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Cenone di Natale
Mario Amato
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Non c’era dubbio, era proprio la sera della vigilia di Natale. Era Natale in tutte le città, in tutti i paesi, in tutti i villaggi della nazione. Ovunque splendevano le luci sugli alberi, ovunque i pastori di legno stavano fermi e felici nei presepi, ovunque la gente s’incontrava e si salutava entro le case e da tutte le cucine esalavano aromi invitanti. Era dunque la festa dell’anno, la festa che invita alla bontà ed alla pace.
I bambini aspettavano di assaggiare le leccornie preparate dalle mamme e dalle nonne e poi di dormire e risvegliarsi all’alba per gioire degli immancabili doni portati, come ogni notte di Natale, da Babbo Natale.
In un luogo di una città, anch’essa splendente di riverberi e risonante di canti e di grida gioiose, null’altro v’era che silenzio, penombra e tristezza. Là, sotto un ponte, un uomo stava assorto, muto e –ahimé- affamato. Dall’alba del giorno precedente masticava una castagna! Sì, una sola castagna, perché una volta aveva letto su un libro che masticando una castagna si poteva immaginare il sapore di tutte le pietanze esistenti. Ora tuttavia era stanco di immaginare e la fame non era passata, anzi quelle fantasie avevano acuito il vuoto del suo stomaco e sfiancato la sua capacità di sopportazione. Egli non aveva parenti e non aveva il coraggio di mendicare, sebbene sapesse che in quel giorno – era proprio la sera della vigilia di Natale- tutti si sentivano buoni. Non mendicava, perché si sarebbe sentito umiliato nella sua dignità, ma soprattutto si sentiva offeso dalla solitudine. Vicino a lui non c’era nessuno; anche gli altri che vivevano sotto i ponti avevano qualche luogo dove andare; per lui l’unica compagnia in quella sera - era proprio la sera della vigilia di Natale – era il mormorio dolcemente triste del fluire delle acque del fiume. Quante volte aveva parlato al fiume! Quante speranze aveva affidato all’eterno scorrere del corso d’acqua! Il fiume era il suo amico più caro; sì, egli amava i fiumi.
Il mare è certo affascinante, immenso e misterioso, ma è anche pauroso; le sue onde possono ingoiare qualsiasi imbarcazione, anche quella che sembra la più sicura.
I fiumi invece sono quasi sempre dolci e sulle cartine geografiche paiono vene ed arterie di un corpo, sembrano la linfa vitale della terra. E poi egli era un viandante e si può costeggiare un fiume, attraversare ponti, parlare lingue diverse accomunate soltanto dalla presenza dello stesso fiume, giungere in paesi e città. È vero, ogni tanto anche i fiumi accendono la loro ira e sommergono le case, ma soltanto allorché gli uomini li offendono; in genere però i fiumi sono benevoli. Esistono popoli che chiamano padre o madre i fiumi, perché essi rendono fertile la terra, come una benedizione parentale. Un tempo nelle acque dei fiumi, a sera o nella luce dell’aurora, volteggiavano ondine e naiadi. L’uomo aveva costeggiato molti fiumi, senza meta, sapendo soltanto che sarebbe giunto in un paese o in una città, ed a volte, fra le ombre dell’imbrunire o nella luce accecante dell’aurora, gli era sembrato di vedere fra i riflessi nell’acqua visi sorridenti di fanciulle. Era forse stata la stanchezza del cammino o la fantasia di un sognatore.
Avea costeggiato molti fiumi; a volte aveva seguito il corso di un fiume fino a vedere il mare ove le acque sfociano e vengono accolte come ospiti graditi; altre volte aveva camminato risalendo la corrente fino ai monti ove la sorgente altro non è che un piccolo rivolo.
Ed i ponti aveva amato, i ponti che uniscono esseri che prima erano divisi; ponti di legno o di pietra, che avvicinano coloro che parlano lingue diverse, che favoriscono incontri e scambi di merci. Quante vivande passano da una terra all’altra grazie ai ponti! Vivande, modi di cucinare! I morsi della fame non lo abbandonavano. Il pensiero tornava sempre al cibo che in quell’ora ed in quella sera - era proprio la sera della vigilia di Natale – mancava; continuava a masticare quell’unica castagna dalla quale giungevano sapori di un tempo remoto e perfino aromi che si propagavano nell’aria attorno a lui. Forse quelle fragranze pervenivano da qualche finestra aperta nelle vicinanze? Forse erano rimaste nell’aria da qualche cesto appeso al braccio di qualche donna? Egli sentiva perfino il tintinnio delle posate ed il rumore che producevano nei piatti. No! Non c’era nessuna finestra aperta, poiché il freddo pungeva ed i primi fiocchi di neve cominciavano lentamente a cadere. Solo il mormorio dell’eterno scorrere del fiume era vero, ma in quella sera - era proprio la sera della vigilia di Natale – esso non era il confidente di sempre e, nonostante le luci scintillanti dei lampioni e quelle provenienti dalle finestre delle case si riflettessero allegre e giocose nell’acqua, il corso d’acqua gli pareva nero e tenebroso. Non apparivano naiadi e ninfe, ma soltanto un fosco vuoto.
Stava rannicchiato ad un angolo del ponte e pensava a tutte queste cose; allora s’alzò, si guardò intorno, ascoltò il rumore dell’acqua, qualche voce lontana che giungeva da un’abitazione, una musica lieve che arrivava da un’altra casa.
Non temete! Egli non andò verso il fiume, ma salì fino alle strada e s’incamminò per le strade deserte della cittadina.
Ora sì! i profumi dei cibi ben cucinati, le musiche, i brusii festosi dei banchettanti, le grida gioiose dei bambini, erano veri e non più frutto della sua fervida immaginazione.
La fame si faceva sempre più insopportabile, la neve aveva coperto di bianco tutte le strade, il corpo si piegava e le gambe camminavano sempre più lentamente.
Un’idea folle attraversò la sua mente: bussare ad una porta, chiedere null’altro che un pezzo di pane. Porte e portoni erano ormai tutte chiuse, gli ospiti sedevano sicuramente lietamente a tavola, mangiavano, brindavano con il vino buono delle feste, forse conservato da un avo, e chiacchieravano; di certo nei camini ardevano caldi fuochi e dopo la prelibata cena una mamma o una nonna avrebbe narrato una fiaba ai bambini per distrarle dall’attesa dei doni. Anche a lui da bambino qualcuno aveva narrato fiabe nella notte di Natale, ma quel tempo pareva distante secoli, eppure egli ricordava tutte le fiabe ascoltate e forse credeva ancora in esse.
Camminava senza meta in una parte della cittadina che non conosceva, fra vie ampie ed antichi signorili palazzi. Dai portoni pendevano immobili i batacchi e spesso la sua mano li sfiorò, ma sembravano essere incandescenti ed inafferrabili, sebbene essi fossero già coperti di ghiaccio.
Ora intorno a lui non c’erano più palazzi, forse era uscito dalla città; ai suoi lati s’ergevano alberi altissimi, ma non era in un bosco, bensì in un ampio viale.
Era entrato in un giardino, in un ampio giardino, senza avvedersi di aver oltrepassato un cancello. In fondo sfavillavano luci, s’udiva una musica dolcissima, e finalmente gli apparve un palazzo, quanto grande non avrebbe saputo dire; alla parte stavano due guardie armate ed impettite. Comprese! Era entrato nel palazzo reale!
Fu visto ed una guardia gridò verso di lui, ma egli camminava in un sogno, un sogno freddo e affamato, e continuò a camminare verso la porta. Le guardie misero mano alle armi, ma in quello stesso momento il Re – proprio il Re – s’era affacciato alla finestra e aveva visto la scena.
Il Re scese in fretta le scale e trovò i soldati che interrogavano il povero viandante, il quale rispondeva soltanto dichiarando la propria fame.
Il Re non voleva che in quella notte -era proprio la sera della vigilia di Natale– qualcuno soffrisse nella sua terra ed ebbe la bontà e la cortesia di condurre il nuovo inatteso ospite nella sala del banchetto.
Da quella sera, in quella terra, nessuno soffre più la fame e se vi capitasse di trovarvi da quelle parti nella sera di Natale, soli ed affamati, non abbiate paura di bussare ad una porta, fosse pure il portone del Re.
maggio 2006
in narrativa:       |
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