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L'età dell'innocenza
Anna Pizzuti
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Antonio Limonciello pone le questioni:
Oggi cosa succede di insostituibile nelle nostre scuole, ovvero, possiamo dire che la scuola è indispensabile?
La scuola aiuta a realizzare sogni?
La scuola fornisce speranza nel futuro?
La scuola fa vivere emozioni che segnano la crescita di una persona?
Cosa ci viene a fare un giovane a scuola?
Spero di avere il tempo di sottoporre queste domande ai miei alunni, anche se, in realtà, posso già immaginare - conoscendoli - quali sarebbero le loro risposte.
Quelli di prima risponderanno tutti di sì (tranne forse qualcuno già "smagato"), mentre in quinta mi aspetterei la tendenza a risposte negative.
Se c'è un senso - e sicuramente c'è - nelle domande di Antonio, ma anche ai problemi/proposte che pone in discussione nell'altro intervento, la sua prima radice la ritrovo proprio in questa divaricazione che ho sperimentando sempre più spesso in questi ultimi anni.
Uno si immagina, ingenuamente “accumulativo”, che se la scuola è il luogo in cui si cresce, alla fine devi chiudere un circolo virtuoso, non ritrovarti solo con la sensazione di aver perso tempo. Oppure, se si è - altrettanto ingenuamente "progressivi" - si immagina che libertà, speranza e desiderio si formino e si diano strumenti, nella scuola, proporzionati alla quantità di tempo e di impegno e di esperienza che, mano a mano, si stratifica.
E potrei anche continuare, di immaginazione in immaginazione, ma mi rendo conto che, così facendo, finirei per parlare più dei miei, di sogni, e delle mie, di emozioni, e in definitiva, della mia, di crescita. Che sicuramente è anche uno dei dati del problema posto da Antonio (se non desidera, sogna, immagina, se non prova emozione l'insegnante, non credo possa darsi scuola) ma che non serve, ora, per rispondere alle sue domande.
Se l'ho già detto mi scuso, ma mi torna utile ripeterlo: io sono diventata insegnante per caso; quel "caso" che assegnava - ai miei tempi - questo mestiere alla donna, come rispecchiamento naturale della sua funzione di "cura". Ed ho scoperto molto presto che non è stata affatto la scuola ad insegnarmi quel poco di scuola che so fare o che tento di fare.
Se qualcosa ho imparato, è stato in altri luoghi, grazie ad altre esperienze (l'esperienza: quanto ne dovremmo parlare in contrapposizione alle alternanze morattiane) e ad altri incontri. Sarei la dimostrazione, la nostra generazione di insegnanti sarebbe la dimostrazione, della assoluta verità di quanto la scuola possa essere inutile o sostituibile.
Vorrei evitare il rischio del nostalgico "ai miei tempi, però le esperienze erano ..... " oppure quello, speculare dell' "invece guarda oggi quali sono i modelli e le esperienze....." perché sappiamo tutti che non è così e che ai tempi nostri c'era sicuramente qualcuno che sosteneva esattamente la stessa cosa e perché demonizzare quello che ci circonda oggi è assolutamente stupido, se non impossibile, data la sua natura complessa ed "indominabile" o meglio - dato che anche noi siamo "oggi" come tutto il resto.
È il moralismo che, insieme alla nostalgia, vorrei evitare. E venire al punto. Che, secondo me, è il bisogno di conservazione della natura di soggetto sia all'insegnate che allo studente.
Mi rendo conto che già questi termini mi pongono "dentro", mentre qui si sta cercando un "fuori", ma non siamo alla fine del discorso, siamo all'inizio, quindi ciascuno parte da dove sente di trovarsi e arriva fin dove può o sa.
L'essere soggetto, per l'insegnate che vogliamo essere ora come lo volevamo allora, è sicuramente cercare il luogo di elaborazione fuori della scuola, così come allora facevamo e non sto a ripetere come. Cercare o creare. Per decidere poi se questa elaborazione va usata per modificare o prende una strada propria.
In altri tempi la domanda non ce la ponevamo affatto. Era naturale che Barbiana, o Rho (vi ricordate Mario Lodi? "C'è speranza, se questo accade a Rho") - nella loro irripetibilità - ci dessero la speranza che quello che là era accaduto potesse accadere anche nelle nostre aule.
Non ho citato a caso Barbiana e Rho; li ho citati come esempio di fuori e di dentro. Speculari, non divergenti. Del resto era a me professoressa o al maestro Mario Lodi che gli alunni di Don Milani scrivevano ed era da me professoressa e dal maestro che si aspettavano una risposta e non a parole. L'impegno di allora era quello di darla, questa risposta. E non era certo facile. Anche per noi che eravamo "doppi". Noi che al mattino lavoravamo con i nostri alunni ed al pomeriggio eravamo insieme agli alunni di altri, nei "doposcuola democratici" i cui esiti - almeno nel mio - non ci veniva in mente di andare a controllare (non monitoravamo, si direbbe oggi).
Non era facile, ma aveva un senso che stava nella convinzione di servire a cambiare ed a cambiare secondo quanto volevamo noi, la scuola. Che ci accettava o respingeva o, in molti casi, puniva (vecchie memorie: "La pelle dei professori" un altro testo fondamentale di quegli anni, nei quali la parola mobbing era sconosciuta, ma la persecuzione esisteva, e pesante) ma che poi, gradualmente si modellava, e altro che diritto/dovere era allora: era diritto allo studio che si trasformava in leggi precise, solo per fare un esempio.
Soggetti ci sentivamo e soggetti finivamo per essere: in un'epoca in cui la divaricazione tra paese reale e paese legale si risolveva - in molti casi a favore del primo, più per fattori intrinseci che per passaggi politici.
Un'epoca in cui, comunque, l'insostituibilità della scuola non era messa affatto in discussione. Insieme alla sua funzione di liberazione che tendeva a far diventare soggetti gli alunni. Soggetti civili, politici, sociali, ma anche soggetti portatori di sogni, sia quelli realizzabili che quelli irrealizzabili, entrambi necessari.
Mi sto rendendo conto, mentre scrivo, che oggi ci troviamo di fronte a due tipi di conservatorismo: quello incarnato da noi nel quale mi situo - e del quale tu, Antonio, in qualche modo, individui i limiti - e quello che, per brevità, definirò "alla Mastrocola".
Il mio, di conservatorismo, lo accetto e, in qualche modo lo difendo; quello che mi riesce più difficile accettare è la definizione di taylorismo per la scuola che andavamo costruendo, accusa che in qualche modo anche la Mastrocola adombra, se ci pensiamo bene. Voglio dire che non riesco proprio ad individuare elementi di taylorismo, ad esempio, nella pratica dell'educazione linguistica, nelle dieci tesi per l'educazione linguistica democratica che furono il naturale sviluppo dell'esigenza di scardinare il potere che Don Milani faceva risiedere nel possesso della lingua e del linguaggio.
A pensarci bene, per traslato di tempi e di epoche e strumenti, dovremmo oggi scrivere le tesi per l'uso di internet democratico, l'uso della complessità democratica e così via. Ed è ancora la scuola che, secondo me, può e deve farlo.
Ma i ragazzi dentro la scuola non ci vogliono stare più. O, almeno, questa è l'impressione che circola e che in qualche modo, come dicevo all'inizio, verifico anche io. Il punto è, però, il modo in cui l'impressione o il dato oggettivo viene usato. Cosa ci costruiamo sopra e con quali fini. Ed a quali contaminazioni, soprattutto, lo assoggettiamo.
Alla domanda di Antonio:
Se il primo passo fosse (....) girare le strade del mondo, scoprirsi e raccontarsi nuovamente innocenti?
che sicuramente affascina, viene da rispondere con un'altra domanda:
E se, mentre io cerco e riscopro la mia innocenza lungo le strade del mondo, altri, sicuramente non innocenti, si appropriano di quel po' di innocenza collettiva, consapevole o inconsapevole che ancora resta di quello che abbiamo costruito?
20 aprile 2005
in scuola "extra moenia": |
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