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Taylorismo e pedagogia scientifica
Antonio Limonciello
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Quando entrai in classe il primo giorno da insegnante, nonostante avessi vinto un concorso non sapevo cosa fare. Il preside mi aveva consegnato un registro e un bidello mi accompagnò al piano delle aule.
A quei tempi non c'erano gli organi collegiali, il collegio si riuniva all'inizio dell'anno e a maggio (assunto a dicembre mi ero perso la prima riunione), i consigli di classe si incontravano 3 volte per dettare i voti al preside che li trascriveva direttamente su un registrone. Il preside controllando i voti proponeva chi bocciare, chi rimandare a settembre e chi promuovere, proponeva, però, su sei classi che avevo, ricordo che una sola insegnante tentò di opporsi a una bocciatura.
Tutto qua.
Non sapevo a chi rivolgermi per chiedere cosa dovevo fare, non c'era nessun luogo dove poter consultare il curricolo scolastico degli alunni, non sapevo cosa stessero facendo gli altri colleghi, alcuni non li conobbi mai.
Le nozioni che dovevo trasmettere erano frutto dello studio, ma come insegnare me lo sono dovuto inventare.
Neanche io volevo insegnare, accettai quel posto per necessità ripromettendomi di trovare il mio vero lavoro nel giro di 2 anni.
Poi conobbi un insegnante siciliano che mi portò a un doposcuola di volontari gestito da un prete, più in là un alunno mi portò in un altro doposcuola che si teneva nella sezione del PCI di un quartiere popolare.
Scoprii la scuola in queste 2 esperienze, decisi che ci sarei rimasto.
Ora sono vicino alla pensione e mi trovo a fare bilanci.
Ci ho messo almeno 10 anni per diventare un insegnante, partii col trasferire nella scuola ciò che apprendevo fuori di essa, finii col lottare perché la scuola avesse in se gli strumenti e le condizioni di libertà per sperimentare e creare innovazione e accesso.
Dunque, come Anna ricordava, ci sentivamo impegnati perché la scuola pubblica offrisse le pari opportunità per tutti gli studenti, e la libertà per tutte le visioni pedagogiche agli insegnanti.
Anna Pizzuti scrive che non riconosce quella scuola, la sua scuola, come taylorista, e non accetta che sia così definita.
Forse ho creato confusione, la scuola fino alla prima metà degli anni 70 non era taylorista, per un verso era più arretrata e per un altro era oltre il taylorismo.
Ancora, non si trova nella storia della scuola e della pedagogia una linea taylorista, sono io a creare un corrispettivo tra il taylorismo, inteso come analisi scientifica dei tempi e dei modi di lavorare per raggiungere l'ottimizzazione dei risultati e la pedagogia scientifica.
Io riconosco nella pedagogia scientifica la traduzione delle domande e delle risposte che all'inizio del XX secolo il taylorismo diede all'organizzazione del lavoro nell'industria.
E questo non ha nulla a che fare con quelli che si opposero a Berlinguer confondendo aziendalizzazione della scuola con taylorismo, manco a dire che tutte le aziende hanno un'organizzazione del lavoro taylorista, manco a dire che dopo la morte del taylorismo aziendale (anni 80), stavamo vivendo una resurrezione nella sua versione scolastica.
Mah!
Purtroppo quando ci si vuole opporre a qualcosa non si sta a badare al capello, l'importante è che uno sia contro, questo accadde per la riforma di Berlinguer e accade ora per quella della Moratti.
Ma tornando a noi, perché la nostra generazione ad un certo punto abbracciò "la pedagogia taylorista"?
Per la duplice azione dell'esterno e del dentro di noi.
La società degli anni 70 era alla ricerca di un'efficienza necessaria alla nascente competizione multinazionale, quindi già poneva pressanti domande sulla funzione della scuola e il suo rapporto con il mondo della produzione.
Il "nostro movimento", spalleggiato dall'avanguardia operaia di quegli anni, rispose con la scuola "per la vita e per il cittadino".
Nel 1972 il contratto dei metalmeccanici ottenne il diritto allo studio in orario di lavoro, le 150 ore. Le tesi per quella lotta presentate su Consigli, il mensile dell'FLM, portava in copertina un pianoforte, come dire: a scuola ci andiamo per noi stessi, per la cultura personale, non per essere dei lavoratori meglio sfruttati.
Il primo contratto degli insegnanti, 1973, con stato giuridico, partecipazione e democrazia scolastica, fu anche il frutto della grande stagione di democrazia in fabbrica, i Consigli, lo Statuto dei Lavoratori, .... i cittadini si riprendevano il proprio destino, non erano disposti a delegare, per questo avevano bisogno di cultura, di un'altra cultura.
Tutto questo resse però solo fino a metà degli anni 70, dopo vennero la prima crisi del petrolio e la ristrutturazione internazionale del mercato del lavoro che misero in difficoltà tutti coloro che si rifiutavano di misurarsi con le "compatibilità economiche del sistema paese".
Come dire: diventate adulti e prendetevi le vostre responsabilità, non potete danzare felici mentre il mondo crolla (già, c'è sempre un crollo imminente da qualche parte).
Ma ci fu una ragione anche dentro di noi: la delusione per la mancata rivoluzione, non perché non si era fatta quella politica ma perché avevamo vissuto sulla nostra pelle quanto fosse difficile essere veramente rivoluzionari, quanto fosse difficile cambiare all'unisono "come corpo sociale e come individui".
Nello specifico, come insegnanti sentivamo che dopo un anno di scuola fatto con la metodologia della "ricerca" (ricordate "Ricerca come antipedagogia" e "A scuola dei laboratori" di Francesco de Bartolomeis?) stringi stringi rimaneva troppo poco, che i lavori di gruppo non risolvevano i problemi della crescita degli studenti in difficoltà e che viceversa rallentava il processo dei migliori.
Senza renderci conto ci stavamo ponendo domande tayloriste: usiamo bene il tempo scuola? Cosa hanno appreso in un anno di scuola? Non abbiamo il dovere di organizzarli, predisporli, invogliarli a dare il massimo? E se non sono bravi ad affrontare il mercato del lavoro, dunque sono scartati dalla società, non abbiamo recato loro un danno?
Piano piano ci ritrovammo a passare dall'analisi dei "bisogni" per programmare l'intervento didattico al trovare "l'astuzia per interessare" gli alunni verso i contenuti che la società, il governo, i vari poteri, in qualche modo, ci facevano arrivare, passammo dalla "centralità della metodogia" alla centralità degli obiettivi, e da questa alle centralità dei "contenuti", passammo dalla centralità dell'osservazione dell'azione degli studenti, alle centralità della misurazione oggettiva dei progressi, dalla libertà delle programmazioni a livello di Consiglio di Classe agli standard di istituto, da questi a quelli della nazione, anzi patria.
Io ci sono scivolato per progressione continua, come necessità di essere adulto consapevole e responsabile, che vuole dire rinunciare al sogno per costruire il costruibile, mi sono ritrovato a dare tutte le mie energie a progettare Unità Didattiche, testare la validità della progettazione didattica, testare la validità dei test stessi, analizzare su base statistica i risultati raggiunti, oggettivare linguaggi per rendere esportabile l'esperienza, standardizzare le procedure, ....... e vai sempre più in un orgia che senza rendermi conto percorreva la ricerca che Taylor conduceva in fonderia, lui alla ricerca "della giusta giornata di lavoro" ed io alla ottimizzazione del mio agire per avere la migliore risposta possibile dai miei allievi, cioè senza rendermi conto mi ero fatto strumento al servizio del sistema.
Taylor, pagato dal suo datore di lavoro, aveva scelto coscientemente da che parte stare, faceva gli interessi del suo datore di lavoro, non certo degli operai, ai quali, secondo lui avrebbe assicurato un trattamento economico "scientificamente corrispondente a quanto avevano dato".
Ed io?
La mia coscienza era che stavo operando per il bene dei miei alunni e della scuola pubblica, un bene di tutti, ma a cosa stavo rinunciando per me? E che danno stavo facendo agli alunni?
Certo, c'era la pressione delle famiglie, ma soprattutto c'era la velocità delle scoperte e dei cambiamenti sociali.
Fuori tutto aveva preso a correre e la scuola non era in grado di seguire, cioè diventava sempre meno utile, sempre meno capace di fornire gli strumenti per essere soggetti della società.
Davanti a questo palese processo di impotenza reagii con lo sforzo dell'ottimizzazione, cioè mi misi a correre anch'io, e pretesi la stessa corsa dai miei alunni.
Già negli anni ‘90 avevo capito che quella corsa era disperata e persa, ciò nonostante mi sembrò giusto provare l'ultimo tentativo, cioè il passaggio alla centralità dei modelli esemplificativi della scuola di Berlinguer, una scuola sì dentro le compatibilità economiche ma che si poneva l'obiettivo di riconquistare la centralità nei processi formativi.
Come era prevedibile, fallito il tentativo di ulteriore razionalizzazione di Berlinguer, siamo passati all'accettazione dell'impotenza della scuola e dunque all'inizio del suo smantellamento.
Ecco dunque le forche caudine che ci hanno cucinato: correre sempre di più oppure accettare come inevitabile il riduzionismo e dunque il progressivo smantellamento (leggi Moratti)?
Sì, oggi si dice passare dalla centralità del processo didattico (le UD) alla centralità dello studente (le UA), non vi fate ingannare, sono la stessa cosa, nessuno rispetta veramente lo studente, tutte e 2 si pongono il problema della ottimizzazione dell'uso delle risorse disponibili rispetto ai risultati da raggiungere. Lo studente rimane un oggetto da modellare e condurre verso una finalizzazione che prescinde dalle sue specificità.
Possibile che non ci sia un'altra strada?
Ed è possibile sperimentarla dentro le nostre scuole?
23 aprile 2005
in scuola "extra moenia": |
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