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Lev Tolstoj, scrittore della vita
Mario Amato
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Nel discorso per il centesimo anniversario della nascita di Giovanni Verga, Luigi Pirandello distingueva scrittori che nascono dalla letteratura e scrittori che nascono dalla vita. Fra i primi Pirandello annovera Gabriele D’Annunzio, fra i secondi Alessandro Manzoni e, ovviamente, Verga. Afferma lo scrittore d’Agrigento che, leggendo Verga o Manzoni, il lettore si sente trasportato nel mondo narrato, insomma si vive insieme ai personaggi, si vedono i paesaggi descritti; si cammina con Don Abbondio o ci si imbarca sulla “Provvidenza” e si naufraga insieme alle speranze della famiglia Toscano, si sente l’afa della Sicilia di Mazzarò e della Lupa.
Allo stesso modo Umberto Saba divideva gli scrittori fra poeti e letterati, poeti come Dante e letterati come Petrarca.
Leggendo un canto della Divina Commedia l’attenzione del lettore è attratta dal personaggio e non dal suo creatore: noi spiamo Francesca e Paolo che leggono il libro galeotto, ci commoviamo ascoltando la storia del Conte Ugolino (E se non piangi di che pianger suoli? Inferno Canto XXXIII v. 42), ci ritroviamo con Ulisse nel silenzio del mare aperto e del mondo sanza gente.
È difficile invece sentire lo Zefiro primaverile di Petrarca o essere partecipi della metamorfosi dannunziana nel pineto. Possiamo ammirare l’alto esercizio stilistico e intellettuale, ma i soggetti della poesia restano i loro autori e non ci sentiamo coinvolti.
Gli scrittori che ci lasciano vedere e sentire le cose non sono, ovviamente, una peculiarità italiana, anzi l’Italia è certo terra di poesia, un po’ meno terra di romanzo e di racconti. E la vita emerge soprattutto nei romanzi, nella narrazione. Dalle pagine dei romanzi di C. Dickens esalano gli odori dei cibi, salgono i rumori della Londra della rivoluzione industriale, dalle pagine di V. Hugo appare la battaglia di Waterloo o la miseria della locanda di Caderousse; ed allo stesso modo leggendo “Anna Karenina” di Lev Tolstoj noi lettori vediamo, sentiamo, amiamo, tremiamo insieme ai personaggi. Il romanzo fu criticato per l’eccessiva lunghezza, perché racconta – si diceva – soltanto la storia di un adulterio, quella della bella Anna con il principe Vronskij.
In realtà questo monumentale romanzo ha un senso più vasto e lo stesso autore premette una epigrafe sulla quale riflettere: “Mio sarà il perdono, mia sarà la vendetta” (Deuteronomio).
Intorno ad Anna e Vronskij ruotano una miriade di personaggi, che non possiamo definire secondari, perché qui nulla ha un centro e nulla è marginale. È forse uno sfondo la società aristocratica russa ormai incapace di amministrarsi e dedita al gioco e al bere? O forse è uno sfondo la contrapposizione del mondo contadino e di quello cittadino? O forse è uno sfondo il richiamo a nuove idee quali il panslavismo o il comunismo? Queste idee sono soltanto accennate, è vero, ma saranno foriere di grandi sconvolgimenti.
Il romanzo si intitola “Anna Karenina”, ma come non vi è uno sfondo così non vi è una protagonista. Anna Karenina è la pietra dello scandalo, è colei che innesta con il suo adulterio, con il suo amore impossibile e disperato la rovina non solo di sé stessa e della sua famiglia, ma di altre famiglie. È opportuno durante la lettura richiamare alla mente l’epigrafe iniziale che ammonisce il lettore affinché non sia tentato dal giudicare ed è opportuno lasciarsi trasportare dal piacere della lettura, perché Tolstoj è scrittore che ci fa vedere e sentire le cose.
Siamo affascinati dalla bellezza di Anna Karenina e dal suo amore per un uomo che è senz’altro bello, capace di stare nel bel mondo, ma non ha certo doti umane ed intellettuali apprezzabili. Proviamo simpatia per Kostantin Levin, aristocratico di campagna incline alla comprensione per i suoi contadini, soprattutto quando la principessina Katia (Kity) rifiuta la sua proposta di matrimonio per il sogno di avere la stessa offerta da Vronskij, sebbene intuisca che Levin è un uomo degno di rispetto e d’amore e che l’altro potrebbe offrirle soltanto una bella avventura. Forse c’è già in Tolstoj l’avversione al sesso, anche coniugale, che caratterizza il racconto/romanzo “Sonata a Kreutzer”. “Anna Karenina” è romanzo foriero di una domanda inquietante, vale a dire sul senso della vita. La vita insomma è fatta di bassi istinti? La stessa Anna rimprovera il suo amante per il suo passato definendo le feste cui era dedito “animalesche”, ma subisce lo stesso rimprovero dal marito che la accusa di soddisfare con la sua relazione i suoi istinti. Ed è la protagonista stessa, poco prima del suicidio, ad affermare “Io conosco i miei istinti.”
Il suicidio avviene alla stazione; in treno Anna aveva conosciuto Vronskij. C’è in Tolstoj un rifiuto o addirittura una paura della modernità. Il treno è il simbolo della modernità, ma è un simbolo demoniaco.
Come molti scrittori dell’Ottocento Tolstoj sceglie un personaggio quale proprio portavoce: in “Anna Karenina” tale figura è Kostantin Levin, anche se, come afferma Piero Citati, è il Tolstoj giovane dal quale lo scrittore prende le distanze. V’è però una somiglianza che non è stata indagata: così come Levin non riesce a comprendere la relazione tra miglioramento culturale della popolazione e progresso economico, allo stesso modo Tolstoj vede la decadenza della classe dirigente russa, ma non scorge il nuovo soggetto che sta per affacciarsi sul palcoscenico della grande storia, il proletariato. Levin pensa che basta il lavoro affinché il popolo abbia una vita dignitosa, Tolstoj pensa che sia sufficiente tornare al cristianesimo delle origini.
Alessandro Manzoni aveva intuito che la storia non è soltanto quella scritta dai grandi personaggi, ma è fatta anche dagli uomini piccioli e meccanici ed è per questo la prima parola del suo romanzo è “Historia”. Del resto Friedrich Schiller aveva già indicato il senso della storia, privilegiando nelle sue tragedie il Seicento, inviso a quasi tutti i romantici. La guerra dei trent’anni (1618-1648) fu per alcuni aspetti una guerra moderna, perché coinvolse le popolazioni civili e pose quindi il problema dell’uomo, di tutti gli uomini, nella storia.
Levin è dunque il portavoce di Lev Tolstoj, ma non è soltanto questo. Levin è un personaggio complesso alla ricerca del senso della vita e della morte, è l’uomo che si interroga su Dio, sulla morte, sull’esistenza terrena ed ultraterrena, sull’anima, sul perché siamo su questa terra. Solo a momenti gli è dato di cogliere il senso della vita: in occasione della morte del fratello Nikolaij e della nascita del suo bambino, dato alla luce dalla moglie Kity. Egli si deve allontanare la prima volta perché non sopporta la vista delle sofferenze del fratello così come più tardi dovrà allontanarsi per non ascoltare le grida della moglie partoriente. Kity invece assiste il cognato: non ha conoscenze di medicina e non è mai stata accanto ad un moribondo, ma sa quello che si deve fare. Chi le ha insegnato? Nessuno. Lo sa e basta. Questo pensa Levin. E come tutte le donne, una volta partorito, ella ama il suo bambino, sorride, mentre Levin non dimentica le urla strazianti e per questo non riesce a provare amore per il proprio figlio. Levin cerca una risposta anche nella natura, se è vero che per Tolstoj il mondo è una continua epifania, ma il rapporto fra Kostja ed il mondo naturale è ambiguo: lo ama, ma è un accanito cacciatore.
Levin non troverà la sua fede, il suo Dio, ma accetterà la religione del popolo, rivelatagli da un vecchio contadino che gli confessa che egli crede e prega e non si fa nessuna domanda.
Piero Citati nel suo libro “Tolstoj”(1) afferma che “Anna Karenina” è la descrizione di un mondo senza Dio e senza morale.
In verità alla storia di Anna Karenina ed il conte Vronskij nel libro è riservata una parte che occupa meno spazio delle altre storie.
Al di là di queste considerazioni, molte pagine del romanzo sono godibili, regalano il piacere di leggere. Penso alle pagine in cui sono raccontati i pensieri di Levin prima della proposta di matrimonio a Kity, a quest’uomo che divide le donne in due categorie, da una parte le donne volgari con le quali non vuole avere a che fare e dall’altra parte Kity, soltanto lei, bella, pura, angelica, della quale nessuno, soprattutto lui, è degno. Penso alle pagine nelle quali viene raccontato il ballo durante il quale Vronskij ed Anna s’innamorano e Kity lo comprende. La maestria del narratore sta nel far vedere al lettore le coppie, il vestito delle due rivali, nel farci ammirare il bellissimo abito della giovane principessa, ma nell’affermare che non era il vestito a rendere bella Anna, ma Anna ad emergere dal suo vestito di velluto nero. Il narratore non si sofferma a lungo su Anna durante il ballo, ma disegna un gioco di sguardi, ammiccamenti, senza però dimenticare la visione d’insieme.
Penso al vento e alla bufera di neve che Anna Karenina respira a pieni polmoni ad una fermata imprevista del treno, freddo e bufera che respiriamo anche noi, seduti con il libro in mano su una poltrona al caldo; penso alla precisione delle descrizioni del paesaggio russo.
Si, Anna Karenina è la storia di un adulterio, ma è anche molto di più; è soprattutto un libro godibile. Non dobbiamo giudicare, ammonisce Tolstoj, che morì nel 1910.
Altri avrebbero giudicato quel mondo soltanto sette anni più tardi!
Nota
1) Citati Piero, Anna Karenina in Tolstoj, pag. 173-225, Longanesi, Firenze, 1984
marzo 2005
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