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Lirica e narrazione
Mario Amato
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Gli aedi greci accompagnavano i loro racconti con la musica della lirica e nel medioevo i poeti provenzali leggevano le loro poesie d’amore al suono della musica, così come gli scaldr nordici avevano il sottofondo musicale per la narrazione delle gesta degli eroi e degli dei. L’ambiente conviviale favoriva l’afflato lirico, ma con la lettura silenziosa, che per necessità è anche solitaria, l’ispirazione poetica è più ardua da mantenere.
Spesso troviamo nei romanzi pagine di sublime poesia, ma il tono alto non sorregge la lunghezza del testo.
Thomas Mann era cosciente di tale realtà, poiché era un meticoloso romanziere: per la stesura de “La montagna incantata” consultò innumerevoli volumi di medicina e per il “Doktor Faust” studiò le teorie musicali di A. Schönberg.
Allorché lo scrittore di Lubecca, esule negli Stati Uniti, venne a sapere dei campi di sterminio nazista, pensò che era ormai impossibile una letteratura tedesca e si rivolse all’antica cultura medioevale, rielaborando una leggenda su Gregorio Magno[1]. Egli tuttavia non poteva guardare al germanesimo a causa dell’uso brutale che ne aveva fatto il nazismo; occorreva quindi una narrazione che avesse un argomento altamente edificante, nella quale s’incontrano male e bene. Tale è la storia del prescelto Gregorio.
Il narratore non può recuperare la convivialità della narrazione, eppure già dal primo capitolo ci avvediamo di un afflato lirico antico ed evocatore: a Roma tutte le campane suonano, ma nessuno tira le corde. Chi dunque suona le campane? È, dice il narratore, lo spirito della narrazione.
Chi poteva permettersi di narrare una leggenda dopo la tragedia che aveva sconvolto il mondo? Le città distrutte, l’orrore del genocidio, la fame, la responsabilità e l’impegno della ricostruzione non davano la libertà di abbandonarsi ai racconti. Solo l’antico spirito della narrazione può suonare le campane in segno di sommo gaudio! Il frate racconta, ma è una quarta voce, perché bisogna distinguere l’autore medioevale del testo, l’autore reale che si affida alla leggenda, il narratore stesso ed infine lo spirito della narrazione che penetra nella cella monacale.
Lo spirito della narrazione si introduce nella stanzetta di convento del monaco Clemente d’Irlanda, seduto dinanzi al leggio di Noktero.
Clemente d’Irlanda scrive in silenzio ed in solitudine una storia terribile e meravigliosa: Gregorio, nato dai gemelli Wiligis e Sibilla, viene abbandonato su una barca al mare con una tavoletta di legno sulla quale è indicata la sua peccaminosa nascita. Il narratore afferma che il peccato più grande in quella incestuosa notte d’amore fu l’uccisione del cane Hanegiff!
“Subitamente Hanegiff si alzò sulle cosce e mandò un suono lamentoso, cominciando a ululare verso le travi del soffitto, come un cane che si lamenta alla luna. Un lamento lungo, straziante, dal più profondo dell’anima.
«Zitto Hanegiff» gridò Wiligis. «Svegli la gente. Bestiaccia, sta’ zitto o t’ammazzo. O diabolica bestia, se non la smetti ti farò io ammutolire!».
Ma Hanegiff, altre volte così obbediente, seguitava ad ululare.
Allora lo Junker saltò su, così com’era, dal letto in selvaggio furore, afferrò il cane e gli tagliò a metà la gola; e quello morì rantolando. Poi gli gettò sopra il coltello insanguinato che bagnò la sabbia del pavimento, e ritornò ebbro al luogo dell’altra vergogna. Ahimè, il povero cane, così bello e così buono! Credo che questa fu la cosa peggiore di quella notte. L’altra, per quanto illecita, posso forse scusarla.”[2]
Perché un religioso perdona l’incesto e non l’uccisione del cane? Wiligis non ascolta il monito che proviene da un fedele compagno e commette il peccato più terribile, il tradimento, per vivere la sua lussuria e neanche Sibilla è innocente di fronte a questo misfatto, perché essa accoglie infine con gioia il fratello e amante: “«O Willo, che arma! Ahi, ahi, mais tu me tues! Oh vergognati. Proprio come uno stallone, un montone, un gallo. Oh, via, via, via! Ah angelico briccone! Ah divino brigante![3]» .
Fratello e sorella si amano lasciando il cadavere del fedele cane sul pavimento. Non è dunque soltanto una notte d’amore, ma anche di sangue. La lussuria è forse il peccato più facile da perdonare, come ha insegnato Dante collocando nel primo girone infernale coloro che preferirono l’istinto alla ragione, ma qui è causa di un peccato più grande. Per questo Clemente d’Irlanda confessa di esser felice di non conoscere l’amore: non per l’atto carnale, ma per ciò che può indurre a fare. La libidine è un peccato della carne, è inganno dei sensi, ma l’uccisione del cane è compiuta con la volontà e razionalità.
Per comprendere la pietà e l’orrore del monaco confrontiamo la sua dichiarazione con le parole introduttive del narratore medioevale della leggenda, Hartmann von Aue: “Ora questo so per certo:/ consigliato dal demonio,/ chi pon fede in giovinezza/ e al peccato s’abbandona/ come gioventù vorrebbe/ pur pensando in questo modo:/ «Tu sei giovane oggi ancora,/ e di ogni tua stoltezza/ avrai tempo per pentirti:/ penitenza fai in vecchiaia »,/ questi pensa in modo errato. ”[4] Questo è un inganno duplice perché è attuato verso Dio e verso se stessi. Vi è la consapevolezza del misfatto, mentre i sensi annullano in parte la ragione.
Continuiamo il brevissimo sunto del romanzo.
Trovato da un frate e affidato ad una famiglia di pescatori, Gregorio viene a sapere della sua nascita e diventa cavaliere di ventura. Dopo varie avventure Gorio sposa una regina, la quale -ahime!- è nientemeno che Sibilla! La regale coppia genera figli, ma a causa della curiosità di una fantesca sono scoperte le origini dell’uomo.
Gregorio diventa un mendicante votato a sopportare ogni genere di umiliazioni, che naturalmente non mancano, per espiare i terribili peccati di cui è macchiato.
Egli sconta le sue colpe in un modo insolito: condotto su uno scoglio da un pescatore, è legato ad una roccia con una ferrea catena la cui chiave viene gettata nell’acqua del lago. Gregorio regredisce quasi allo stato di larva, ma è tenuto in vita da un rivolo d’acqua che lentamente scende dal masso.
Si aprono ai lettori significati simbolici: l’acqua è segno di elezione; come Mosé, Gorio era stato affidato alle acque per la purificazione; egli deve far parte di un mondo altro allo scopo di rinascere. La roccia rappresenta la natura incontaminata; così come Thomas Mann torna ad una leggenda antica e ad una storia impregnata di cattolicesimo, Gregorio retrocede ad una condizione di animalità, perché le bestie non commettono peccato. Senza colpa era il cane Hanegiff!
È evidente il simbolismo del fonte battesimale come lo è l’ispirazione edipica[5], come attestò lo stesso Thomas Mann, ma vi sono fattori sui quali riflettere. Gregorio non è un novello Edipo, perché manca il parricidio. Certamente anch’egli commette la terribile colpa di non conoscersi, ma è sorretto dalla fede in Dio, in un Dio che tutto può perdonare. Ancora una volta Dante viene in soccorso al lettore dubbioso.
Nel Purgatorio il sommo poeta incontra Manfredi che narra la propria morte con queste parole: “Poscia ch’io ebbi rotta la persona/ da due punte mortali, io mi rendei,/ piangendo, a quei che volentier perdona.[6] “
Vi sono tuttavia peccati imperdonabili. È senz’altro corretto vedere in Adrian Leverkühn, protagonista del romanzo di Mann, Doktor Faust, l’immagine della Germania che si dona alla barbarie nazista, ma non è giusto intendere “L’eletto” come la speranza di un'espiazione storica: credo che questa fu la cosa peggiore di quella notte, scrive Clemente d’Irlanda. Noi sappiamo che solo i morti possono perdonare.
Per un miracolo, la cui scoperta lasciamo alla curiosità dei lettori, Gregorio sarà ritrovato. Le campane di Roma annunciano il summum gaudium!
Apriamo questo libro: lasciamo che dal silenzio della cella monacale di Clemente d’Irlanda seduto al leggio di Noktero, l’afflato lirico giunga nella nostra taciturna stanza. Ascoltiamo le campane dello spirito della narrazione!
Note
[1] Mann, Thomas, L’eletto, Mondadori, Milano 1979
[2] Ivi, pag. 47
[3] Ivi, pag. 48
[4] von Aue, Hartmann, Gregorio, Einaudi, pag.3 Torino 1985
[5] Mann Thomas, Nota sul romanzo «L’eletto», pag. 16, in L’eletto, Mondadori, op. cit.
[6] Dante, Purgatorio, vv. 118-120
marzo 2005
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