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Dell'educare.20
... dalla dislessia ...
Aldo Ettore Quagliozzi
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In pagina del nostro abbecedario tratta da uno scritto di Umberto Galimberti apparso su “La Repubblica“ del 27 settembre 2003 con il titolo “Letture proibite“, l’autore, partendo da un disturbo neurologico abbastanza diffuso e spesso difficilmente riconosciuto nelle aule scolastiche, allarga il suo discorso sulla enorme importanza che, nell’atto dell’educare, assume la strategia, mi si lasci usare un tale termine, tesa a dare sempre grande rilevanza ai riconoscimenti che gratifichino l’educando in ogni momento, anche se lo stesso possa trovarsi in evidenti difficoltà di apprendimento non necessariamente legate a fattori neurologici bensì di altra e varia natura.
L’autore insiste su questo aspetto, sottolineando come per i giovani sia più facile uscire da uno stato di difficoltà di origine neurologica, seppur convenientemente affrontato e curato, piuttosto che “guarire“ dalle umiliazioni e dalle emarginazioni subite nelle aule scolastiche.
E’ mirabile come l’autore tratteggi il tipico e superficiale atteggiamento dell’insegnante tetragono ad una problematica di questo tipo, e come tale atteggiamento dell’insegnante possa ingenerare ed alimentare le difficoltà di apprendimento ed insufflare nell’animo del giovane, molte volte, anche degli inutili e dannosissimi sensi di colpa.
Ed è importante sottolineare come il senso di colpa così ingenerato possa essere poi alla base della crescita di una identità negativa che accompagnerà la persona per tutto l’arco della sua vita, creando condizioni psicologiche di tale gravità da condurre inevitabilmente alle peggiori condizioni di abulia.
“… dalla dislessia, precocemente diagnosticata e opportunamente curata, si “guarisce“. Ma con difficoltà si guarisce dai mancati riconoscimenti, dalle umiliazioni, dalle emarginazioni che si subiscono in tenera età per i problemi di lettura e di apprendimento.
Di fronte a queste difficoltà, gli insegnanti, che non capiscono il problema, ricorrono a quell’espressione consunta e anche un po’ ipocrita: “E’ intelligente, ma non si impegna“. Cioè riconoscono l’intelligenza perché metterla in dubbio potrebbe offendere i genitori che vivrebbero la carenza come una tara genetica, e scaricano tutto sulla “volontà“ del bambino aggiungendo, all’oggettiva difficoltà di apprendimento, anche la colpa morale.
Senza il minimo sospetto che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto del maestro con l’allievo è di pura constatazione dei risultati, senza la minima attenzione alle difficoltà oggettive o soggettive che l’allievo incontra per ottenerli.
E così il disinteresse aggrava le difficoltà e soprattutto crea (…) un concetto di sé negativo perché l’unica misura che gli si offre per la valutazione di sé è la propria incapacità.
Questa identità negativa, che così si costruisce come effetto del mancato riconoscimento, innesca processi autosvalutativi che accompagneranno il dislessico, anche “guarito“, per tutta la vita. Per non parlare degli atteggiamenti rinunciatari di fronte alla possibilità che la vita offre, per cui, da adulto, il dislessico si autoconvince che avevano ragione i suoi insegnanti a dire che era abulico e non ci metteva buona volontà.
(…) Dalla dislessia si guarisce, ma dai disturbi emotivi conseguenti al deficit molto più difficilmente. (…)”
maggio 2004
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