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Sulla vocazione all'erranza
Mario Amato
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Costretto a rimanere a casa, non ho trascurato la mia vocazione all’erranza.
In questo periodo ho compreso la profondità del verso del nostro amato J. L. Borges che recita “Il mio orgoglio non è nei libri che ho scritto ma in quelli che ho letto”. Come per l’immortalità di Kafka basterebbe il racconto “Un messaggio dell’imperatore”, così sarebbe sufficiente questo verso per affermare che esso è foriero di pensieri.
L’erranza della quale ti parlavo all’inizio della lettera è quella dei libri e fra i libri. Posso affermare di aver viaggiato in questo periodo, nonostante fossi seduto in poltrona accanto al camino, con l’unico rumore della legna che ardeva. Ed ho viaggiato non solo attraverso luoghi, ma anche attraverso il tempo!
Nel primo viaggio mi sono trovato a Budapest nel 1956 durante la rivolta contro l’Unione Sovietica, grazie al libro di Viktor Sebstyen edito da Rizzoli intitolato “Budapest 1956 la prima rivolta contro l’impero sovietico”. Mi sono trovato per le strade di Budapest insieme a giovani, spesso adolescenti, e vecchi con cui ho condiviso speranze di libertà. Senza quella rivolta, che solo in apparenza fu sconfitta, non ci sarebbe stata la Primavera di Praga né Solidarnoć.
Sono stato davvero a Budapest nel 1986, quando di quella rivolta non si parlava o non si poteva parlare. È stato perciò più facile “vedere” la città ferita dai carri armati.
Riconciliazione
I libri suscitano pensieri e memorie ed il mio ricordo di Budapest del 1986 è quello di una città serena (forse apparentemente) e festosa, che ama la buona cucina e la musica popolare, è l’odore di gulasć ed il sapore forte di paprika.
Per associazione la mente è andata a Heidelberg dove mi riconciliai con le cipolle. Avevo camminato per quaranta chilometri, recandomi a Mannheim e tornando all’imbrunire a Heidelberg, tanto cara a Hölderlin che le dedicava un inno che così inizia “Da lungo tempo ti amo, te la più paesana di quante vidi città della patria”, e come puoi immaginare ero affamato. Vicino al Ponte Vecchio – “sul ponte mi prese l’incanto” continua Hölderlin- sedetti, spossato per il cammino ma felice, in una birreria contemplando il fiume, ascoltando il brusio dell’ora. Chiesi al cameriere- un collega a quei tempi – quale piatto si potesse ordinare e la mia delusione fu grande ascoltando che l’unica pietanza pronta era la zuppa di cipolle. Proprio in qual momento però un altro cameriere serviva tale zuppa al tavolo vicino dove sedevano due coppie. Dalla zuppiera mi giunse un aroma che acuì il mio appetito, per la qual cosa ordinai a malincuore quel piatto. Mentre aspettavo sorseggiavo una buona e amara birra – “e della birra mi godo l’amaro” recita un verso di Umberto Saba – mi fu servita la zuppa. Ed era una zuppiera per quattro! Le cipolle erano solo la base del piatto, perché esso era arricchito con piselli, fagioli, lenticchie ed erbe di montagna, più pane nero abbrustolito e carne di maiale cotta alla brace e ripassata in vino Riesling, tipico della zona. Inutile dire che lasciai pulita la zuppiera.
Rimpatrio
Chiusa l’ultima pagina del libro su Budapest mi venne il desiderio di abbandonarmi alla narrazione pura. Quale migliore lettura di Charles Dickens! Mi immersi allora nella lettura di “Oliver Twist”; ho sofferto insieme ad Oliver per la fame e le percosse subite nell’orfanotrofio, per le strade di sordidi quartieri di Londra, per l’infamia dell’infanzia oltraggiata e sfruttata da individui senza scrupoli e senza rispetto. È vero che i libri di Dickens hanno sempre una fine lieta, ma credo siano ancora attuali, perché la piaga dell’infanzia offesa e resa schiava in nome del profitto non è ancora debellata, anzi forse questa vergogna è aumentata sia nel numero di bambini fatti schiavi sia nella qualità della violenza.
Pausa
Viaggiare stanca ed il desiderio del riposo mi ha assalito, come durante una notte in una cittadina della quale non ricordo il nome. Mi sedetti sui gradini della cattedrale contemplando la piazza deserta, ascoltando il respiro del vento, il mormorio del fiume sapiente di mille storie. E la luce lunare si posava sui gradini come la mano di un pianista sulla tastiera bianca e nera.
Riposo sì, ma sempre errante. Sulla scrivania giaceva da tempo un libro rosso intitolato “La psicologia del giocatore di scacchi” di Reuben Fine (Adelphi). Il piccolo volume è appassionante, anche perché lo stesso Fine è stato candidato al titolo campione mondiale di scacchi. Nella prima parte tuttavia l’autore esamina il gioco degli scacchi con schemi freudiani e si ha l’impressione di affermazioni scontate: sconfiggere il Re avversario come desiderio di uccidere il padre, difendere a tutti i costi la propria regina come complesso edipico, giocare a scacchi come sostituzione del desiderio omosessuale. Per fortuna nella seconda parte Fine esamina alcuni campioni di scacchi soprattutto per la loro tattica di gioco, anche se è molto interessante il comportamento di Steinitz, il quale dopo il ritiro in stati allucinatori giocava a scacchi con Dio concedendo il vantaggio di un pedone e del tratto (della prima mossa). Un piccolo biasimo all’autore è quello di non nominare Else Lasker-Schuler, la grande poetessa espressionista, ma semplicemente di accennare che Lasker, campione mondiale di scacchi, aveva sposato una scrittrice tedesca. Interessante è il capitolo dedicato a Robert Fischer ed alle ragioni della sua ascesa ad eroe popolare, unico caso nel gioco degli scacchi.
Nuova partenza
Si deve però sempre ripartire. Ed allora eccomi nella Spagna di Don Chisciotte e Sancho Panza attraverso il libro di Martin de Riquer “Don Chisciotte e Cervantes” (Einaudi). La tesi di Martin de Riquer è discutibile, poiché egli attribuisce al capolavoro di Cervantes soprattutto il compito ed il merito (?) di aver sancito la fine della letteratura cavalleresca. Mi pare riduttiva questa interpretazione, e del resto se pure Cervantes si fosse prefisso unicamente tale scopo – cosa che non credo -, è pur vero che i libri possono oltrepassare le intenzioni degli stessi autori. Sono tuttavia convinto che Cervantes assegnasse ben altri compiti al suo autore e che la scelta di Don Chisciotte di vivere in un mondo di fantasia sia del tutto consapevole e sia un rifiuto alla banalità ed alla crudeltà della vita. In questa mia convinzione sono in buona compagnia, per esempio con Dostoevskij, che afferma “Se Dio avesse affidato all’uomo il compito di comprendere la vita, questi, una volta giunto al suo cospetto, alla domanda se avesse o meno portato a termine la sua missione, potrebbe in silenzio porgere il Don Chisciotte”.
Verso Est
Non sono mai stato convinto che i premi letterari vengano assegnati sempre a grandi scrittori e spesso ne diffido, ma a volte la curiosità è grande. Sono andato perciò in Turchia con il libro di Orhan Pamuk “Il castello bianco” (Einaudi), storia che riprende il tema del sosia e si rifà a Hofmann ed a Dostoevskij. La storia è anche un tentativo di comprendere le affinità e le diversità tra cultura occidentale ed islamica. La storia si svolge nel 1600 poco prima della battaglia di Lepanto. Sono notevoli le pagine in cui viene descritta la peste ad Istanbul e la reazione diversa dei mussulmani e dei cristiani. Belle anche le descrizioni del Bosforo e del Corno d’Oro.
Occidente terribile
Ora mi sto dedicando alla lettura attenta di un libro su un popolo dimenticato, sugli indiani del Nord-America, quegli indiani che tanto amavamo da bambini (Gli indiani del Nord America, gli uomini dalla pelle rossa). Il libro è diviso in Storia, Famiglia, Società, Fratelli animali, Sorelle piante.
In margine a molte pagine vi sono poesie e preghiere di varie tribù indiane o frasi di indiani. A queste culture si dovrebbe guardare più attentamente, perché da esse abbiamo molto da imparare.
4 dicembre 2006
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