diffusione delle malattie prima citate, le cui guarigioni miracolose infarciscono le agiografie di V e VI secolo. Le malattie mentali, spesso interpretate come casi di possessione, non portavano ad una totale infermità e spesso caratterizzavano i lavori saltuari e umili che definiscono la povertà, come garzone in un bagno o cameriere in una bettola.23
Secondo Ammiano Marcellino, c'erano a Roma persone talmente povere che passavano la notte non sotto un tetto proprio ma in taverne ed edifici pubblici (turba imae sortis et paupertinae quorum in tabernis aliqui pernoctant vinariis, Amm. XIV,6,25) e ovunque si potevano vedere masse di mendicanti malati.
Per effetto di un circolo vizioso il mendicante è vittima prediletta della malattia perché denutrito, la denutrizione è conseguenza della disoccupazione cronica: la malattia esclude il povero dal lavoro rendendolo mendico. In un editto del 382 l'imperatore Graziano ordina che siano cacciati da Roma i disoccupati (Constitutio de Mendicantibus non invalidis) per diminuire i beneficiari delle frumentationes; "per questo", ci dice Ammiano XIV, 6,19, "vennero cacciati anche i pellegrini, a causa della alimentorum inopia".
È importante a questo proposito ricordare cher i beneficiari delle frumentationes a Roma erano assai numerosi, 250.000 circa (Ammiano, ibidem) rispetto alla effettiva disponibilità di grano, inoltre l'evergetismo romano divideva i poveri in due categorie: quelli meritevoli, rispettabili, e quelli immeritevoli, feccia (faex).
Ciò, ideologicamente, isolava i veri poveri. Le distribuzioni di frumento erano destinate solo a quelli di loro che potevano dimostrare i propri meriti - e abbiamo già segnalato il senso più frequente in cui veniva intesa questa parola, pag. 4 - conseguiti attraverso prestazione di servizi pubblici, qualora non fossero nati da genitori liberi. Essi venivano in qualche modo distinti dalla plebs infima che non aveva alcun tipo di inquadramento sociale; cioè dai derelitti che vivevano mendicando .
Lo spaventoso numero dei poveri nelle città, dovuto al fenomeno citato dello spopolamento delle campagne , si associava ad una potenzialità rovinosa e turbolenta, come abbiamo visto, per disoccupazione cronica, quindi fame, precarie condizioni igieniche, malattie. In qualche modo si cercava di arginare la loro pericolosità dividendoli, ad es., in meritevoli e immeritevoli, oppure organizzando, tramite la cristallizzazione dei collegia, in forme istituzionalizzate, la solidarietà al loro interno. Esistevano gli amici costruttori (amici subaediani) ad es., o i fratelli carpentieri (fabri fratres); il rafforzarsi dell'istituto del patronato dei collegia a protezione del proprio seguito di clientes, allargava per i ricchi le occasioni di evergetismo (doni e pasti distribuiti gratuitamente) ma nello stesso tempo di controllo sociale e, all'occorrenza, di mobilitazione politica.
Esisteva dunque una differenziata condizione di povertà, che vedeva al suo interno da un lato i piccoli commercianti e artigiani che rovinati dalla politica aurea di Costantino, non riuscivano più a sopportare il peso della tassazione, dall'altro una massa di derelitti, diseredati, affamati, ammalati, che sopravvivevano di espedienti e di elemosina. Di questi ultimi lo stato romano non si occupò mai se non nei termini di un bubbone strutturale alla società (24).
Le gravi tensioni erano manifestate dai continui disordini sociali all'interno delle città. A Roma, ne sono attestate diverse - solo negli anni '50 del IV sec. ce ne furono tre - e scoppiarono per i più svariati motivi, ma soprattutto per la mancanza di grano e vino a causa di cattivi raccolti, difficoltà nei trasporti, conflitti politici, corruzione dilagante. Ne sono attestate a Tessalonica, per l'arresto di un auriga, a Cesarea di Cappadocia per la decisione dell'imperatore Valente di deporre il vescovo Basilio, ad Antiochia per il comunicato aumento delle tasse.
La povertà di vaste masse popolari emergeva così come eruzione vulcanica, sotto la crosta della brutale oppressione imperiale.
seconda parte
note
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