|
Memorie di un insegnante, tredici.
Aldo Ettore Quagliozzi
|
La prosa di Elisabetta Fiorentini raccolta dal suo volume di ricordi “Vita di insegnante. Trent'anni di solitudine“ riporta alla memoria di non pochi di noi gli anni seguenti al famoso, o famigerato secondo i punti di vista, anno ’68 della protesta giovanile.
Erano gli anni strapieni di grandi speranze per un rivolgimento possibile non solo della scuola ma dell’intero assetto sociale; come sia andato a finire è sotto gli occhi di tutti.
Nella scuola si dovettero attendere begli anni per vedere realizzate alcune aspirazioni nate all’interno di quei confusi, generosi movimenti, e solo con i decreti delegati del 1974, ovvero con la scuola della partecipazione, si riuscì, anche se in forme molto farraginose e limitate, ad introdurre innovazioni risultate alla fine non determinanti ed il più delle volte non ben accette alla categoria degli insegnanti.
Quel che rimane certa è la ‘solitudine‘ propria dell’insegnante, che in tutte le occasioni offre sé stesso e la propria vita ed il proprio modo di essere come unico parametro educativo e di formazione alle nuove generazioni; e, come la protagonista di queste bellissime pagine piene di struggente nostalgia, diventa l’insegnate ‘il maestro‘ nell’accezione più ampia e nobile.
“( … ) Il pomeriggio dell'11 novembre mi telefonarono alcuni di quarta che l'indomani ci sarebbe stata l'occupazione, erano agitatissimi e preoccupati delle conseguenze disciplinari. Li tranquillizzai con le parole che usavo la mattina. Trattandosi di una decisione tanto grave, dovevano ben ponderarla e disporvicisi non come a una trasgressione, ma come ad un'azione inevitabile per il bene di tutto l'istituto.
Mi sentivo come quel generale del quale racconta Rousseau, con i soldati sbandati e irrecuperabili. Si mise alla loro testa gridando: "Non fuggono, mi stanno seguendo".
Allora, come adesso, penso che in nessun caso i ragazzi vanno lasciati soli. Per il resto del pomeriggio passai in rassegna tutte le possibili mediazioni per evitare il peggio senza trovarne una praticabile.
I ragazzi da più di un mese stavano cercando un abboccamento con il preside e il consiglio di presidenza per il problema dei doppi turni e per il riconoscimento dell'assemblea.
Io stessa per trovare ascolto avevo dovuto rivolgermi al provveditore. Alla notte non dormii quasi e mi presentai stanchissima al liceo sulla cui facciata figuravano già due striscioni con ben chiara la volontà degli studenti: Liceo occupato.
La sala dei professori pareva la gabbia dei matti. Mi defilai subito per non offrirmi, facile bersaglio, ad accuse di connivenza perversa. I corridoi erano invasi dalla maggioranza degli studenti che si rifiutavano di entrare nelle aule. Le uniche parole che potei scambiare furono con Nanda e Pia, quest'ultima insegnava proprio nel mio corso, nuova arrivata, condivideva gran parte delle mie idee, anche se non delle mie sofferenze.
Ci furono diversi appelli al rientro in aula che caddero nel vuoto. Non in tutti gli occupanti c'era uguale coscienza, anzi di pochissimi era la consapevolezza del momento e la sincera passione delle proprie idee, che reclamava assemblea, discussioni con i professori, dei programmi e dei libri di testo, revisione dei doppi turni; ma in tutti i movimenti fra il cervello e il corpo ci sono le stesse proporzioni. Non c'era motivo di pretendere di essere eccezioni.
Venne in visita a portare la solidarietà della Provincia, il Presidente della Giunta. Si incominciò con cattiva coscienza ad alimentare l'immagine di Ente locale buono e comprensivo contro un potere centrale cieco e malvagio, contrapposizione quanto mai diseducativa per degli adolescenti.
A mezzogiorno i ragazzi che rimasero furono vettovagliati si può bene immaginare da chi, con grande orrore dei colleghi che a furia di vedere rosso da per tutto finalmente si sentivano gratificati di avere visto giusto.
Ritornai a casa frastornata e ferita, perché in tempo di pace si sarebbe dovuto fra persone di una stessa democratica Costituzione, parlare e discutere per trovare le soluzioni degli stessi problemi sociali e politici.
Mi rimbombava monotona la voce del preside: ‘ Si ricordi che i ragazzi hanno sempre torto, ci mancherebbe altro che si riconoscesse loro qualche ragione, ci troveremmo davanti dei tiranni ‘. Intanto tiranni, e anche piuttosto ottusi, lo eravamo noi. Dopo una seconda notte di poco dormire arrivai in un liceo dove la temperatura stava salendo, perché il preside si ostinava a non presentarsi e "i padri fondatori" erano perfino troppo presenti con le loro provocazioni.
Una delegazione di studenti fu ricevuta dal provveditore che convocò tutti i presidi della secondaria per decidere il da farsi. Intanto all'istituto arrivò la polizia.
Ci fu chi lamentò che nemmeno durante il fascismo la polizia aveva messo piede a scuola, ma la cosa non doveva poi tanto meravigliare, era già successo a Berkeley, alla Sorbona, poteva ben succedere al "Roiti". Il fuggi-fuggi fu generale, con scene isteriche fra i più giovani.
Nel lasciare l'istituto i leaders del movimento gettarono al preside, finalmente apparso nell'atrio, delle monete da cinque e dieci lire, altre furono gettate ai poliziotti. Ne raccolsi una, attirandomi l'ira del preside che mi ammonì che con i miei metodi si finiva in prigione.
Volevo ribattere che la storia della pedagogia è incominciata proprio in prigione e che se ci fossi andata mi sarei consolata alla vista del Castello Estense, come già Socrate di quella del Partenone, ma lo vidi talmente congestionato che temetti per la sua salute.
Andai ad incoraggiare alcuni studenti che stentavano a declinare le loro generalità e mi avviai alla stazione subito raggiunta da alcuni ragazzi di quarta D. "E adesso?" Li tranquillizzai. La nostra era pure una polizia di un paese democratico, ma sentivo dentro di me ribollire una sorda amarezza: quella che mi lasciavo alle spalle era la scuola di un paese democratico? Il problema, come avevo scritto a "La Stampa" era tutto politico. La repubblica democratica fondata sul lavoro, non aveva ancora fatto quanto doveva per la scuola.
Al pomeriggio la riunione dei presidi in provveditorato finì con un documento sottoscritto unanimemente nel quale si autorizzava l'assemblea, si invitavano gli studenti alla concordia e alla collaborazione con i loro capi-istituto.
Io trovai sulla cattedra un biglietto con la reazione degli studenti turbati di vedersi piombare addosso tante denunce e di constatare la solidarietà delle famiglie con le forze dell'ordine. Diceva: "Genitori siamo in una scuola fascista e vi meravigliate perché lottiamo. Avete fatto la Resistenza per liberarci dal fascismo, perché non dobbiamo farla anche noi? Lotteremo contro di voi".
Poiché il diritto di assemblea era acquisito per tutta la scuola ferrarese cercai di farli ragionare sui vantaggi che avevano conquistato per tutti, sottolineando che i veri avanzamenti sono quelli in cui si va insieme, gli altri sono dei colpi di mano.
Mi ribatterono che "quelli" del "classico" non si erano mossi per niente e si vedevano regalare un diritto che a loro era costato non poco. Non sapevano che "quelli del classico" non si sarebbero mossi mai, avendo scelto, con quella scuola, di non muoversi.
Un dato sembrava sfuggire a tutti, a cominciare dal provveditore, che quando una comunità di giovani si agita, non si può comandare a piacimento la bonaccia.
Ora i giovani erano agitatissimi, nelle condizioni peggiori per prestare attenzione alle cose strettamente di scuola, ma gli avvenimenti non erano stati senza conseguenze nemmeno fra i docenti, me ne accorsi alle elezioni delle cariche annuali, quando mi vidi fra gli eletti con ben trentacinque preferenze, il massimo di quaranta le aveva ottenute il vicepreside, un successo insperato e anche inspiegabile, al quale , solo in seguito ho trovato una spiegazione in chiave nicodemistica.
I simpatizzanti della mia linea mi dimostravano, come Nicodemo, consensi notturni e segreti, politicamente inutilizzabili. Anche Don Cenacchi entrava nel Consiglio di Presidenza con trentasette preferenze. Le speranze di fare qualcosa erano scarse perché il preside, sorpreso dai risultati si affrettò subito a comunicarci che non ci avrebbe mai convocato, proposito a cui tenne puntualmente fede.
L 'indomani delle elezioni, proprio per questa consapevolezza, arrivai a scuola così amareggiata che svenni e mi trovai in presidenza dove stavano le due uniche poltrone. Ritornai a casa dopo che un medico ebbe diagnosticato tanta stanchezza e il bisogno di riposo che però si limitò alla sola domenica.
Le prime assemblee furono, come prevedibile, disordinatissime e decise a mantenersi disordinate. Ci si accorse che la maggior parte degli istituti mancava di un luogo di riunione e che bisognava uscire all'esterno per utilizzare quelli che l'ente locale metteva a disposizione.
Anche per questo le assemblee si costituirono come corpi separati e quindi potenzialmente conflittuali con le scuole, tanto che furono non poche le famiglie che proibirono ai figli di frequentarle.
Dall'interno parve non doversi muovere niente. Le persone sulle quali potevo contare erano Nanda, Pia e Don Cenacchi. Poiché la via politica restava l'unica, decidemmo di rivolgerci tutti e quattro con un telegramma al ministro Fiorentino Sullo perché ci desse udienza. Dalle dichiarazioni di principio che aveva fatto, ci sembrava la persona giusta.
La risposta arrivò tramite il Capo di Gabinetto il 10 febbraio 1969 e fu un invito a mettere per iscritto le nostre richieste che poi rimasero inevase. Avevo intanto chiesto e ottenuto un incontro con il sottosegretario Oddo Biasini.
In quell'occasione potei solo sfogarmi perché per il resto la situazione del liceo era giudicata così paradossale con quel preside muto e immobile che il consiglio diventava uno solo, quello di cercare di smuoverlo con ogni mezzo. Mi tranquillizzò che più presto di quanto immaginassi ci sarebbero state delle novità.
Ne riferii in quarta ed ebbi da Andrea Zecchi la proposta che in seguito, per farci più persuasivi, avremmo viaggiato insieme, io e loro, visto che non riuscivamo a portare niente e nessuno dentro la scuola, saremo usciti per portare noi nel mondo.
Intanto chiedemmo di riunirci io, Nanda e Pia, alcuni genitori e studenti al pomeriggio per tracciare uno schema delle nostre più urgenti necessità. La prima riunione fu poco meno che disastrosa e l'indomani mi si disse che la mia ostinazione a volere la partecipazione dei genitori era all'origine dell'insuccesso.
Dei genitori dovevamo fare a meno perché erano di "destra". Cominciava l'uso improprio del termine che catalogava fra i fascisti tutti coloro che non erano entusiasticamente dalla parte dei giovani, uso foriero di non pochi equivoci e malumori, esempio di quel parlare per slogan e per stereotipi che doveva dominare tutti gli anni settanta. Giorgio Rimondi portò l'esempio degli uccelli che si premurano di insegnare ai figli di volare per renderli autonomi al più presto possibile, mentre invece i genitori coltivano la segreta aspirazione di mantenerli sempre dipendenti.
Dovemmo fare a meno dei genitori e anche dei locali della scuola. Chiedemmo aiuto a Don Cenacchi che ci ospitò nei locali dell'Azione cattolica.
L'approccio di questi gruppi ad associazioni di partito per avere dei locali, era fatale, data la chiusura della scuola. Quando ci riunivamo i progetti si accavallavano in un disordine che permetteva appena di tracciare degli orientamenti.
I progressi più certi erano quelli della chitarra. Io non mancavo mai di esaltarmi alla musica e parole di "My Lord, what a moming". Rientrando a casa, stanchissima, mi sorprendevo a cantare sommessamente: My Lord, what a morning/my Lord, what a morning/when the stars begin to fall... Dio mio che bel mattino/Dio mio che bel mattino, quando le stelle cominciano a cadere. Si sentiranno suonare le trombe/e si risveglieranno le genti sotto terra/e guarderanno la mano del Signore...
Forse la notte della solitudine stava per finire, avremmo, come in una fiaba, girato il mondo cantando quella e altre canzoni di speranza e di gioia, sostenendoci a vicenda.
La storia di tutti i giorni era invece tutt'altra, era piuttosto quella che dovevamo imparare sul libro di testo, insieme alla filosofia. Guai ad essere sospettati di ignoranza.
Cercavo di comunicare loro il marranismo degli anni in cui io stessa studiavo. Dovevo essere la prima, riportare la media dell'otto, non mancare nessuna delle esigenti attese dei miei professori per potere mantenere intatta la fede in una scuola diversa. Lo stesso avrebbero dovuto fare anche loro, ma ora ottenere le convinzioni di tante volontà era molto più difficile.
Feci loro scoprire il valore rivoluzionario del pensiero quale veniva dai testi di Platone, di Giordano Bruno, di Bacone, di Galilei, di Merleau Ponty e sì naturalmente di Marx e di Engels. Feci scoprire loro che cosa i filosofi come Croce, Kierkegaard, Merleau Ponty pensavano dei professori, di questi funzionari "il cui compito consiste nel giudicare i grandi uomini e nel giudicarli dai risultati. Un'attitudine simile di fronte alle grandi cose rivela una strana mescolanza di orgoglio e di bassezza.
Di orgoglio perché ci si crede chiamati a giudicare, di bassezza perché non si sente per nulla l'affinità della propria vita con quella dei grandi uomini".
( … )“
dicembre 2004
nome:Aldo Ettore cognome:Quagliozzi email:al1946@tiscali.it
in libri inevitabili: |
|
dello stesso autore: |
|