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“Latina didaxis”: aggiornamenti sulla didattica del latino nella scuola liceale
percorso modulare tenuto presso l'Università della Basilicata
Marino Faggella
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Premessa
Dopo i reiterati tentativi di riforma della Scuola Superiore, dopo l’approvazione dell’ultimo disegno di legge da parte del parlamento e in attesa della formulazione dei nuovi programmi, il dibattito sull’insegnamento del latino si è fatto di recente più vivace, nel senso che si riparla di esso in quanto materia scolastica, delle sue valenze formative e di un suo più aggiornato “statuto disciplinare”.
Non si tratta di affrontare qui il problema della didattica del latino nella sua globalità, ma più semplicemente di affrontare in sintesi alcuni punti nodali che, a nostro modo di vedere, sono essenziali non tanto ai fini di una soluzione definitiva della questione, che per non essere nuova ha i caratteri della complessità, quanto per suggerire alcuni importanti suggerimenti e spunti di riflessione che mi auguro siano utili ai colleghi, particolarmente a quelli direttamente impegnati nell’insegnamento delle discipline classiche, e nondimeno costituiscano materia di informazione per i docenti alle prese con le altre materie del curricolo liceale. Non pochi stimoli ci sono venuti anche dal “Progetto di riforma dei cicli”, modificato dall’attuale governo, e dal documento della “Commissione dei Saggi”, istituita dal ministro Berlinguer nel gennaio 1997, le cui indicazioni, particolarmente quelle che fanno riferimento alla cultura classica (che al comma 6 del paragrafo 2. I contenuti irrinunciabili così conclude: “Se in passato si è puntato, nell’avvicinare i classici latini e greci, più sulle lingue che sui contenuti delle civiltà che sono espresse in queste lingue, oggi bisogna piuttosto concentrare l’attenzione sull’attualità dei messaggi che queste civiltà contengono”), se pure non del tutto condivise da quanti non sono disposti a ridurre l’insegnamento del latino a studio di civiltà, hanno contribuito tuttavia a riaccendere il dibattito sulle lingue classiche e sulla loro utilizzazione a fini didattici. E’ qui il caso di sottolineare che, senza negare pregiudizialmente qualsiasi modello di innovazione didattica, il nostro intendimento sarà quello di ribadire lo statuto epistemologico attuale del latino secondo la già collaudata formula: lingua + storia = civiltà, presente nella premessa alle indicazioni didattiche dei programmi di latino formulata dalla Commissione Brocca (“Il latino, come disciplina scolastica, non può ignorare il suo statuto epistemologico di scienza storica, che accosta il mondo antico soprattutto attraverso il canale linguistico; se si aggiunge che quel mondo ci ha trasmesso il meglio di sé attraverso la letteratura (sia pure intesa in senso molto ampio), si capisce l’importanza che anche nella scuola deve avere lo strumento di studio accanto al suo oggetto, cioè la cultura e la civiltà romana”), che serve a chiarire ulteriormente come il punto fondamentale di partenza non possa essere se non lo studio linguistico nel curricolo liceale, mentre l’apprendimento tout court delle civiltà, uno studio assoluto su di essa, risulterebbe certamente più utile e confacente ad altri tipi di scuola dove lo studio della lingua latina non si affronta, ma non nei quattro attuali licei (Classico, Scientifico, Linguistico, Psicopedagogico) dove del resto non può essere ridotto esclusivamente a pura materia per addetti ai lavori o antichisti.
Il contesto
Affrontare il discorso della didattica del latino significa sia centrare l’attenzione sulle presenti necessità della nostra scuola nella prospettiva della riforma, sia considerare da vicino lo stato attuale dello studio delle discipline classiche nei licei per ricercare la possibilità di una più aggiornata metodologia in vista di un miglioramento dei risultati educativi. Ha giustamente notato Flocchini che la didattica di una materia, perché siano conseguiti determinati obiettivi , come non può fare a meno di un preciso statuto epistemologico aggiornato così non può essere considerata in senso assoluto a prescindere dalla storia: “qualunque discorso sulla didattica del latino, cioè sulle modalità e le tecniche per l’insegnamento/apprendimento della lingua latina, non può prescindere da un’attenta considerazione circa le finalità di tale insegnamento, le caratteristiche dell’utenza, le aspettative dei discenti e il contesto culturale nel quale si inserisce” (1). Pertanto sarebbe certamente interessante ripercorrere tutta la storia dell’insegnamento del latino nel corso dei secoli, ma, date anche le premesse, sebbene questo non rientri nei nostri intendimenti, tuttavia, non ci preclude la possibilità di fare un breve excursus storico che consideri almeno gli ultimi decenni scorsi, a partire dagli anni sessanta, per vedere quali siano stati gli orientamenti degli addetti ai lavori, docenti e allievi, intellettuali e uomini di cultura, mondo della politica e legislatori, intorno alla questione.
Un po’ di storia
L’accelerata industrializzazione dei primi anni sessanta aveva in Italia già modificato la natura del nostro sistema di istruzione generando il fenomeno della cosiddetta “scuola di massa” che tra l’altro fece contemporaneamente andare in crisi il ruolo formativo esercitato fino a quel momento dal latino. Tra la fine degli anni sessanta e primi anni settanta, allorché anche da noi si fecero sentire gli effetti del maggio francese, infuriò un’aspra battaglia per il latino che coinvolse quasi tutta la cultura italiana dell’epoca. La nuova generazione postsessantottesca per effetto delle idee di Marcuse e Adorno, due dei maggiori teorici della cosiddetta scuola di Francoforte, attraversata da un’autentica furia iconoclasta, se la prese in quel clima di panpoliticismo, oltre che con la poesia come testimonia Calvino,(2) anche con il latino che come nota Flocchini: “divenne una bandiera su cui si scaricarono anche tensioni ideologiche e politiche. La difesa del latino venne spesso identificata con il desiderio di conservare antiche strutture classiste e di perpetuare secolari privilegi, mentre la sua abolizione fu vista come una conquista di modernità …”(3). A favore di una scuola media senza latino si era schierata tutta la sinistra, di parere contrario e a difesa del latino si dichiarò la destra con i partiti moderati, decisi a non abbandonare del tutto il vecchio sistema.
Al termine del dibattito che non fu incruento prevalse il partito del compromesso che se proprio non decretò la morte della lingua di Roma quale materia scolastica la ridusse a vita più grama facendola sopravvivere nei cosiddetti “elementi di latino” in seconda e in un latino per l’élite nell’ultimo anno della Scuola Media unificata. Di lì sono venuti, a mio modo di vedere successivi altri guai, come lo scollamento tra la stessa scuola media e il biennio delle superiori, rimasto sostanzialmente immutato e modificato nel 1967 solo nei programmi e la rovinosa legge 910/1969 responsabile della liberalizzazione degli accessi all’università che decretò con la squalifica dei licei un generale abbassamento del livello degli studi in Italia.
In quel clima acceso di lotta si giunse al 1974, l’anno dei Decreti Delegati, dopo che non pochi avevano proposto l’abolizione del latino almeno nei liceo scientifico e il “sei politico” in tutte le scuole. L’illusione di aver scardinato finalmente l’impianto tradizionale della scuola con l’introduzione del dibattito politico fece affievolire al termine degli anni settanta, anche per un fenomeno di riflusso, la lotta per il latino.
I successivi anni Ottanta, allorché si parlò per la prima volta in senso concreto di programmazione anche nella scuola superiore, segnarono un ritorno di interesse per la lingua di Roma quale materia scolastica che, come testimonia il contemporaneo dibattito svolto sulle riviste (fondamentali a questo proposito e anche di grande attualità risultano gli interventi autorevoli di Mandruzzato, Marchi, Flocchini, Cova e Sabatini) tornò ad essere considerata in termini positivi. Dopo le serrate discussioni che avevano diviso gli accusatori, i quali giurando sul maggior valore formativo di altre discipline erano giunti ad auspicare dopo la sua agonia la morte del latino anche nella scuola superiore, e gli “apologisti“, in genere i docenti della materia che liberi da condizionamenti politici non avevano mai dubitato della sua utilità a fini educativi, nessuno più o quasi osava metterne in discussione l’esistenza (si ricordi a tal proposito l’appello in difesa della cultura e della lingua latina sottoscritto nel 1983 sia da eminenti personalità della cultura letteraria e filosofica sia da esponenti del mondo scientifico che, più che mai convinti sulla necessità delle due culture, riconobbero l’importanza fondamentale della formazione umanistica), anche se, soprattutto per effetto degli studi sulla nuova linguistica, si avvertiva un concreto bisogno di rinnovamento della didattica applicata alle materie classiche. Questo bisogno, insieme alla necessità di una riforma generale degli studi, spiega l’istituzione della Commissione Brocca (1988) che non solo riserva particolare attenzione ai programmi di studio delle discipline classiche e alla loro attuazione ma traccia le linee fondamentali di una più aggiornata didattica.
Gli anni novanta furono caratterizzati in seguito da una certa stagnazione del problema, forse anche a causa della nuova legge sull’Autonomia (59/97) che, impegnando come in un cantiere aperto tutti gli utenti della scuola, ha fatto passare un po’ sotto silenzio l’urgenza di un aggiornamento della didattica delle lingue classiche in generale e del latino in particolare. Tale necessità, sotto la spinta della mozione sulla riforma della scuola presentata in Parlamento nel 2002, ritorna ad essere ora di grande attualità.
(1° modulo) - Latino, “sapere”, “saper fare”,”saper essere“
Un nuovo statuto disciplinare
Prima di affrontare direttamente un discorso su teoria e pratica dell’insegnamento del latino nei licei col proposito di arrivare a conclusioni condivisibili è opportuno, a mio modo di vedere, anche per spianare il terreno, partire dalla definizione dei concetti generali di “disciplina” e “materia scolastica” che risultano molto importanti anche ai fini della determinazione particolare dello statuto epistemologico del latino. I due termini, usati molte volte come sinonimi anche dagli specialisti, vanno però anche chiaramente distinti, in quanto se vogliamo, in un’accezione più rigorosa, con il termine disciplina si suole indicare l’organica e complessa sistemazione di un determinato settore del sapere, cioè un insieme di conoscenze organizzate compreso l’insieme dei concetti-contenuto che servono a veicolarle; laddove con il secondo termine, al di là delle valenze scientifiche, si vuole piuttosto sottolineare, al pari ed in concorso con le altre materie che ne fanno comunque parte, il peso che esse esercitano all’interno di un curricolo ai fini della formazione degli allievi quale particolari soggetti scolastici. In ogni caso i due termini vivono anche in una relazione reciproca, se è vero che il mondo dell’indagine scientifico-disciplinare, che si configura prevalentemente nella ricerca universitaria, dovrebbe porsi quale supporto nella concreta azione didattica dei docenti impegnati nella pratica educativa. La notevole quantità dei contenuti da acquisire, l’eterogeneità dei saperi e i diversi filoni di ricerca, richiedono che sia l’università in primis a provvedere allo specifico della professione docente con la produzione di conoscenze cognitive ed euristiche da comunicare ai docenti.Tutto ciò richiede un’effettiva partnership tra la Scuola e l’Università, per fare in modo che si possano coniugare le complementari competenze scientifiche degli addetti ai lavori con quelle dei professionisti impegnati in azione. Per non dire che nel fertile scambio di contributi, conseguente all’integrazione scuola/università, si avvantaggeranno anche le parti contraenti nei loro soggetti attivi, i quali costantemente messi a confronto per impostazione e linguaggio, saranno capaci di innestare all’interno della scuola riflessioni in grado di operare un’autentica innovazione didattica che riguarda in generale tutte le materie di studio, compreso il latino, la cui didattica, contrariamente a quello che comunemente si ritiene, necessità di un continuo e costante aggiornamento non fosse altro perché, mentre per le altre discipline vi è un rapporto di pacifico accoglimento da parte degli alunni, per quest’ultimo la passiva accettazione di una pratica educativa estremamente conservatrice dura a morire produce molte volte da parte loro se non proprio il rigetto almeno la legittima domanda: “A che serve studiarlo?”. E per converso ancora più inquietante suona più spesso quella di molti docenti:”A che serve insegnarlo”?.
L’utilità del latino
Evitando espressamente di riproporci l’ inutile dilemma della storia recente: “latino sì – latino no”, in quanto oggi nessuno fortunatamente dubita più della sua valenza formativa, cominceremo proprio di qua: “A che serve il latino?”. Prima di dare risposta a quella che, secondo noi, dovrebbe essere la domanda più opportuna per un docente, vale a dire: “Come insegnarlo?”, risponderemo: “A formare non esclusivamente e non solo gli specialisti o gli antichisti, ma a formare l’uomo nella sua integrità”. Anche una tale risposta va meglio definita in quanto non esiste una sola dimensione universale dell’umanità, ma tante quante di volta in volta se ne costituiscono nella storia. A questo punto è necessario porsi un’altra domanda:”Qual è l’attuale dimensione dell’uomo?”. Dopo la fine dell’epoca industriale, che si era preoccupata di porre in armonia il soggetto uomo con la società, si parla ora di “villaggio globale”, espressione coniata da Mc Luhan che serve a connotare la nostra epoca post-industriale o post-moderna nella quale sembrano cadere tutte le gerarchie e le specializzazioni e si parla di sapere totale, di educazione permanente. In un’ epoca caratterizzata dalla crisi delle discipline e dalla unicità e molteplicità del sapere quale può essere il ruolo del latino? Ribadiremo: “A formare tutto l’uomo”, dandogli la dimensione del suo posto nel mondo, a preparalo non solo in senso culturale, fornendogli una più convinta identità personale, ma anche contribuendo, con l’analisi dei fatti della storia, a dargli una più ampia dimensione socio-economica, fondata sul senso di appartenenza ad una comunità che oggi non può essere solo quella locale e nazionale ma, abbracciando la grande famiglia dei popoli europei portatori di comuni valori storici e culturali, si avvia ad essere universale.
Pedagogia del latino, le motivazioni
Se è sicuramente opportuno condividere anche per il latino la valida tripartizione proposta dalla Commissione Brocca(4) circa la operazioni didattiche da effettuare per lo svolgimento dei programmi di qualsiasi disciplina, è giusto anche sottolineare che per quanto riguarda l’insegnamento del latino le finalità specifiche, gli obiettivi di apprendimento e i contenuti che li sostanziano, le stesse indicazioni didattiche passano in secondo luogo, almeno inizialmente e particolarmente nel primo anno del biennio, di fronte alla pregiudiziale necessità del docente di generare negli allievi quelle motivazioni che essi non hanno per lo studio di una materia di cui in generale non sanno nulla o quasi. Pertanto, prima di attivare qualsiasi esercizio didattico, il docente di latino del ginnasio deve affrontare un problema in più: rendere interessante (da interesse che significa innanzitutto partecipare) lo studio di una disciplina di per sé poco attraente o quasi sconosciuta agli allievi. Questo è, a mio modo di vedere, il primo grande ostacolo che l’insegnante di lettere del primo livello liceale deve superare: fare uscire il latino dallo stato di estraneità in cui è caduto per evitarne il rigetto, attivando contemporaneamente soluzioni e motivazioni che abbiano inizialmente a che fare non solo con la natura della disciplina.
A questo punto il problema non è risolto, in quanto si tratta ora di rimuovere un altro limite di partenza: la persistenza di un modello tradizionale di insegnamento, difettoso e non in pace con i tempi, che anche il nostro docente del ginnasio ha con tutta probabilità ereditato. Già da alcuni anni si sente dire che occorre rompere con la vecchia logica dell’educazione tradizionale e con la didattica di tipo gentiliano improntata sul programma, sul valore assoluto del libro di testo, sulla trasmissione di un sapere precostituito. La scuola tradizionale era caratterizzata da un procedimento unidirezionale nella trasmissione di un sapere codificato e affidato solo alla conoscenza di specialisti dell’educazione i quali, comunicando in modo ontologico le loro conoscenze, fidavano prevalentemente sul “verbo” e sulla retorica per raggiungere i loro interlocutori.
Nel sistema dualistico, che a nostro modo di intendere va dalla ratio studiorum dei gesuiti al sistema gentiliano, il latino occupava una posizione di privilegio in un complesso gerarchico delle discipline che vedeva comunque al primo posto la filosofia che subordinava a sé tutte le altre. In una scuola di tipo così aristocratico e destinata solo ai migliori (“Gli studi secondari sono per loro natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola; studi di pochi, dei migliori, tòn àriston“) (5) al latino venivano assegnate queste due principali funzioni: preparare gli allievi alla formulazione del pensiero astratto, selezionare i talenti. Nel capitolo “L’educazione come sintesi a priori” del suo Sommario di Pedagogia (1912) lo stesso Gentile sosteneva che in nome dello spirito assoluto, ugualmente presenti nel docente e nell’allievo, la comunicazione dovrebbe avvenire solo in un modo: da spirito a spirito. Per lui valeva semplicemente tale sillogismo: per insegnare occorre solo il possesso dei contenuti, la pedagogia è una tecnica, quindi non serve nella pratica educativa, non c’è alcun sapere che insegni l’arte di far scuola, il buon metodo è tutto nel contenuto, ci penserà poi il “sacerdote” a fare scattare il “clic”. In tal modo il filosofo rigettava l’idea dell’insegnamento come tecnica pedagogica, in quanto la pedagogia per lui non era altra cosa che la filosofia alla quale qualsiasi tecnica era estranea.
Sia chiaro, in ogni caso, che non è nostra intenzione avversare la filosofia, disciplina certamente gloriosa che ha segnato le tappe del pensiero umano, né diciamo che essa debba sparire dagli attuali curricoli scolastici, ma è opportuno che comunque abbandoni la sua prosopopea, scenda dal suo piedistallo, cali le sue pretese per svolgere all’interno del curricolo una funzione comunque importante, anche se non primaria, quella di operare un raccordo fra le varie discipline soprattutto in occasione di una progettazione modulare-interdisciplinare. In effetti il compito attuale del docente di filosofia all’interno di un curricolo liceale è quello di centrare l’attenzione sui valori, suscitando e contribuendo a far maturare negli alunni lo spirito critico attraverso l’individuazione dei rapporti transazionali tra valori e fini, fini e valori. In seno ad un’organizzazione didattica moderna, modulare, flessibile ed aperta, spetta soprattutto al docente di storia e filosofia il compito specifico di individuare e chiarire lo statuto epistemologico di ciascuna disciplina per favorirne l’accordo. Oggi, pertanto, non è più il tempo di pensare che la didattica sia nata da una costola del pensiero e che tutto il sapere disciplinare debba confluire nella conoscenza di tipo filosofico; attualmente la professionalità di un docente, che si configura sempre più come quella di un ricercatore, deve secondo noi poggiare su questi fondamentali pilastri:
Conoscenza disciplinare e padronanza del relativo statuto epistemologico, nonché capacità di integrazione di essa con le altre discipline del curricolo (lavorare in team).
b) Competenza didattica, e disponibilità alla ricerca dei metodi col proposito di avvalersene nell’esercizio giornaliero dell’insegnamento.
Il latino nel curricolo
Tra la materie scolastiche dal momento che è proprio il latino ad avere bisogno, insieme con uno statuto epistemologico sempre aggiornato, di metodologie in grado di rinnovare i contenuti e i procedimenti tradizionali del suo insegnamento, nel bagaglio di un docente liceale non dovrebbe mancare, oltre alla necessaria esperienza ed alla capacità di saper riconoscere, maneggiare e utilizzare i migliori strumenti, la conoscenza dei fondamentali procedimenti didattici che appartengono alle più importanti metodologie in modo tale che egli, facendoli propri e integrandoli, possa scegliere, uno o più modelli teorici di riferimento da applicare con successo nella difficile pratica dell’insegnamento. Questa necessità, a mio modo di vedere, rende più complessa ma anche più varia e interessante l’azione educativa di un docente di liceo, al quale non si richiede più come in passato un’esclusiva competenza disciplinare ma un costante e più vasto abito di studi capace di fornirgli una più ampia enciclopedia di sapere teorico-pratico. Proprio per questo sono stati indicati i limiti della formazione degli insegnati nella scuola tradizionale, i cui procedimenti sarebbero oggi decisamente insufficienti o incompleti non tanto a causa delle conoscenze specifiche dei docenti, quanto piuttosto per la mancata integrazione fra la stessa formazione disciplinare e le competenze eventualmente maturate nelle scienze dell’educazione.
È cessato il tempo in cui bastava essere conoscitori della propria materia per poter insegnare bene. Qualsiasi programma educativo avanzato, tradotto nell’attuale stesura del POF, non può fare a meno di pensare alla realizzazione della migliore offerta formativa che si può concretizzare solo con la piena partecipazione dei singoli docenti che si sentano coinvolti nel progetto educativo di una didattica flessibile ed aperta. Ciò comporta, e lo si ritiene necessario, di uscire dall’ambito individuale e di non ritenere le materie scolastiche come assoluti (sciolti) campi specialistici, ma di vederle in costante relazione fra loro (interdisciplinarità, multidisciplinarità, transdisciplinarità) integrate in un complesso e modulare sistema con le altre discipline in linea con l’attuale politica scolastica, favorevole ad un didattica aperta e “a carte scoperte“ che elimini in via definitiva la cosiddetta struttura “a canne d’organo“, con cui si vuole indicare il procedere verticale della tradizionale comunicazione disciplinare, per offrire ai docenti una visione il più organica possibile del sapere e dei saperi disciplinari, stimolando in essi la capacità di utilizzare ed integrare conoscenze e competenze al fine di orientare con frequenti richiami interni il diverso punto di vista delle varie materie intorno ad un unico oggetto di indagine. Anche per il latino si avverte pertanto l’urgente necessità di misurarlo con le altre discipline in un più complesso e articolato “progetto curricolare” che, tenendo conto dei particolari tipi di scuola, si preoccupi di considerare la varietà delle discipline col proposito di “coglierne l’intima congruenza, per favorire negli alunni la consapevolezza dell’unità del sapere e della cultura” (Cammarata).
Il docente tradizionale
Tutto ciò costituisce certamente un superamento rispetto alla tradizionale esperienza e formazione dei docenti di lettere di alcuni anni fa i quali, come nota Flocchini: “entravano nella scuola dirittamente dall’università, dopo aver superato un durissimo concorso nel quale venivano verificate unicamente le competenze culturali: dovevano saper scrivere in latino (6), saper tradurre e commentare un numero molto elevato di opere (…) mentre non era richiesta alcuna formazione di tipo psicopedagogico o almeno didattico. Essi, di conseguenza, nelle loro classi si aggrappavano all’unica certezza che possedevano, riproducendo, magari con qualche “personalizzazione” l’operato dei loro professori di liceo e l’impostazione ricevuta all’università.Vivevano in un’organizzazione sostanzialmente autoreferenziale che difendevano con forza da qualsiasi tentativo di innovazione, avvertito come un attentato alla loro sacralità (7)”. Un tempo al professore di latino di liceo non si richiedeva altro se non la competenza disciplinare che bastava da sola perché svolgesse nel migliore dei modi la sua funzione, poiché la scuola tradizionale, che purtroppo ancora sopravvive, immo in senatum venit, risultava caratterizzata da un procedimento verticale della trasmissione di un sapere affidato esclusivamente alla conoscenza di docenti specialisti, spesso chiusi nella prosopopea di una dottrina ontologica. Nella persistenza di una tale situazione e di fronte a resistenze di questa natura sarebbe oggi difficile il solo parlare di innovazione didattica o di “programmazione modulare-interdisciplinare”, in quanto proprio quando ci si accinge a trasferire sul terreno della pratica educativa i nuovi metodi sorgono diversi problemi, giacché spesso ci si scontra o con una vecchia mentalità di resistenza burocratica o con la mancata disponibilità di molti colleghi. Non tutti, infatti, sono disposti ad abbandonare l’orticello della loro rassicurante ed abitudinaria professionalità, uscendo dall’ambito individuale, per affrontare l’impegno collettivo di un progetto interdisciplinare con la realizzazione di percorsi variamente orientati e centrati, ad esempio, o su un periodo storico (interdisciplinarità temporale) o su un tema specifico (interdisciplinarità tematica) o su un concetto-definizione (interdisciplinarità critico-problematica).
(2° modulo) - Modelli teorici della didattica del latino
Il metodo tradizionale
Potrebbe sembrare arrischiato parlare di didattica del latino a colleghi della stessa materia; due cose me ne forniscono il coraggio, trent’anni di esperienza di insegnamento nei licei e l’abito della ricerca affinato nell’Università. Ma farò in modo di affrontare il discorso concretamente nel modo più semplice possibile e senza appesantirlo con eccessivi dati psicopedagogici. Per semplificare al massimo, riducendoli a cinque e passandoli rapidamente in rassegna, si punterà l’ attenzione sui più importanti modelli teorici adottati con alterna fortuna nell’ultimo trentennio, sia per indicarne pregi e difetti sia con il preciso proposito di chiarire anche il nostro personale orientamento che comunque non vuole essere esclusivo né vincolante nelle scelte che ciascun docente della materia andrà a fare in assoluta libertà.
Il primo metodo di cui parleremmo è quello tradizionale, a proposito del quale qualche riferimento è stato fatto precedentemente, almeno in generale. Si tratta ora di definirlo meglio sottolineandone anche glia aspetti positivi e negativi.Tale metodologia che è anche la più antica, in quanto trova il suo inizio già nella concezione grammaticale dei greci e dei latini, pur avendo subito nel tempo vari aggiornamenti e aggiustamenti, è rimasta si può dire sostanzialmente immutata nei suoi principi generali che sono di tipo nozionale. Il vecchio sistema che ha fatto un po’ la storia dell’insegnamento disciplinare fra Otto e Novecento si può riassumere negli antichi trattati di Schulz e Zenoni che hanno condizionato nel bene e nel male per diverse generazioni l’impostazione del metodo di studio del latino. Così Flocchini sintetizza esaurientemente i procedimenti e le degenerazioni di tale metodo grammaticale che, codificato su quei testi, in modo totalizzante era applicato con continuità negli anni cinquanta dalla scuola media fino al liceo: “Prima l’analisi logica, poi lo studio della morfologia regolare completa di eccezioni, poi quello della morfologia irregolare con qualche “anticipazione” di sintassi, poi lo studio dettagliato e minuzioso della sintassi del caso seguita dalle ”particolarità sintattiche e stilistiche”, poi quello del verbo e infine quello del periodo: il tutto da verificarsi, a partire dalla prima media, con la versione dall’italiano in latino e, per i più bravi, con la composizione (obbligatoria nelle prove universitarie e di concorso a cattedra)” (8).
Il peso delle variabili
Il metodo Schulz-Zenoni era di tipo rigorosamente grammaticale e mnemonico e certamente adatto a sfruttare la memoria ancora fresca di alunni preadolescenti che venivano gravati del più complesso apparato morfologico, fatto non solo di regole prefissate ma anche di un elenco interminabile di eccezioni che venivano acriticamente e tediosamente mandate a memoria. La metodologia tradizionale di tipo deduttivo, certamente adatta ad un insegnamento del latino definito da Piazzi “tradizionalmente lungo”(9), cioè proprio di una scuola che anticipava lo studio del latino a dieci anni e lo protraeva per otto, risulta oggi superato non tanto perché le teorie grammaticali del passato debbano essere totalmente rifiutate, ma in quanto l’impianto della nostra scuola, in particolare quello superiore, riducendo lo studio del latino a cinque anni, ne impedisce il lungo e rigoroso svolgimento.
Nessuno è più di noi convinto che lo studio di una lingua classica venga effettuato con rigore e precisione. Anche i fautori del metodo breve, come nota Flocchini, sanno che “l’apprendimento della lingua latina, per avere un qualche senso sul piano formativo, esige tempi ampi e distesi”. Non è possibile, in altri termini, fare “riduzioni” o “sconti”: nessuna metodologia e nessun artificio (…) sarà mai in grado di eliminare la necessità di memorizzare e di “macinare“ la morfologia del nome e del verbo, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per accostarsi con un minimo di consapevolezza (e quindi di profitto formativo) a un testo. E per impratichirsi decentemente delle strutture linguistiche di base ci vogliono tempo, impegno, disponibilità“(10). Ma c’è da prendere in considerazione anche il fatto fondamentale che ogni scelta didattica non può ignorare il peso delle variabili, che in questo caso sono rilevanti, e tra esse, prima di quelle cosiddette esterne dell’organizzazione strutturale e oraria disciplinare, il problema della maggiore età degli alunni che impone conseguentemente scelte didattiche differenti. Non tanto il padre Freud quanto piuttosto gli studiosi dell’età evolutiva hanno sottolineato il fatto che i relais della memoria, che sono attivissimi nella fase preadolescenziale, cominciano ad indebolirsi a quattordici anni, cioè proprio nel momento in cui pretendiamo che un giovane li debba usare per incasellare tutta la zavorra delle regole e delle eccezioni. Ma che senso ha ricordare che il sostantivo amussis termina in “im“ all’accusativo singolare se esso stesso è un’eccezione, anzi un’autentica rarità lessicale che si riscontra una sola volta esclusivamente in un passo di un autore tardo come Nonio? Non sarebbe meglio sfruttare le nuove caratteristiche maturate nel frattempo nella mente dei nostri alunni utilizzando invece le associazioni logiche che sono meglio rispondenti alla superiore facoltà di astrazione del loro pensiero? Molte volte basta una regoletta empirica, quasi elementare, per evitare di mettere in moto un macchinoso e complicato apparato normativo. Penso, per esempio, al complicato sistema del genitivo plurale della terza declinazione, che impegnava e forse impegna ancora per settimane i docenti del primo livello liceale, che senza rinunziare alla canonica distinzione dei nomi in parisillabi e imparisillabi, potrebbe essere enormemente semplificato con un elementare enunciato come questo: “tutti i sostantivi della terza declinazione terminano in “ium” tranne gli imparisillabi e i falsi parisillabi“che in fondo si riducono all’esempio precedente se pensiamo a “canis” che prima del latino classico era “can”. Lo stesso vale per gli aggettivi, il cui complicato sistema delle classi andrebbe riportato a quello dei nomi, e i pronomi, lo studio dei quali è opportuno anticipare rispetto alla solita sistemazione a blocchi presente nelle grammatiche tradizionali affiancandolo a quello del verbo; a proposito del quale, dando importanza al sistema della formazione, conviene insistere più su elementi di unificazione quale il comune meccanismo del perfetto piuttosto che fare l’elenco delle coniugazioni regolari e irregolari.
Gli elementi fondanti
Questo non vuol dire abbandonare il rigore linguistico, né trascurare la morfologia, in assenza della quale si avrebbe una conoscenza men che approssimativa di ogni lingua viva o morta che sia, ma si tratta al contrario di renderla più viva e comunicabile senza trascurare di fornire agli alunni la spiegazione scientifica di alcuni procedimenti razionali fondamentali, come quello della combinazione dei temi, delle radici, dei prefissi e dei suffissi, delle desinenze comuni sia al verbo che ai nomina. Inoltre lo studio del latino sarebbe certamente più piacevole e motivato ove fosse affiancato anche dalla pratica etimologica che è tanto più proficua e interessante quando il docente riesce a trovare delle occasioni estraendole quasi spontaneamente dal contesto. Tale procedimento evidentemente non è semplice, ma potrebbe essere tale se applicato con continuità e partendo per esempio dai dialetti locali che contengono spesso diversi latinismi e sono molto stimolanti in quasi tutte le regioni della nostra penisola. Occorre comunque riconoscere che se l’etimologia è un mezzo didattico molto utile e valido esso, non trovandosi di solito sui nostri libri scolastici, è anche difficile da praticare in quanto richiede da parte del docente non solo una conoscenza non superficiale del dialetto ma anche principalmente un’autentica e vasta competenza linguistica che gli può derivare solo da seri ed approfonditi studi di ricerca. Questo, a nostro modo di vedere, renderebbe più complessa ma anche più interessante la pratica dell’insegnamento/apprendimento.
Il metodo eclettico
Si dirà in conclusione che nell’ambito generale della didattica delle discipline classiche, particolarmente in quella del latino, pur proponendosi la modificazione dei metodi, non è il caso di pensare ad uno stravolgimento totale dei principi tradizionali dell’educazione, come presuppongono i rivoluzionari della scuola, ma neppure conviene rimanere ancorati ai vecchi sistemi, come purtroppo fanno molti colleghi, per paura del nuovo. Per quanto mi riguarda ho sempre sostenuto “ciceronianamente” che non v’è cambiamento veramente progressivo senza la conservazione di quelle cose del passato che hanno fatto buona prova al confronto con la realtà. Pertanto sarebbe opportuno nella nostra pratica di educazione e di istruzione non scegliere fra innovazione e tradizione, ma portare ad unità i due termini dell’antitesi secondo il concetto di una più misurata “linea virtutis”. Ciò si rende necessario particolarmente in un’epoca come la nostra caratterizzata da forti accelerazioni e stravolgimenti nella quale, al termine del millennio, come è stato ben sostenuto: “l’educazione viene ad essere lo spartiacque tra una visione ordinata del futuro, a livello individuale, impersonale e collettivo, e una serie di tensioni (politiche, culturali, esistenziali) che richiedono di essere trattati adeguatamente. Ancora una volta, come è sempre accaduto nella storia ‘scritta ‘ dell’educazione, ad essa si richiede di coniugare in modo equilibrato il rapporto tra traditio e innovatio” (Volpi).
Da ciò consegue che nell’insegnamento del latino non vi è da parte nostra alcuna intenzione né di rifiutarne lo studio scientifico né di rigettare le teorie grammaticali dei procedimenti tradizionali quanto piuttosto consigliare ai colleghi di evitare il rischio del grammaticalismo pregiudiziale e ad oltranza. Per superarne le aporie e le contraddizioni, è nostro intendimento, anzi, non senza aver prima sottolineato vizi e difetti, consigliare di recuperare anche da quel metodo ciò che potrebbe essere accordato con le più moderne teorie metodologiche e linguistiche in linea con le indicazioni contenute a margine dei programmi Brocca che, dopo aver sottolineato la particolare attenzione che riveste lo studio linguistico, suggeriscono al docente di latino un prudente eclettismo nella scelta fra diversi modelli grammaticali, tenendo conto consapevolmente nel quadro delle esigenze didattiche della ”situazione di partenza” degli studenti, della “propria competenza” nel settore, della “coerenza fra obbiettivi contenuti e metodi”.
Una grammatica a blocchi
Uno dei limiti più consistenti del metodo tradizionale consisteva in un strutturazione della grammatica a blocchi, cioè in una disposizione a compartimenti stagni delle parti del discorso che procedevano nel seguente ordine: fonetica, morfologia, sintassi.Una tale strutturazione, che apparentemente potrebbe sembrare valida e confacente in quanto procede dall’elemento meno importante e significativo che è la fonetica per giungere, attraverso il termine intermedio (la morfologia) alla sintassi, termine ultimo e più rilevante, è in effetti priva di scientificità dal punto di vista dei risultati complessivi giacché, concentrando in modo dispersivo l’attenzione del discente esclusivamente sulle singole parti e sottoparti del discorso, risultando eccessivamente analitico manca della necessaria sintetica organicità. È risaputo che la cura eccessiva del particolare fa perdere di vista l’insieme. Questo è il maggior pericolo cui soggiace il modello tradizionale: un’eccessiva frantumazione e parcellazione del discorso che rende alla fine poco proficuo lo studio dell’allievo che abituato ad inseguire le minuzie, le parole e la “reguletta“, non è più in grado di riconoscere quello che dovrebbe essere l’oggetto complessivo e primario della sua attenzione, l’organizzazione frasale e sintattica di un testo.
Il metodo strutturale
A quest’inconveniente ha cercato di rispondere il metodo semiologico-strutturale nato nell’area della moderna linguistica (per “Linguistica” si intende qui non la linguistica storica (che pure ha avuto da noi nobili rappresentanti , impostata quasi esclusivamente sul procedimento diacronico, ma quella scientifica e sincronica, istituita dallo studioso ginevrino F. De Saussure, che prende anche il nome di “Generale“) che sostenendo l’importante necessità di collocare il latino nell’ambito più vasto di una più attuale educazione linguistica ha sostituito il metodo grammaticale-nozionistico col procedimento formale-comparativo.
Lo strutturalismo, che deriva i suoi principi epistemologici dalla linguistica generale e dalle scienze cui si ispira, si è posto fin dalle sue origini come “un puro metodo” capace di estendere i suoi postulati e le sue tecniche anche ad una sfera di problemi in genere riservati ad altre scienze. Ciò ha consentito ai formalisti di influenzare e di lasciare una traccia consistente in diversi campi del sapere, comprese le discipline classiche che, assumendo i procedimenti funzionali e semiologici hanno profondamente rinnovato i loro metodi superando, inoltre, una inevitabile crisi di logoramento. Gli studi di G. Proverbio (cfr., Lingue classiche alla prova. Note storiche e teoriche per una didattica) hanno dimostrato il benevolo influsso esercitato dalla linguistica nel campo dell’insegnamento del latino scolastico.
Per capire i legami profondi che uniscono lo strutturalismo allo studio delle lingue moderne e classiche basta aprire le prime pagine del Corso di linguistica generale per ritrovare tante parole e concetti, che si mostrano per la prima volta nel libro e che, sebbene al loro primo apparire fossero ritenuti di portata rivoluzionaria, furono poi utilizzati con profitto nei più disparati campi della ricerca linguistico-letteraria, risultando anche di grande efficacia nell’elaborazione di un nuovo modello didattico del latino: segno, significato, significante, fonema, monema, sincronia, diacronia, sistema linguistico. Quest’ultima espressione qualifica forse meglio di ogni altra l’importante lezione apportata dai seguaci del metodo semiologico che consiste nell’intuizione di riconoscere nella struttura di ogni lingua, antica o moderna che sia, un sistema vincolato e solidale di strutture interdipendenti.
Il modello Tesnière-Haap
L’applicazione del modello strutturale nella pratica scolastica, utilizzato sia nello studio formalizzato della lingua latina (particolarmente il modello sintattico-funzionale della “grammatica della dipendenza” costituito teoricamente da Tesnière ed esteso in campo didattico da Haap, il quale, con l’accrescimento del numero dei “complementi- attanti”, si è preoccupato di rendere il metodo meno schematico e nello stesso tempo più funzionale alla didattica del latino) sia nell’analisi del testo, si è rivelato di grande efficacia, soprattutto nei casi in cui è stato possibile trasferire con un certo successo il procedimento dell’analisi dei livelli (lessicale, sintattico e retorico), già sperimentato nello studio delle opere degli autori italiani, alla lettura di quelle scritture latine (vedi le odi oraziane) che per la loro organica conformazione meglio si prestano ad una lettura di tipo strutturale.
Il modello Tesnier-Haap, risultato di grande utilità sul piano dello studio della lingua tanto da essere applicato con qualche correzione dal Sabatini nello studio dell’italiano, in polemica con il procedimento tradizionale che faceva l’analisi logica dell’enunciato in modo nozionale a partire dagli elementi semplici, che venivano di solito sciolti dal contesto e considerati come parti separate, concentra la sua attenzione in modo sintattico-funzionale sul verbo, insistendo sia sul ruolo primario esercitato da quest’ultimo all’interno della frase sia sulla sostanziale “dipendenza” da esso degli altri elementi funzionali, distinti in “attanti” (gli attori che agiscono, in numero di tre: il soggetto, il complemento oggetto e d’agente) e “circostanti” (quelli che designano le accezioni di tempo, di modo, di luogo etc. molto più numerosi.) Per sottolineare maggiormente il valore del verbo i funzionalisti assegnano ad esso il significativo concetto di “valenza”, mutuato dalla chimica, per intendere la sua capacità di stringere altri elementi linguistici, i complementi vincolati, in grado di saturare a loro volta le valenze dei verbi, che saranno di volta in volta: a-valenti (impersonali), monovalenti ( intransitivi), bivalenti ( transitivi), trivalenti (transitivi e intransitivi insieme).Questo sistema sintattico-funzionale, che ha fatto pensare ad una piccola rappresentazione teatrale, per la sua sinteticità e schematicità viene indicato preferibilmente anche dai sostenitori del metodo breve (11) come quello più rispondente ai requisiti di un modello “nuovo” e antitradizionalista di didattica applicata al latino.
La didattica breve
Sono di questi giorni la requisitoria e l’aggressione polemica nei riguardi della cosiddetta didattica breve(12) che, pensata inizialmente per le materie scientifiche, è stata estesa successivamente anche alle discipline classiche. Essa, il più recente metodo apparso nella storia dei procedimenti educativi, è stata definita dai più benevoli “le dernier cri”, l’ultima novità alla moda di questa nostra epoca caratterizzata dal consumo del “pret à porter“ e “pret à geter“, dove anche i metodi della didattica, come quelli della cultura, sono soggetti all’inesorabile legge dell’obsolescenza: tutto dura poco e presto o tardi va a finire nel limbo del sentito dire. Ora proprio a favore di questa bistrattata “didattica breve“ vorrei spendere qualche parola di difesa col sostenere, prima di tutto, che essa non è certamente inutile, altrimenti dovremmo ritenere senza fondamento le attività di sostegno e di recupero che in qualche modo si ispirano ad essa. I sostenitori della didattica breve sono stati accusati dagli immobilisti di voler ridurre ai livelli più semplici i processi dell’insegnamento-apprendimento, di “bignamizzare“ il sapere semplificandolo troppo. Diremo a loro difesa che il metodo breve, reagendo all’angoscia dello smaltimento dei programmi, che col passare del tempo si vanno facendo sempre meno sostenibili, risponde benissimo, pur non essendo un rimedio definitivo e infallibile, al bisogno di “elementarità“ del nostro tempo. Che questo concetto non vada confuso con la banalizzazione dei metodi, nel senso di una loro eccessiva semplificazione, è stato così chiarito di recente: “La scuola non può inseguire le discipline nelle loro frontiere sempre più avanzate, aggiungendo nuovi contenuti o anticipazioni di tratti specialistici, al contrario deve recuperare l’attenzione alla “elementarità”. L’aggettivo “elementare“ non è infatti sinonimo di “semplice“ perché contiene anche una connotazione costruttiva che deriva dal suo etimo di “essere elemento“. È elementare un contenuto che, pur nella sua semplicità, ha una caratteristica fondante, in quanto alla base di un sapere più complesso, e che permette di avvicinarsi a costruzioni teoriche più elaborate e di aprirsi a consistenti approfondimenti disciplinari” (Palma). Ne consegue che la “didattica elementare“ non è una pratica per asini, ma al contrario parte integrante essa stessa di quel modello già ricordato di organizzazione e progettazione modulare in grado di ovviare alla rigidità della didattica tradizionale e di realizzare proprio con l’allestimento di fondamentali moduli elementari (da intendersi quali sezioni, “elementi” appunto, di un più complesso progetto didattico) quella flessibilità, reversibilità, trasferibilità di esperienze formative difficili da realizzare in un “sistema ingessato”, immobile, caratterizzato da eccessiva rigidità come il nostro.
In che cosa si gioverebbe, quali vantaggi potrebbe trarre l’insegnamento del latino dall’applicazione della “didattica breve“? Visto che i curricoli scolastici si profilano sempre più ristretti per questa disciplina sia per la già avvenuta riduzione oraria, sia a causa dell’invadenza sempre più massiccia di nuove materie come l’economia, il diritto e l’informatica, che in modo progressivo insieme alle lingue moderne prendono il posto delle discipline tradizionali, erodendo sempre più spazio all’insegnamento del latino, non sarebbe inopportuno rivedere in sede di programmazione l’estensione dei programmi disciplinari in relazione con la loro durata. La necessità di una più conveniente utilizzazione del tempo per conseguire “un massimo di conoscenza della lingua in un minimo assoluto di tempo” (Happ), senza comunque intaccare gli standard orari che risultano già ridotti, si impone oggi più per il latino che per le altre discipline alle quali, inoltre, come si è detto non tocca il triste destino dell’inaccettabilità da parte degli studenti. Pertanto le mutate condizioni, come dice Piazzi, esigono per il latino sia “brevità” e contrazioni “quantitative” e “qualitative” sia “flessibilità” nell’applicazione della sua didattica rispetto alle altre materie del curricolo. Quest’ultimo, proprio a causa della sua complessità, richiederebbe una progettazione curriculare di tipo collegiale effettuata da docenti in possesso di una specifica professionalità e capaci di riconoscere quella linea culturale che corrisponde ai fondamenti epistemologici delle singole discipline. Tutto quanto in ogni caso dovrebbe avvenire anche prudentemente e con studio, in modo tale che qualsiasi innovazione didattica si realizzi gradatamente ed evitando il pericolo di innescare procedimenti distruttivi all’interno di un sistema come quello della scuola liceale che, per sua natura e durata (particolarmente quello classico) vive di equilibri abbastanza instabili.
Il metodo “ globale”
A questo punto, dopo aver sottolineato che ciascuna delle metodologie prese in esame è in grado di offrire qualcosa di positivo nella strutturazione di un procedimento “eclettico“, che è quello che in ultima analisi si consiglia di applicare al docente di latino, non ci rimane che accennare brevemente, più per rispetto del tema che per la sua validità, al modello diretto che viene indicato anche come “globale” o “naturale”. Questo metodo induttivo, che per la sua natura risulta l’opposto di quello “tradizional“ che invece, data la necessità pregiudiziale e fondante della norma, si qualifica quale “deduttivo “, pur avendo ottenuto risultati apprezzabili nello studio delle lingue vive moderne, in particolare anglosassoni, non ha trovato, a parte qualche favore iniziale, molto seguito presso i docenti delle discipline classiche per la sua prevalente empiricità.
Il procedimento “globale“ costituito da Decroly per l’insegnamento primario,(settore educativo nel quale è stato applicato con notevole successo in quanto al livello elementare la lettura complessiva di un brano di lettura nella lingua madre, effettuata inizialmente senza l’enunciato della regola, aiuta certamente alla sua comprensione generale senza un eccessivo dispendio intellettuale) si è rivelato meno proficuo nello studio di una lingua “conclusa“ come il latino che non può fare a meno della regola grammaticale.
E’ certo che tra l’italiano, in quanto lingua materna, e il latino quale lingua d’arte, a parte la necessaria continuità (come dimostrano i seguenti derivati: tetto da tego, valenza da valeo, decreto da decerno, contratto da contraho, effetto da efficio, commesso da committo, etc.) esistono anche belle differenze, che è possibile innanzitutto riconoscere nella natura analitica dell’italiano rispetto a quella sintetica della lingua di Roma, assolutamente coerente, chiara, schietta e abituata a dire pane al pane vino al vino (13), come dimostra lo stile delle epigrafi e quello non meno “lapidario” delle opere storiche di Tacito, la cui traduzione italiana risulterebbe decisamente più estesa rispetto al testo corrispondente dell’autore latino, essenziale ed ellittico. Ma, data la diversità del modello stilistico degli autori (l’abruptum genus dicendi di Sallustio è simile a quello di Tacito, ma lontanissimo se non proprio contrario alla concinnitas di Cicerone), ne risulta che il contatto con gli autori latini non può avvenire senza lo studio delle loro qualifiche stilistiche, in quanto la mancata conoscenza da parte nostra dello standard (14) linguistico del latino va coniugata col fatto, come sostiene Mandruzzato, che “in nessuna letteratura si riconosca la mano dell’autore, indipendentemente dal pensiero, così presto come in quella latina. Scrivere imponeva una necessità di stile; non ci fu mai la medietà...” (15)
Occorre dire, inoltre, che anche qui conta la fondamentale variabile della maggiore età degli alunni della scuola liceale che, in possesso del pensiero astratto, non farebbero certamente fatica a sostenere uno studio anche normativo. In ogni caso a proposito dell’adozione del modello “diretto” , analogamente a quanto si è detto per gli altri metodi, occorre riconoscere una certa validità soprattutto se si considera la funzione di antidoto da esso esercitata nei riguardi del procedimento tradizionale, eccessivamente deduttivo e grammaticale. In alcuni casi è risultata anche giovevole l’applicazione ludica dei fumetti (come la traduzione latina di Pinocchio o delle avventure di Asterix) e dei giochi di simulazione suggeriti dai sostenitori del metodo globale per rendere più lieve e piacevole lo studio linguistico.
(3° modulo) - Latino oggi: obiettivi, finalità, contenuti
A questo punto, dopo l’analisi dei modelli didattici, non ci rimane che scendere sul terreno dell’esercizio diretto di applicazione delle stesse metodologie per affrontare l’importante questione delle finalità, degli obiettiv e dei contenuti necessari all’insegnamento del latino.
Anche a proposito dei primi due termini, apparentemente equivalenti, analogamente a quanto si è fatto a proposito di disciplina e materia “è uopo che ben si distingua”, in quanto per finalità si deve intendere, come rivela il suo significato, non tanto l’acquisizione già raggiunta dei contenuti disciplinari quanto piuttosto gli scopi finali, dichiarati espressamente nella programmazione, che il docente di latino e con lui la scuola si propone di conseguire al termine del curricolo liceale nell’opera di formazione di un giovane nel senso di “sapere” (riassunto da noi nella seguente formula: lingua + storia = civiltà), “saper fare” (decodificazione di un messaggio non solo letterario in lingua latina), “Saper essere” (che coincide con l’importante significato della valenza formativa da noi precedentemente assegnata allo studio del latino quale disciplina in grado di garantire certi e duraturi risultati educativi) mentre per obiettivi si deve intendere piuttosto la definizione della prestazione educativa finale coincidente con la somma dei risultati raggiunti, osservabili ed “obiettivamente” valutabili, in termini di abilità e competenze acquisite (soprattutto la cosiddetta competenza linguistica dimostrata prevalentemente dalla acquisita capacità di sapere analizzare, comprendere e tradurre un testo latino) attraverso l’uso degli strumenti utilizzati ed il possesso dei contenuti impiegati al termine di una sezione anche parziale di un particolare percorso didattico. In attesa di una più precisa definizione degli obiettivi e dei relativi contenuti necessari a conseguire fondamentalmente una tale competenza linguistica, ci limiteremo ad elencare in modo articolato alcune delle finalità educative del latino che sono state prospettate, siano esse fondate o scarsamente motivate, col preciso proposito di indicare anche in modo problematico, alla resa dei possibili risultati, la loro validità ed attuabilità.
Il transfer
Si è detto da sempre che il latino aiuta a ragionare, che lo studio della grammatica e della sintassi della lingua di Roma equivale ad un’autentica ginnastica mentale in grado di strutturare una robusta forma mentis analoga a quella che si costituisce attraverso il calcolo matematico e i procedimenti del metodo scientifico.Ciò è stato sottolineato non solo dai docenti, conservatori e fautori ad oltranza della disciplina, ma anche da uomini disinteressati e dalla mentalità progressista come Gramsci che, dopo aver indicato nell’ideale umanistico un fatto essenziale alla vita a alla cultura della nazione, ha sottolineato nei suoi Quaderni che “il latino non si studia per imparare il latino”, cioè solo per le sue intrinseche qualità, ma “come elemento di un ideale programma scolastico” nel quale ciò che si apprende nello studio di un disciplina può essere, ad esempio, utile per apprendere altro. Tale principio della trasposizione, che viene indicato come transfer dai moderni studiosi della linguistica, non diciamo sia inattuabile o inutile, come dimostra l’uso del latino che è stato fatto negli Stati Uniti per consentire un più ampio apprendimento dell’inglese da parte di parlanti provenienti dalle aree dell’America latina, ma non è detto debba ritenersi valido in senso assoluto.
Oggi si arriva addirittura a mettere in discussione il cosiddetto privilegio della logicità del latino, a proposito del quale nota giustamente Sabatini: “non si tratta di una logica concettuale, ma puramente grammaticale, legata cioè al riconoscimento delle forme del soggetto, dell’oggetto, del neutro, del passivo, ecc., tutte categorie niente affatto concettuali e universali (…) lo studio del latino non dà, di per sé, più allenamento logico di quanto non ne dia lo studio, condotto alla stessa maniera, di altre lingue. Altre discipline come la matematica, la geometria,) il diritto, l’economia, l’informatica (per non parlare di attività come il gioco degli scacchi) possono darne anche di più”(16).
L’educazione linguistica
Certamente più motivato e motivante, tra le finalità, lo studio del latino rivolto sia alla formazione di una più completa educazione linguistica sia alla penetrazione della nostra civiltà per sondare le sue profonde radici europee. È certo che una compiuta educazione linguistica, conseguita con studio attento e sistematicità all’interno del curricolo liceale, è dimostrata prima di tutto dalla capacità di decodificare e di padroneggiar una notevole quantità di messaggi letterari e linguistici di una certa complessità, non esclusi quelli settoriali della scienza e della tecnica, che per essere decifrati richiedono un’estesa competenza linguistica.
Nella nostra società il linguaggio intellettuale-tecnicizzato, proprio delle scienze naturali e sociali, della medicina, dell’economia, del diritto, dell’informatica ecc., estendendosi progressivamente, ha raggiunto un altissimo livello di specializzazione tale da richiedere una elevatissima formazione non solo di tipo scientifico ma anche il possesso contemporaneo delle “due culture“(17). È stata giustamente sottolineata l’indispensabile funzione propedeutica esercitata dalla conoscenza del latino ai fini della “comprensione di ogni discorso di carattere speculativo-epistemologico e più generalmente teorico, quali sono eminentemente, anche a livello scolastico, quelli della filosofia, del diritto, della logica, e degli aspetti più concettuali della matematica e delle scienze naturali: tentare la comprensione di tali discorsi senza dominarne il linguaggio è come tentare lo studio della matematica senza conoscere i numeri”(18). Il mondo del sapere e quello dell’odierna ricerca scientifica richiedono, pertanto, che i giovani abbiano, accanto a salde conoscenze specialistiche, anche una sicura preparazione di base che sottolinei la necessità, sul piano logico-linguistico, dello studio delle lingue moderne, in particolare l’inglese, e delle discipline classiche, tra le quali il latino in maggior misura del greco (che è presente, in modo piuttosto fossilizzato, prevalentemente nel linguaggio intellettuale di alcuni settori disciplinari del sapere come ad esempio quelli della medicina e della politica) dovrebbe avere un ruolo fondamentale, se non proprio preminente a causa della sua continuata funzione di tramite tra la cultura umanistica e quella di tipo tecnico-scientifico, come dimostrano le diverse migliaia di termini di origine latina presenti nella lingua di Shakespeare che ancora aspettano di essere decifrati. La grande considerazione di cui gode oggi l’inglese potrebbe suggerire, a questo proposito, l’applicazione del metodo della “trasposizione” in un progetto interdisciplinare di studio linguistico comparato, avviato e gestito in collaborazione dai docenti di latino e inglese, che, facendo cadere le barriere disciplinari, coinvolgerebbe certamente anche i discenti suscitando in loro un interesse aggiuntivo.
Non si dimentichi che il latino è stato per molti secoli la lingua della scienza e che, a parte la scelta provocatoria operata da Galilei di sostituirlo da noi con l’italiano, esso ha continuato anche successivamente ad avere in tutto il mondo occidentale tale attribuzione fino a quando non è stato sostituto nel settecento dal francese, che per molto tempo ha avuto una funzione analoga a quella ricoperta attualmente dall’inglese che esercita oggi nei rispetti delle lingue moderne quel ruolo dominante di “lingua del superstrato” rivestito per tanti secoli dalla lingua di Roma, come testimonia la grande quantità di termini e di strutture semantiche di chiara ascendenza latina immesse nelle lingue europee non solo nel passato.
A parte le espressioni e i frequenti latinismi facilmente riconoscibili, penetrati nella nostra lingua e ancora in servizio permanente effettivo in ogni settore della quotidiana vita sociale (par condicio, ex aequo, sine die, agenda, debellare, inibito, disinibito, tellurico, siderale, Caritas, Iuventus, Alexander, induzione, deduzione, etc.) occorre sottolineare la presenza di parole latine nei vari linguaggi settoriali, che molte volte giungono a noi inaspettatamente ritrasmesse per altra via e sotto altra forma, come accade ai cosiddetti “anglo-latinismi”, che spesso non vengono riconosciuti, o a certi termini del linguaggio informatico (non tutti sanno che lo stessa parola computer risale al verbo latino computare, per non parlare degli altri latinismi: data, dolete etc.), che talvolta vengono erroneamente pronunziati all’inglese da quanti non sono in grado di ricondurli alla comune matrice antica. Infatti non è infrequente sentire sinior in luogo di senior e midia invece di media, che è niente altro che il plurale del neutro medium. Un docente fornito di buona sensibilità linguistica e dotato del possesso comune delle due lingue potrebbe certamente evitare il precoce consolidarsi di un tale uso erroneo nei suoi alunni.
La sensibilità storica: dal latino all’italiano
È innegabile il notevole contributo esercitato dallo studio del latino, già a partire dai primi anni del biennio e via via perfezionato ed approfondito nel triennio, ai fini della formazione di quella sensibilità storica che con una sintesi tra una visione critica del presente e la memoria del passato consente l’accesso ad un patrimonio culturale che ha segnato tutta la storia che, partendo dagli antichi, attraverso il Medioevo e l’età moderna, è giunta fino a noi. È proprio questa, secondo le indicazione contenute nei”Piani di studio” formulati dalla Commissione Brocca per l’indirizzo classico, la prima finalità generale delle discipline classiche:”fare accedere gli alunni, grazie allo studio congiunto del latino e del greco, ad un patrimonio di civiltà e di tradizioni in cui si riconoscono le nostre radici”.
È stata precedentemente sottolineata l’importante necessità di situare l’apprendimento del latino all’interno dei procedimenti metodologici delle più moderne scienze linguistiche e la fondamentale lezione derivata al latino dall’applicazione dei procedimenti della linguistica generale, soprattutto per quanto riguarda l’acquisizione dell’idea di sistema linguistico e del suo funzionamento, ora è il caso di parlare della particolare utilità del possesso della lingua latina ai fini della conoscenza dell’italiano.
Senza negare l’innegabile principio della continuità della nostra lingua dal latino, dimostrata dal fatto che la maggior parte dei fenomeni linguistici dell’italiano sono da situare nell’area della lingua di Roma e da una così frequente derivazione del nostro lessico da quello latino da farci ritenere che la nostra lingua è null’altro che una nuova costruzione edificata quasi interamente con materiale antico, occorre anche indicare le differenze e il pericolo che si corre nel ritenere come assolutamente contigue due lingue che in alcuni casi dimostrano anche di essere diverse, se non proprio estranee a causa del loro statuto epistemologico non propriamente omogeneo. La loro diversità è del resto storicamente spiegabile col fatto di appartenere a due società distinte: agro-pastorale, almeno nelle sue origini quella romana, appartenente ad una civiltà tecnologica e ultra-industriale la nostra.
Gli studiosi della filologia romanza, primo fra tutti Auerbach (cfr., Introduzione alla filologia romanza), ripercorrendo le vicende della formazione delle lingue volgari, hanno sottolineato, accanto alle analogie, anche le profonde differenze che distinguono la lingua di Roma, quantitativa e flessionale, dall’italiano, caratterizzato da un diverso sistema a causa della presenza dominante dell’accento, agente principale delle trasformazioni morfologiche che hanno determinato in generale la disgregazione del complesso sistema del latino per generare un sistema linguistico completamente diverso, meno complesso e più pratico. La disgregazione del precedente sistema, dovuto principalmente alla caduta dei casi, è avvisabile, prima che nella morfologia, soprattutto nell’organizzazione sintattica della frase che in latino era libera, nel senso che l’autore classico, proprio in virtù delle desinenze, aveva la disponibilità di collocare a suo piacimento i nomina nel tessuto sintattico, mentre essa nel passaggio all’italiano s’irrigidisce generando un obbligatorio ordo frasale. Ciò può essere meglio dimostrato con un semplicissimo esempio: mentre in latino è possibile che io disponga a piacimento gli elementi dell’ espressione venator necat lupum, perché anche invertendo gli addendi il risultato non muta; per l’italiano ciò non è possibile a meno di non barattare un nobile trofeo di caccia con un bel funerale. Dal punto di vista lessicale si riscontrano inoltre altri fenomeni quali: la tendenza ad abbandonare parole(al verbo classico edere si sostituirà, per esempio, il più pratico e popolare manducare (da manus ducere) che si evolverà nel nostro mangiare, equus sarà sostituito da caballus, l’aggettivo volgare bellus prenderà il posto di pulcher), ad ufficializzare l’uso dei diminutivi (ad avis si sostituirà avicellus, dal quale il nostro”uccello”) che erano un’eccezione nell’uso degli scrittori classici (si pensi agli ocelli di Lesbia di Catullo) a coniare con procedimenti diversi parole nuove (il nostro “lunedì” è nato dalla fusione dei termini lunae e dies). Anche se nella nostra lingua sopravvivono parole del tutto simili a quelle della lingua di Roma, ciò non vuol dire che ci ritroviamo di fronte a due idiomi propriamente omologhi.
Che il latino e l’italiano, nonostante i già dimostrati rapporti di derivazione, siano due lingue diverse se ne accorgono prima di tutto i nostri alunni, e non esclusivamente quelli del primo livello, allorché cadono in errore qualora, ignorando o dimenticando che la lingua di Roma ha subito nell’arco dei secoli processi di modificazione, in alcuni casi di alterazione delle sue strutture linguistiche, pretendono di assegnare nella traduzione italiana lo stesso significato a parole semplicemente omofone come: casa, fides, pietas, industria ecc., le quali, pur risultando perfettamente identiche nella forma, hanno assunto nella nostra lingua accezioni del tutto diverse. Non è difficile, pertanto, nell’esercizio di traduzione incorrere in errori ed equivoci del genere soprattutto quando non si sia in possesso convenientemente sia del lessico di una lingua sia dei sui mutamenti storici. A questo punto, innestandosi, l’opera del docente può essere fondamentale se riesce ad insegnare ai suoi allievi in modo sistematico a smontare ed esaminare con la massima attenzione qualsiasi struttura verbale abituandoli ad utilizzare tutte quelle notizie semantiche (radici, prefissi, suffissi, fenomeni di raddoppiamento, ecc.) che stanno alla base del sistema linguistico del latino, all’interno del quale l’alunno deve sapere innanzitutto che incontrerà parole “amiche“ (quelle che gli sono più familiari in quanto conservano, almeno quanto alla radice essenziale, la stessa forma e lo stesso significato), parole “nemiche” (quelle mai viste prima e di difficile identificazione), le “false amiche”, cioè le parole infide precedentemente ricordate, le più pericolose e da tenere particolarmente sotto osservazione per loro ambiguità dovuta proprio a quel quid di familiarità che potrebbe facilmente trarre in inganno un traduttore inesperto.
Quest’ultimo procedimento ludico-analogico, proprio del metodo “naturale”, si può consigliare per l’inizio del curricolo ginnasiale, successivamente tutto si farà in modo più scientifico, applicando progressivamente i procedimenti della moderna linguistica al latino e coniugando il metodo etimologico con quello storico-comparativo che produrrà sicuramente risultati più proficui nella prima classe del triennio liceale allorché il docente di latino, approfittando del programma comune con l’italiano, che prevede inizialmente la genesi delle lingue volgari, potrà far seguire ai suoi allievi, e con maggior ragione di causa, tutto il percorso che la lingua di Roma ha compiuto dalle origini fino alla formazione dell’italiano e delle altre lingue neolatine.
Icontenuti
Se è fondamentale la definizione degli obiettivi didattici del latino, sia generali che particolari, non meno importante è la determinazione precisa dei contenuti che li sostanziano. Se è vero che essi vivono solo in un rapporto di reciprocità (nella seconda parte del programma della relazione Brocca l’elencazione dei contenuti d’insegnamento non senza ragione è affiancata al quadro degli obiettivi di apprendimento) ne consegue che quanto più gli obiettivi sono chiaramente definiti tanto più pretendono di essere riempiti di contenuti perché non si corra il rischio che anche le affermazioni teoriche espresse con sicura convinzione siano vanificate nella quotidiana azione didattica. A proposito dei contenuti occorre dire che essi sono del tutto corrispondenti agli obiettivi anche nei nomi, pertanto, usando per qualificarli gli stessi termini, parleremo per il biennio di contenuti corrispondenti ad unacompetenza linguistica di primo livello con riferimento a fonetica e prosodia, morfosintassi e lessico, conseguentemente definiremo contenuti di secondo livello quelli corrispettivi del triennio che consistono, come si è detto, nel ampliamento e nel consolidamento della competenza linguistica e nella conoscenza approfondita della storia letteraria e degli autori classici.
Nelle pagine precedenti parlando delle finalità e degli obiettivi di insegnamento/apprendimento a più riprese sono stati fatti anche riferimenti non solo impliciti ai contenuti che sostanziano o dovrebbero sostanziare lo studio del latino nella scuola liceale; pertanto, quanto a quest’ultimo problema, riprendendo o riassumendo quanto è stato già detto precedentemente, ci limiteremo a rincalzare gli stessi concetti relativamente alla questione dello studio grammaticale e morfologico aggiungendo qualche nota in più necessaria a qualificare meglio quegli aspetti che precedentemente non hanno avuto completo e necessario sviluppo, come ad esempio la sintassi o il problema del lessico, che secondo noi è di capitale importanza, o quello della prosodia che risulta fondamentale sia ai fini di un’esatta lettura del testo in prosa da parte degli studenti sia per gettare basi più consistenti a proposito delle strutture metriche della poesia.
Il problema del lessico
Tutti quelli che in qualche modo hanno a che fare con la didattica delle discipline classiche, studiosi specialisti o semplici docenti sanno che la questione del lessico è un passaggio preliminare di fondamentale importanza nella prospettiva dell’apprendimento del greco e del latino. Per quanto la lettura di un testo latino risulti in un certo senso più semplice a causa della struttura meno chiusa, talvolta catafratta, della lingua greca, (che per il più ristretto numero di vocaboli e la scarsa familiarità con il lessico italiano, presenta maggiori difficoltà di apprendimento da parte degli alunni al punto che anche un grande filologo come G. Pasquali è giunto a suggerirne l’apprendimento mnemonico), l’acquisizione del lessico latino è non meno problematico, come dimostra la frenesia con la quale i nostri alunni sfogliano il vocabolario alla disperata ricerca di frasi e parole comuni con la speranza di risolvere le manchevolezze del loro lessico. È questo un deficit che essi non potrebbero risolvere neppure affidandosi a quel quid di apparente familiarità che esiste fra l’italiano e il latino, che, malgrado la storica continuità, risultano alla resa dei conti lingue più estranee che familiari.
Bisogna premettere che l’apprendimento del lessico latino, diversamente da quello greco, è un problema che si risolve non attraverso la memorizzazione ma all’interno di un programma didattico che non può essere disgiunto da una riflessione che abbia come obiettivo fondamentale l’analisi del sistema linguistico e la comprensione del testo quale elemento integrante di esso. Non è pensabile di poter entrare nella comprensione di un testo senza il possesso e la padronanza del lessico (che non presuppone semplicemente l’apprendimento mnemonico di parole singole, ma il loro inserimento all’interno di una complessa rete di termini analoghi che a loro volta costituiscono il totum dell’ intero sistema linguistico) o sperando, come accade alla maggior parte dei nostri allievi, che pretendono di risolvere il problema affidandosi esclusivamente e in modo esteriore al dizionario che, essendo semplicemente uno strumento, analogamente agli altri, se ben utilizzato può risultare prezioso, può al contrario portare a catastrofici risultati nel caso in cui lo studente non sappia utilizzarlo. Per questo riteniamo che uno dei doveri fondamentali di un docente del ginnasio sia quello di far conoscere per tempo agli alunni i pericoli che possono derivare da un impiego distorto del vocabolario e degli altri strumenti (eserciziari, repertori grammaticali, traduzioni e commenti, enciclopedie specializzate, audiovisivi e nuove tecnologie: il cui uso può benissimo essere iniziato, insegnato e disciplinato in classe dal docente, data la consistente disponibilità oraria del biennio) prima di educarli con paziente attenzione ad un’utilizzazione intelligente di essi con la prospettiva di ottenere progressivamente nel tempo convenienti risultati. È questa una fase fondamentale in quanto proprio qui, come si legge nelle indicazioni Brocca sull’insegnamento della lingua latina, “si costruisce e si consolida così un metodo di studio che rende lo studente sempre più libero nell’uso degli strumenti e nell’interpretazione dei linguaggi della cultura“.È qui che l’allievo deve apprendere che per entrare nella comprensione del testo non deve limitarsi alla passiva ricerca delle parole ma deve possederle in toto non quali entità astratte e senza vita, ma come organismi dotati di una logica strutturale interna che modificandosi (ciò accade anche alle radici per effetto di quel fenomeno stilistico tipicamente indoeuropeo che è l’apofonia o gradazione vocalica) vivono nel complesso del loro sistema linguistico.
Gli strumenti
Qualcuno potrebbe dubitare circa l’organicità e la vitalità di una lingua ormai caduta in disuso, dimenticando che in ogni caso quella lingua morta è in grado di parlarci con la viva voce degli autori classici che hanno affidato ai testi un messaggio nel quale è racchiusa tutta la loro anima. Tocca a noi prima di tutto scoprire e rivitalizzare quell’anima insieme al loro pensiero per poi educare i giovani a fare altrettanto fornendo loro i migliori strumenti ad intenderli e a fruirne.
Il primo essenziale strumento di comprensione di un testo è dato proprio dal vocabolario che non consiste solo in un insieme di parole situate al di fuori di noi, ma è necessario al contrario che sia dentro di noi, nel senso che occorre innanzitutto farsi il lessico, foggiarsene uno proprio con studio attento e sistematico. A questo proposito bisogna convincere gli studenti che il dizionario non è un catalogo di nomi come l’elenco telefonico, ma è un insieme complesso, un libro completo che, per quanto contenga solo in pillole, o meglio in parole, tutta la storia della lingua di Roma, merita per questo di essere letto con attenzione e studiato con cura più che essere semplicemente consultato. Per sottolineare questa necessità, ma anche per fare intendere più chiaramente ai nostri alunni quale sia la vera natura di un dizionario sicché possa essere utilizzato nel migliore dei modi, è opportuno ricordare la similitudine metaforica impiegata da Mandruzzato (19) che, definendo il vocabolario una città di parole, lo assimila ad un condominio all’interno del quale le parole dimorano: non conviene limitarsi a suonare i campanelli di tutti gli appartamenti per poi fuggire, come fanno i monelli, ma sarebbe opportuno bussare ed aspettare che i proprietari (fuor di metafora le parole) ci aprano per farsi conoscere non solo superficialmente, sia singolarmente attraverso l’individuazione del loro centro semantico (coincidente con la radice cui sono da connettere prefissi e suffissi ), sia come appartenenti ad aree verbali omogenee (le cosiddette famiglie di parole unite fra di loro da una stretta rete di legami) iscritte a loro volta nel più generale sistema linguistico.È sconsigliabile, in ogni caso, suggerire esclusivamente l’utilizzazione della memoria per apprendere il lessico latino, come si pretendeva di fare nella scuola tradizionale, ma sarebbe certamente più conveniente, come si è detto, per favorire un approccio linguistico di tipo sincronico adottare l’analisi morfologica dei termini, coniugando gradualmente al sempre valido metodo etimologico i procedimenti comparativo-strutturali. Ma se proprio si vuole rafforzare, insieme con la loro memoria, la conoscenza verbale degli studenti si ricordi loro che non c’è niente di meglio per formarsi un lessico proprio che scrivere sempre, annotare continuamente i risultati delle le proprie scoperte, conoscenze verbali e linguistiche in un paziente ed attento lavoro di schedatura da affiancare allo studio del vocabolario.
Lo studente protagonista attivo
Sarebbe opportuno, come sostiene Flocchini, che lo studente fosse non tanto soggetto passivo ma protagonista attivo nel processo del suo apprendimento, ma perché ciò possa realizzarsi è indispensabile che il docente, in particolare quello del primo livello, assumendo le vesti di tecnico di laboratorio impegni gli alunni a compilare schedari dei casi ed archivi sintattici, se mai incentivando anche le attuali potenzialità dei giovani nell’uso del computer per allestire cartelle di file, contenenti tutti i dati schematizzati e raccolti col proposito di formare un archivio telematico o nel migliore dei casi una piccola biblioteca o banca dati in grado di rispondere a tutte le necessità avvenire e da impiegare per la sua immediatezza e praticità soprattutto quale strumento utilissimo al ripasso e al consolidamento dei contenuti precedentemente acquisiti dello studio grammaticale. A quest’ultimo proposito è opportuno ricordare ai docenti che nell’indagine di tipo grammaticale non si tratta di scegliere fra un procedimento di tipo puramente normativo (la cosiddetta grammatica esplicita) e quello che prescindendo da uno studio propedeutico prevede di estrarre le regole esclusivamente dal testo, ma sarebbe conveniente alternare sapientemente i due metodi che, a nostro modo d’intendere non si escludono affatto, ma, al contrario potrebbero benissimo essere coniugati insieme secondo le necessità.
L’analisi sincronica del sistema
È certo che nella fase iniziale, che prevede l’analisi sincronica del sistema linguistico del latino, più che affidarsi al metodo diretto (la grammatica implicita), non privo a questo punto di una certa empiria, sarebbe opportuno per intendere le peculiari caratteristiche di tipo flessionale di una lingua per questa ragione tanto diversa dall’italiano, non tanto partire dal testo (le cui complesse strutture richiederebbero inoltre uno studio specifico e durativo per essere apprese ), quanto piuttosto avviare lo studio disciplinare iniziando dalla grammatica esplicita per consentire da parte degli studenti almeno l’acquisizione degli elementi fondanti, cioè di quelle peculiari strutture della lingua latina consistenti nel sistema dei casi e delle declinazioni e nella diatesi e formazione verbale. L’attendibilità di una tale proposta è da ritenersi tanto più valida in quanto trova anche il consenso dei fautori ad oltranza del metodo breve, i quali, come è risaputo, sono in generale poco concordi col metodo tradizionale, come dimostra la seguente considerazione di Piazzi: ”Nella fase iniziale dello studio a me non pare si possa innovare molto rispetto alla linea tradizionale, centrata sulla morfologia: per la comprensione di un testo, anche il più semplice, è irrinunciabile il dominio della flessione nominale e verbale e non mi pare esistano artifici didattici o metodologici (…) in grado di ridurre i tempi di apprendimento dei paradigmi flessivi. Semmai si dovrà cercare, anche in questa fase, di accostare, subito gli alunni a testi significativi (magari con traduzione a fianco), in modo che lo studio grammaticale non sembri fine a se stesso“.(20)
La sintassi
Quanto alla sintassi, sul cui studio deve concentrarsi successivamente l’attenzione degli alunni insieme all’analisi del testo, data la fondamentale centralità del verbo che qui è giusto ribadire, è bene che accanto alle forme nominali del verbo ( participio, gerundio e gerundivo) si privilegi l’uso dei modi e dei tempi piuttosto che la sintassi dei casi, che, a parte pochi specifici costrutti(videor, i verbi assolutamente impersonali, di memoria, interest e refert), non merita tutto il tempo (l’intero secondo anno del ginnasio e parte del primo anno del triennio, che è destinato in genere al consolidamento dei dati) e l’attenzione che viene loro riservata da docenti e alunni, se è vero che è possibile rinvenire con minore dispendio di tempo buona parte della materia tra le pagine di un buon dizionario, sul cui utilizzo sarebbe opportuno anche per questo spendere qualche ora o parola in più. Tra i modi verbali sarebbe un bene che il congiuntivo ricevesse una particolare attenzione, e non tanto i cosiddetti congiuntivi indipendenti, non molto numerosi, quanto piuttosto quelli con funzione di predicato presenti nelle subordinate, la cui comprensione, come sosteneva un vecchio professore di liceo di nostra conoscenza, riducendo di molto la necessità di conoscere fino in fondo il complesso meccanismo della consecutio temporum con tutte le sue particolarità, (il cui studio risulta oggi tanto più superfluo in quanto non è più prevista la traduzione dall’italiano in classe) da sola garantisce agli studenti il settanta per cento della conoscenza del sistema ipotattico del latino.
Un ulteriore risparmio di tempo e di energie si potrebbe ottenere non tanto eliminando del tutto quanto piuttosto riducendo di molto lo studio delle proposizioni subordinate, con un’attenzione più marcata verso i cosiddetti connettivi di riconoscimento, in particolare le congiunzioni coordinative e subordinanti, la cui natura andrebbe innanzitutto conosciuta . Non ha senso, infatti, ricordare quali sono i tempi del congiuntivo adottati nel periodo ipotetico latino se poi non è proprio impossibile per lo studente effettuare la traduzione dell’apodosi e della protasi in italiano. Io personalmente più che soffermarmi su quest’ultimo, darei più spazio al cosiddetto discorso indiretto, la cui traduzione non viene quasi mai risolta dagli alunni senza difficoltà.
Prosodia e lettura
Vorrei concludere il discorso sui contenuti spendendo qualche parola sulla cosiddetta prosodia (termine greco, che significa “accentazione”, impiegato per indicare quella parte della scienza linguistica antica che studia la disposizione degli accenti nelle parole), le cui regole sono fondamentali prima di tutto per effettuare una buona lettura dei testi degli autori latini sia in prosa che in poesia. Una delle lacune più evidenti che si riscontra nella preparazione degli studenti liceali, che riaffiora non di rado anche nell’Università, consiste nella difficoltà di collocare giustamente l’accento sulle parole latine. Di solito gli errori di lettura e di accentazione dei nostri alunni sono originati dal fatto che essi, ignorando la conformazione delle parole latine e le leggi che le governano, smarrendo in alcuni casi le categorie della distinzione, non si rendono conto delle profonde differenze che intercorrono fra la pronunzia dell’italiano e quella del latino.
Una volta si compilavano manuali di prosodia e metrica ad uso della scuola media e si riempivano quaderni di appunti e di esercizi sulle regole teoriche e pratiche della scansione che in generale producevano buoni frutti, utili il più delle volte a penetrare tra le intime strutture della lingua di Roma e a conoscere le leggi che si trovano a fondamento di essa. Uno studio così analitico, puntuale e progressivo oggi non è più consentito ai nostri studenti liceali a causa di due ordini di ragioni:
la riduzione del tempo riservato allo studio disciplinare, passato dalle otto del passato alle cinque complessive attuali;
la diversa mentalità degli alunni del nostro tempo, che, vivendo nell’era della rivoluzione telematica ed essendo abituati più ad un’attenzione immediatamente sintetica che minutamente analitica, risultano sempre meno disposti ad uno studio normativo di lunga durata.
È inutile andare alla ricerca delle colpe, a nulla serve piangere sul latte versato, il problema della cattiva lettura dei testi latini da parte degli studenti oggi comunque esiste e occorre trovare un rimedio con una plausibile soluzione tecnica. Comunque si voglia risolvere la difficoltà di pronunzia degli studenti, i docenti sono chiamati in causa prima di ogni altro, in quanto spetta innanzitutto a loro di ovviare al problema. Essi hanno il dovere di conoscere a fondo gli aspetti teorici, pratici e storici della lingua e della pronunzia latine se vogliono farli apprendere immediatamente ai loro allievi, i quali a loro volta si preoccuperanno di metterli in pratica superando le difficoltà. Per quel che ci compete affronteremo tale questione senza nessuna pretesa né di originalità né di dottrina, ma semplicemente col proposito di fornire soprattutto ai colleghi più giovani degli spunti di approfondimento con qualche consiglio utile a risalire ai principi fondamentali dell’accentuazione e della pronunzia del latino. Abbiamo buone ragioni per ritenere, almeno per quanto attiene ai contenuti di primo livello, che la questione della contrazione oraria e il problema della variabile della mutata mentalità degli studenti, quali fattori negativamente condizionanti ai fini di una completa acquisizione delle più profonde strutture e del funzionamento della lingua latina, possano essere risolti insieme con una parziale e misurata applicazione della didattica breve, l’unica metodologia in grado di strutturare un insegnamento sintetico, ma funzionante anche in presenza dei limiti del tempo orario. In verità, quando ci si trovi nella necessità di non poter spaziare, l’opposto di quanto accadeva nella didattica tradizionale, al docente non rimane altro che puntare su un rinnovato montaggio della sua materia, gli conviene cioè ragionare preferibilmente in termini di macrologiche o di logiche di fondo della disciplina per fornire agli alunni non tutte le notizie sui particolari della macchina didattica, ma gli elementi essenziali al suo funzionamento (21).. Per farlo egli dovrebbe poter rispondere innanzitutto a domande fondamentali come le seguenti: a) Di che natura era il sistema linguistico dei romani? Dove e come essi collocavano l’accento delle parole? Trovandosi nella fase di avviamento dello studio linguistico, semplificando al massimo, si limiterà a dire che il latino è una lingua quantitativa, mentre il sistema linguistico dell’italiano, per quanto derivato da esso, si presenta con una diversa struttura accentuativa. Dando una scontata e facile risposta, dovrebbe concludere quanto alla questione dell’accento che per leggere i latini badavano esclusivamente alla quantità delle sillabe, e per dare maggiore consistenza alle sue argomentazioni, potrebbe anche arrogare l’autorità di Cicerone, che nel cap. 58 dell’Orator in tal modo definisce la norma fondamentale per la lettura del latino, la nota legge del trisillabismo, altrimenti detta della penultima sillaba, che a partire dall’età di Cesare avrebbe regolato per diversi secoli la questione della pronunzia con un canone sicuro: “la stessa natura, come per modulare il linguaggio degli uomini pose un accento tonico (acutam vocem), e non più di uno né oltre la terza sillaba a partire dall’ultima”. Non sarebbe conveniente per il nostro docente del primo anno del biennio andare oltre la semplice citazione del breve estratto ciceroniano, in quanto, a questo punto dell’iter didattico, il suo compito è solo quello di enunciare la legge del trisillabismo come fatto solo tecnico al fine di poter fornire agli allievi null’altro che una fondamentale chiave di lettura del testo latino. Successivamente, approfittando anche dell’attivazione d’uso del vocabolario, farà in modo di abituare gli studenti ad effettuare una costante verifica della loro capacità di lettura attraverso l’analisi della quantità delle sillabe significanti. Spetterà al docente di latino del triennio superiore completare l’opera del suo predecessore consolidando la competenza linguistica di primo livello e dando alla stessa educazione linguistica un maggior fondamento storico.
La saldatura dei livelli
Superata la fase della prima formazione, costituita prevalentemente da essenziali elementi fondanti, allo studente si offriranno nuove motivazioni con la possibilità di accedere ad una somma di nuovi contenuti di tipo storico-linguistico da acquisire con spirito critico e in modo più lato e più profondo. A questo punto non solo al fine di allargare ma anche di approfondire le conoscenze precedentemente maturate il docente potrebbe attivare meccanismi metodologici in grado di potenziare i dati di studio già acquisiti. Ritornare allora su un argomento parzialmente noto, come la suddetta legge del trisillabismo, non sarebbe inutilmente ozioso o solo un modo pratico per consolidare vecchie strutture concettuali, ma avrebbe una più profonda e maggiore valenza se egli, pur utilizzando una tematica non nuova, facesse in modo di fornire agli allievi altre e più profonde risposte. Spiegare non solo in che consiste la ciceroniana regola di lettura, ma quando, perché e come si sia formata, serve a produrre da parte del docente un autentico valore aggiunto rispetto alla precedente acquisizione in grado di far lievitare notevolmente l’esperienza culturale di uno studente liceale qualora venga a sapere che l’autore del Brutus si indusse a formulare questo canone nell’età di Cesare, allorché, per ovviare alla corruzione della lingua causata intorno alla metà del II secolo a.C. dalla crescita rapida del proletariato cittadino, si rese necessario un processo di epurazione (al quale lo stesso Cicerone diede un notevole contributo) per ripulire la lingua di Roma dagli errori di pronunzia dovuti contemporaneamente all’uso promiscuo dei parlanti e all’influenza della prosa arcaica degli antichi scrittori (si pensi alle rudezze arcaiche di Catone antico o alla difficile pronunzia di scrittori dell’epoca preclassica come Plauto che contravvenendo alla legge del trisillabismo, al suo tempo inesistente, leggeva forse con forte intensità séquimini e fàcilius in luogo di sequìminie facìlius) che l’avevano resa, come lui dice sempre nel Brutus: “admodum impolitam et plane rudem“(22).
Se a questi dati si aggiungono anche altre notazioni più precise il quadro del problema si farà per l’alunno veramente più ampio e completo: come ad esempio, il fatto che il clima culturale dell’età di Cesare sembrò allora inverare per quel che riguarda la lingua il principio che ad una stagione caratterizzata dall’anomalismo, cioè ad una esclusiva ed estesa tendenza volta a favorire l’uso e il dinamismo linguistico, debba succedere per reazione l’affermarsi dell’analogismo puristico, i cui canoni d’altra parte sono così delineati in sintesi nel terzo libro del De oratore: “Per parlare correttamente in latino dovremmo badare non solo ad usare quelle parole che nessuno potrebbe rimproverarci, e ad osservare i casi, i tempi, il genere, e il numero, in modo tale che non regni confusione, dissonanza o disordine, ma è opportuno anche regolare la pronunzia”. Ma, a parte la comprensibile e giustificata necessità di liberare la lingua dagli errori e di selezionarla, all’insegna della urbanitas, da tutte le impurità che vi avevano introdotto rudes atque rustici, lo stesso Cicerone si sarebbe trovato in difficoltà se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere esattamente in che cosa consistesse quell’optima loquela alla quale aspirava, particolarmente per la pronunzia, come dimostra la seguente ammissione del suo Bruto: “Che cosa sia, in conclusione, codesta urbanitas linguistica non so, lo ammetto, so solo che esiste (…) e quel che più importante risuona sulle labbra dei nostri oratori”.
La pronunzia classica e le altre
Per concludere si dirà che se è giusto sostenere come assolutamente valida la regola ciceroniana dell’accento, per cui i romani, come successivamente dice anche Quintiliano, non potevano parlare se non facendo il conto delle sillabe lunghe e brevi, è vero anche che noi oggi non possiamo avere certezze assolute sull’esatta cadenza del latino, persino di quella classica utilizzata nell’età in cui visse il nostro autore.
In verità, come sostiene anche Mandruzzato (23), non è facile per noi risalire alla vera pronunzia del latino, in quanto l’accento latino (da cantus), diversamente da quello italiano che era esclusivamente intensivo, aveva contemporaneamente natura musicale ed intensiva insieme tanto da produrre il ritmo. Se volessimo accettare questi dati congetturali come assolutamente veri ci troveremmo nell’evidente difficoltà, anche in base ai nostri canoni sull’accento, di stabilire con certezza come effettivamente pronunziassero i contemporanei di Cicerone: sarebbe come volere leggere e comprendere la musica senza avere alcuna conoscenza o sensibilità dell’espressione musicale. Ma, se pure è vero che non abbiamo la fortuna di poter ascoltare fedelmente la musica degli antichi, vale a dire i tempi musicali della loro pronunzia, tuttavia ci rimangono gli spartiti, abbiamo i testi (sia quelli degli autori, giunti a noi per la tradizione indiretta dei grammatici, prontissimi a registrare la presenza degli errori, sia quelli degli autori direttamente traditi, che in alcuni casi ci forniscono, anche senza volerlo, illuminanti suggerimenti) nei quali molte volte è nascosto il segreto dell’esatta dizione latina del loro tempo. A quest’ultimo proposito è proprio Cicerone in persona che ci viene in aiuto inconsapevolmente riferendoci un particolare della pronuncia romana sua contemporanea allorché racconta che la parola Cauneas, quale richiamo prolungato di un venditore di fichi provenienti da Cauno, fu scambiata per l’espressione caue ne eas (fa di non andare ), intesa quale ammonimento per Crasso a non partire con il suo esercito verso il rovinoso scontro di Carre. Se fu possibile una tale confusione dei presenti vuol dire che nell’età classica la v veniva pronunciata non diversamente dalla nostra u. Per completare il quadro aggiungeremo che la c si leggeva c duro, come la nostra k (es. amikìtia, kena, okkìdo); g inizialmente sostituita da c aveva un suono gutturale non diverso dal gamma greco (es. leghe non lege, secondo l’ammissione di Agostino); l’ h non era propriamente muta, ma si faceva sentire, in particolare dalle persone di rango sociale elevato, con una leggera aspirazione assimilabile alla cosiddetta erre alla francese delle persone snob di qualche tempo fa; le vocali singole si pronunziavano forse diversamente dalla nostra lingua rispetto alla loro maggiore o minore quantità (es. la a di pater -pron. pater- si faceva sentire di più di quella di mater -pron. mater- ecc. ecc.)
Da quanto detto risulta immediatamente un fatto che deve apparire chiaramente anche ai nostri alunni: non esiste una sola pronunzia del latino. Anche la pronunzia classica, fondata sul canone ciceroniano, si può dire che non è stata osservata sempre, certamente no dagli scrittori arcaici, come si è visto, ma neppure assolutamente da quelli successivi; sicché possiamo ritenere, come ha sostenuto Traina,(24) che essa ha avuto modo di sopravvive solo in alcuni ambiti di alta specializzazione accademica. Ciò significa che non esiste una sola pronunzia del latino, ma essa è variata nel tempo secondo i processi del dinamismo linguistico, sicché gli studiosi moderni ne riconoscono almeno tre modi:
quella classica, adottata dalla classe colta di Roma dal primo secolo a.C. al primo secolo d.C., ormai caduta in disuso;
quella delle diverse nazioni, dal Medioevo in poi non sempre concordi intorno ad un’unica pronunzia. (la babele delle dizioni nazionali del latino, dovute talvolta al nazionalismo o in generale alla necessità di far prevalere i caratteri della propria pronunzia linguistica, può essere dimostrata con una tale semplicissima esemplificazione: Se chiamassimo quattro diversi lettori, appartenenti a distinte nazioni, a pronunziare la parola classica Caesar avremmo un risultato finale tutt’altro che omogeneo, a tal punto che Cesare, sentendosi diversamente apostrofato, probabilmente neppure si volterebbe).
la pronunzia ecclesiastica o italiana, dovuta alla diffusione del latino della chiesa (basso latino) dai Padri della Chiesa a tutto il Medioevo, ufficializzata da Pio X nel 1912, e adottata quale pronunzia universale nei riti, nelle scritture e nelle scuole, all’interno delle quali è tuttora generalmente impiegata.
(4° modulo) - Il latino e le lingue moderne: l’analisi del testo
La competenza linguistica
Dopo aver discusso, e anche in modo problematico delle finalità, è il caso di sottolineare, puntualizzandoli meglio dal punto di vista esecutivo, gli obiettivi (che distingueremo per comodità in generali e particolari, di primo e secondo livello, corrispondenti rispettivamente all’azione formativa del biennio e a quella critico-storica del triennio), che si intendono perseguire attraverso un uso ottimale dei contenuti e degli strumenti più adatti alla esecuzione dei procedimenti metodologici prescelti, che, come si è detto, dovrebbero principalmente mirare alla formazione di quella competenza linguistica, suffragata innanzitutto dalla capacità di saper analizzare, comprendere e tradurre un testo latino di medie difficoltà.
Prima di arrivare alla definizione dei modi e dei mezzi più adatti a conseguire la suddetta capacità, riteniamo sia opportuno chiarire preliminarmente che cosa sia la competenza linguistica, almeno dal punto di vista generale. Cominceremo col dire che il concetto, compresa l’espressione che serve a qualificarlo, è opera di N.Chomsky, uno dei più grandi eredi di Saussure, che con il termine competence (un heureux trouvé con il quale ha ribattezzato la parola langue del maestro) ha inteso qualificare quella disposizione sempre attiva della nostra mente, fonte interna di acquisizione, produzione e conoscenza della lingua, ad utilizzare, sia in entrata che in uscita, una grande varietà di situazioni comunicative. Secondo il padre dei semantisti la mente umana non è altro che un serbatoio di raccolta di informazioni linguistiche di diversa natura che possono essere acquisite fùsei, cioè in modo naturale e spontaneo, (come sostiene anche Platone nel Cratilo o Lucrezio nel libro V del suo De rerum natura) o thèsei, cioè in modo artificiale non diversamente dalla banca dati di un moderno computer. Quest’ultima competenza linguistica, che generalmente è frutto di studio e come tale si matura nella scuola, in genere si riassume nelle quattro abilità fondamentali di ascoltare, parlare, leggere e scrivere. Pertanto essa non è altro se non la capacità di comunicare da parte di un parlante con i membri della società di appartenenza, utilizzando i dati acquisiti e un codice comune condiviso, che generalmente potremmo far coincidere con l’idea soussoriana della langue: cioè un sistema di segni, acquisiti da un soggetto parlante all’atto del contratto sociale, immodificabile inizialmente dal soggetto stesso, ma che subisce modificazioni solo da parte del tempo e della vis civitatis. La capacità di comunicare, acquisita inizialmente in modo naturale, consolidandosi successivamente, è consacrata attraverso l’uso sociale e culturale della lingua stessa. Da ciò consegue che la competenza linguistica di un soggetto discente si evince fondamentalmente dalla abilità di fare un uso consapevole e sapiente dei dati che appartengono al suo sistema linguistico.
Per quanto sia opportuno collocare, come s’é detto, l’insegnamento del latino nello stesso ambito delle discipline linguistiche moderne, utilizzando i procedimenti metodologici derivati dalla moderna linguistica strutturale, occorre anche sottolineare che l’uso che si può fare del latino, esclusivamente riflessivo, non è propriamente rispondente alla utilizzazione immediata e pratica delle lingue moderne che si distinguono da esso per essere ancora parlate e correnti. La lingua di Roma, che pure è stata usata per molti secoli non solo come strumento della cultura, ha cessato definitivamente di esistere quale lingua viva con il Concilio Vaticano Secondo che ha sancito la necessità di usarla esclusivamente nei più importanti documenti papali, non più nel culto.
Il pericolo del “grammaticalismo”
Ma c’è anche un’altra importante ragione che segna le distanze del latino nei rispetti delle altre lingue: la sua stessa natura di lingua artificiale e grammaticale sottolineata anche da Dante nel primo trattato del Convivio con la definizione “lingua d’arte” per distinguerlo dall’italiano qualificato come lingua “materna” o “naturale”. Inoltre, a partire dal Quattrocento la natura fondamentalmente precettistica delle scuole umanistiche, al di là dei valori contenutistici e dell’arte, ha finito con l’esasperare il valore tecnico della lingua fino a ridurre il suo stesso apprendimento ad un’arida ed oziosa esercitazione e ripetizione di moduli. Ettore Paratore ha sottolineato in tal modo (cfr., La rivalsa del latino) il negativo pregiudizio, formatosi all’inizio del Cinquecento, che il latino avesse raggiunto con Cicerone un assoluto livello di perfezione: “… questa idolatria per Cicerone, nonostante, i sarcasmi che Erasmo da Rotterdam le fece subito piovere addosso, ha avuto una forza così malefica da irrigidire per sempre la vita del latino fossilizzandolo in una pedissequa imitazione dei moduli, degli schemi, dell’eloquio stesso dell’Arpinate, con la conseguenza che esso (…) finì per divenire incapace di esprimere molti dei concetti e dei sentimenti della moderna civiltà irriducibili alle forme del linguaggio ciceroniano. Fu proprio per questo che il latino divenne veramente una lingua morta”. Se a ciò si aggiunge l’esasperato grammaticalismo delle scuole successive, che ha trovato il suo modello assoluto nella Grammatica Universale di Port Royal, potremo trovare una spiegazione aggiuntiva circa l’ossificazione dei metodi di studio del latino, un morbo di cui ancora soffre la nostra scuola che ha avuto come conseguenza di screditarne sempre più l’apprendimento. Ma, se da un lato è inutile piangere sul latte versato, occorre anche prendere atto che l’apprendimento di una lingua, sia pure non più in uso, non può avvenire solo in modo astratto attraverso uno studio normativo e grammaticale.
Una competenza “ricettiva”
Rimane il fatto che se il latino non è certamente una lingua morta, come dimostra la sua sopravvivenza nei linguaggi intellettuali delle nazioni moderne, esso è tuttavia una lingua “conclusa”, cioè già data e non più soggetta alle modificazioni proprie delle lingue parlate moderne più adatte alla comunicazione . Ne consegue che lo studio del latino, per il semplice fatto di essere fondato solo su antichi documenti scritti, per lo più letterari, che escludono la possibilità di conoscere i procedimenti dell’uso e i parametri necessari a misurare lo “standard” medio della stessa lingua, non possa produrre una competenza linguistica “attiva” o “produttiva”, come quella che si ricava dallo studio delle lingue moderne, ma prevalentemente, se non esclusivamente “ricettiva”.
Escluso che lo studio del latino debba servire all’uso della comunicazione ed alla produzione scritta di testi in lingua classica, (compresa la traduzione in italiano di un brano di autore latino) non rimane che ribadire la necessaria regola della “centralità del testo” originale latino la cui lettura, analisi, comprensione e traduzione dovrebbe costituire l’obiettivo primario ed essenziale da raggiungere già al termine del primo livello, come si evidenzia senza dubbio nell’ indicazione degli obiettivi didattici acclusi alla proposta Brocca di formulazione dei programmi del biennio: “La coerenza indicata fra obiettivi e contenuti pone al centro dell’insegnamento-apprendimento del latino la lingua documentata nei testi, dei quali si richiede quindi l’accostamento diretto (…) attraverso l’uso di materiali didattici attinti di preferenza a testi autentici, eventualmente semplificati e adattati…”.
Gli obiettivi di primo livello, la manipolazione del testo
L’operazione di semplificare o di adattare un testo d’autore a particolari situazioni didattiche non trova sempre largo consenso fra i docenti, sia perché viene indicata come una violazione del testo sia in quanto potrebbe risultare pericolosa e fuorviante ove venisse realizzata senza la dovuta attenzione e la necessaria competenza. Io personalmente ritengo che qualsiasi manipolazione del testo di un autore non debba essere vista come la vivisezione su un corpo vivente ma in alcuni casi, particolarmente nel biennio, la riduzione o la modifica, sempre che sia fatta da mani esperte, risulta un procedimento necessario per rendere accessibili quei testi che presentassero difficoltà di comprensione e d’accesso o non offrissero immediatamente l’occasione di ritrovare senza difficoltà nel tessuto del discorso materia necessaria a strutturare una lezione di grammatica o di sintassi. A quest’ultimo proposito occorre sottolineare che, qualora gli strumenti didattici, in particolare gli eserciziari, non vengano incontro alle necessità del docente, sia per loro limitazione o perché non sempre è possibile elencare in ogni occasione brani d’autore che contengano espressioni corrispondenti alle necessità dello studio normativo, al professore esperto non rimane altro che costituirsi per l’occasione frasi ed espressioni ad hoc in grado di rispondere alle sue esigenze. È certo, comunque, che prima di qualsiasi manipolazione linguistica, vale il principio di una scelta motivata e razionale dei testi stessi che, tenendo conto del livello di preparazione degli alunni, è opportuno sia effettuata inizialmente con criteri di gradualità e, nei casi di maggiore difficoltà, affiancando al testo originale una traduzione confacente.
Se l’insegnamento della lingua nelle classi ginnasiali deve essere mirato alla comprensione di testi anche semplificati, ciò non significa che la descrizione linguistica al primo livello debba essere effettuata senza particolare cura e attenzione; anzi nella fase preliminare, allorché è necessario innanzitutto formare la cosiddetta mens grammatica, si richiederebbe “un approccio linguistico di tipo morfo-sintattico, basato sullo studio delle forme e del funzionamento della lingua (cfr. Brocca, L’insegnamento della lingua)”, che non potrebbe realizzarsi senza la conoscenza preliminare dei meccanismi, delle strutture e delle logiche di quel particolare sistema linguistico, che, data la sua complessa natura, presuppone un’analisi di tipo sincronico, almeno nel momento iniziale.
La grammatica “implicita”
Ciò non vuol dire, tuttavia, che nell’impostare la sua pratica di insegnamento il docente, puntando la sua attenzione esclusivamente sulla grammatica eplicita, debba fondare il suo metodo su un studio normativo assolutamente formalizzato e astratto, che a lungo andare finirebbe per tediare gli alunni, al contrario, sarebbe opportuno che egli, alternando teoria e prassi, insegnamento esplicito ed implicito della grammatica, procedendo con frequenti flash-back dalla grammatica al brano d’autore e reciprocamente, finalizzasse fin dall’inizio ogni aspetto dell’indagine linguistica e grammaticale alla lettura e comprensione di un autentico ed originale testo latino. L’utilità di un tale procedimento, oggi condiviso anche dai fautori del metodo breve, che preferiscono ricercare le regole nel testo piuttosto che apprenderle direttamente sul manuale, è stata con notevole fortuna già sperimentata dal Pascoli nella sua esperienza di latinista, come testimonia la seguente affermazione di quel grande maestro che non può essere certamente accusato di far parte della schiera dei sostenitori della grammatica ad oltranza: “Ho sempre cercato e cerco che i miei alunni acquistino quella familiarità della lingua e dello stile latino (….) ecco perché faccio leggere molto le leggi e le regole le faccio cercare, riconoscere, ordinare sui testi a mano a mano”.
Centralità e natura del testo
Occorre a questo punto sottolineare una volta di più che lo statuto epistemologico del latino, per quanto caratterizzato anche da una particolare specificità, non si diversifica totalmente da quello delle altre discipline linguistico-letterarie; ne consegue che anche l’insegnamento di esso, per quanto miri ad ottenere una competenza non produttiva ma ricettiva, non può differire molto dallo studio dell’italiano e delle altre lingue moderne proprio a causa della centralità del testo. Ciò significa che anche per il latino, soprattutto per quanto attiene ai procedimenti dell’analisi del testo, bisogna assumere un abito mentale e strategie analoghe a quelle delle materie affini del curricolo, fino a prevedere un vero e proprio laboratorio di analisi al fine di produrre, insieme con l’acquisizione di un lessico più ampio e la conoscenza più approfondita delle strutture morfo-sintattiche, il piacere di una lettura sempre più consapevole e un notevole accrescimento delle motivazioni di studio.
Prima di passare oltre nella determinazione dei successivi obiettivi di apprendimento che tra l’altro prevedono anche le modalità che conviene seguire nell’analisi testuale, è opportuno soffermarsi un po’ sulla natura del testo stesso, dandone contemporaneamente una definizione, ed indicando, altresì, i diversi modelli testuali che sarebbe conveniente sottoporre agli alunni del primo e del secondo livello. La parola testo, dal latino textus, analogamente al termine structura (da struere) che presuppone la disposizione ordinata con criteri di coesione, coerenza ed organicità di elementi in un tutto (i latini conoscevano l’uso del termine sia in senso proprio, con riferimento all’architettura, sia traslato, proprio con riferimento al testo: verborum structura è assegnato da Cicerone alla prosa, carminis structura è utilizzato da Ovidio con chiaro riferimento alla poesia) presuppone un discorso di senso compiuto, costruito con regole precise,(quelle stesse che sono state indicate da Quintiliano (cfr., Institutio, IX, 4, 13) con le denominazioni di inventio, dispositio, elocutio, memoria et actio) vale a dire un tessuto organico di parole ordinato con criteri di coesione, coerenza, completezza, esaustività ed informatività. Queste caratteristiche fanno del testo un autentico messaggio che, per quanto storicamente costituito in una lingua conclusa, attende di essere decodificato dagli allievi per la grande e potenziale lezione che contiene.
L’analisi di primo livello
È certo che la decodificazione e la successiva fruizione di un messaggio di natura complessa non è agevole sia per ragioni linguistiche che di concetto; si richiede pertanto l’applicazione costante e l’abitudine continuata di un metodo di lettura che, parallelamente alla formazione di primo livello della competenza linguistica, è necessario già avviare e ben collaudare nei primi anni ginnasiali per sperare di ottenere successivamente i migliori risultati. In effetti l’affermazione abbastanza condivisa della centralità del testo non è esente da questioni e controversie, che impongono talvolta ai docenti i seguenti interrogativi: Quali letture proporre? In che modo e con quali criteri metodologici analizzare le opere degli autori latini? Come fornire ai discenti gli strumenti adatti alla decodificazione del testo senza soffocare il piacere della lettura sotto il peso delle regole e degli eccessivi tecnicismi? Accade spesso infatti che gli allievi, sgomentati dalle difficoltà linguistiche e dal complesso apparato storico-culturale che si connette alle opere degli autori classici, le ritengano poco desiderabili o, come nel caso della traduzione, un complicato esercizio di studio generalmente poco gratificante.
Il docente del primo livello si preoccuperà, a questo proposito, di alternare letture di brevi passi in lingua originale a letture più estese in traduzione, immediata o con il testo latino a fronte; successivamente, preferibilmente nel secondo anno, la necessità di utilizzare le competenze linguistiche al fine della comprensione del testo sarà coniugata dal docente con i primi semplici procedimenti di contestualizzazione storico-culturale di brani ritagliati da opere di largo respiro ed eventualmente modificati . Vorrei ricordare a quest’ultimo che avrà adempiuto fino in fondo il suo dovere se, dopo aver fatto acquisire ai suoi allievi una conveniente competenza linguistica funzionale ad analizzare, comprendere e tradurre un testo di un certo significato, riuscirà anche a sottolineare qualche aspetto stilistico-letterario insieme ai dati sintetici dell’autore del testo preso in esame. Non ha senso proporre agli allievi delle prime due classi liceali un più approfondito studio storico-letterario o men che mai sottoporli ad una dispendiosa e velleitaria analisi critica, perdendo di vista che i più immediati obiettivi che un docente del primo livello deve innanzitutto conseguire sono quelli di riuscire a formare nei suoi giovanissimi allievi le basi fondamentali di una buona educazione linguistica accompagnata da una certa consapevolezza del senso storico e da una prima educazione del gusto estetico. Bravo docente è quello che, senza perdere il senso del limite e della misura, sa comunicarli anche a quelli che gli stanno intorno dai quali molte volte non è possibile né giusto pretendere l’impossibile: unicuique suum.
Gli obiettivi di secondo livello
N. Flocchini, che alla sua ricca esperienza di studioso ha potuto coniugare felicemente la pratica non meno importante del docente impegnato direttamente sul campo, distingue e sintetizza in questo modo i compiti del professore di latino del primo e del secondo livello sul quale gravano altre responsabilità non meno importanti di quelle che si prevedono nell’opera della formazione iniziale: “Se nel biennio obbiettivo primario dell’insegnamento del latino è l’assimilazione delle strutture linguistiche di base (della langue), nel triennio sarà invece la conoscenza diretta dei documenti scritti elaborati dalla civiltà a cui la lingua dà accesso (della parole). Al centro dell’insegnamento ci sarà dunque lo studio della letteratura accompagnato dalla lettura dei testi in originale ed in traduzione , allo scopo di consentire un approccio “globale” alla civiltà antica (25), utilizzando a tal fine anche i contributi che possono venire da discipline come l’antropologia, la storia delle religioni, della scienza, della arti figurative e da altri canali come il repertorio archeologico, il folklore, la liturgia, la cultura materiale ecc.”(26).
Sappiamo bene che non è sempre agevole far corrispondere le affermazioni teoriche di principio con la resa dei risultati in una realtà come quella della nostra scuola, dove il docente deve fare i conti con diverse difficoltà pratiche (l’esiguità oraria, l’estensione dei programmi, le classi non selezionate) che molte volte gli impongono di sacrificare l’analisi del testo costringendolo ad assegnarla quale studio al di fuori dell’orario ordinario. Il problema è particolarmente avvertito non tanto al livello del biennio quanto piuttosto dai docenti del triennio i quali, pur avvertendo la particolare e diffusa esigenza di non separare nel processo didattico l’analisi del testo dall’indagine storico-letteraria, tuttavia non sempre riescono a far quadrare le poche ore a disposizione con lo svolgimento di un programma che prevede insieme alla lettura degli autori anche lo studio letterario e l’ora di sintassi, per cui molte volte è giocoforza preferire la lettura antologica a quella continuata di un’opera completa certamente più costruttiva e in grado di fornire una più organica e monografica visione d’insieme (27).
Lo studio degli autori
Pur con questi limiti al docente di latino del triennio, si offre pur sempre la possibilità, per non privare gli allievi del suo supporto fondamentale, di effettuare una scelta più qualitativa che quantitativa di brani d’autore e di letture esemplari da analizzare in classe. Il compito appare più semplificato nel caso in cui sia affidato ad uno stesso docente sia l’insegnamento del latino sia quello d’italiano: situazione favorevole che consente, con notevole risparmio di tempo e senza la modifica dell’orario ordinario, di effettuare percorsi interdisciplinari in grado di comprendere lo studio di più autori intorno alla trattazione di uno stesso nucleo tematico (28) o prendendo in considerazione un genere letterario (29).
In ogni caso, anche quando le due discipline non siano affidate ad un solo docente, è assolutamente possibile e vantaggioso trasferire i procedimenti dell’analisi strutturale del testo, precedentemente applicati e collaudati nella lettura delle opere in lingua materna, anche nello studio degli autori latini (30) che intendiamo decodificare. Tuttavia, non si tratta ora di utilizzare semplicemente la conoscenza delle strutture linguistiche dell’italiano per edificarvi sopra la complessa architettura del sistema linguistico latino, come accadeva nella scuola tradizionale, ma di insegnare preventivamente l’italiano secondo lo stesso procedimento metodologico sul quale si imposterà successivamente lo studio del latino. In una situazione nuova come la nostra di un sistema primario fortemente modificato s’impone la necessità, come nota Cova, di raggiungere le competenze linguistiche dell’italiano ben prima di quella del latino:” la prima e principale economia dovrebbe consistere nel partire dall’italiano, non per tradurre in latino, ma per incassare un forte credito di conoscenze trasferibili.Questa successione dovrebbe anzi rispondere alla ratio attuale dell’ordinamento.Con la riforma della Scuola Media è stata rovesciata l’impostazione tradizionale: prima il latino serviva all’educazione linguistica teorica generale, su cui si innestavano le altre; questo compito adesso tocca all’italiano (e alle lingue straniere), sul cui precedente si innesterà il latino” (31).
L’intertestualità
Ogni messaggio, qualsiasi sia la lingua che lo veicoli, perché sia fruito ed inteso nella sua totalità e completezza richiede da parte del lettore contemporaneamente la completa conoscenza e la capacità di saper sciogliere il corrispondente codice linguistico. Quest’ultima considerazione vale anche per le opere latine la cui decodificazione, diversamente da quelle in lingua materna che in genere si fa consistere nel procedimento della parafrasi (la riduzione in prosacci del testo letterario), coincide con l’opera di traduzione che corrisponde al livello denotativo del testo.
Prima di passare all’analisi vera e propria delle strutture del testo, ai fini di una prima provvisoria contestualizzazione del messaggio letterario, sarebbe conveniente raccogliere in modo schematico ed elencare sul modello della schedatura le notizie generali sull’autore(almeno nome e cognome e dati biografici), sulle opere ( da riportare sinteticamente e in modo sequenziale accanto ai dati personali dell’autore), sulla tradizione manoscritta dell’opera da cui molte volte non è possibile prescindere (32).
L’analisi connotativa, da effettuarsi non esclusivamente in senso sincronico e scomponendo il testo in base al cosiddetto esprit de géométrie, ma coniugando con esso il metodo diacronico, dovrebbe tener conto degli altri dati considerando in modo sistematico i seguenti livelli strutturali del testo:
storico, teso a definire, insieme alla personalità dell’autore, la sua qualifica intellettuale (33);
estetico letterario, volto a determinare, la sua particolare poetica insieme alla qualifica del genere letterario;
ideologico, essenziale, ad esempio nel caso dei poeti-filosofi, a precisare il peso del pensiero che è sotteso ai versi, o a determinare in ultima analisi la loro visione della vita, la cosiddetta Weltanschaunng;
retorico-stilistico, che guidi a ricostruire le caratteristiche stilistiche dell’autore attraverso l’analisi sintetico-funzionale della struttura lessicale, sintattica e retorica dell’opera presa in esame.
Non si dimentichi, a quest’ultimo proposito, che l’italiano e il latino, lingue già ricche di tropi per loro natura, registrano una presenza notevolissima di traslati che servono a conferire maggiore efficacia all’espressione letteraria. Pertanto, non è possibile comprendere totalmente le opere, soprattutto quelle lirico-poetiche, senza la conoscenza di queste figure che molte volte con poche modificazioni è possibile riscontrare contemporaneamente nei classici antichi e moderni che ne hanno accolta la lezione. Poiché non s’improvvisa certamente la capacità di riconoscerle è opportuno che già a partire dal ginnasio si coniughi insieme lo studio sincronico della lingua latina con i primi approcci di un’analisi stilistica da perfezionare ed affinare progressivamente nel triennio. Inoltre, sarebbe conveniente che, sempre a partire dal biennio, gli allievi fossero chiamati non solo a riportare per iscritto la sola traduzione con i semplici paradigmi dei verbi, ma venissero abituati a strutturare anche il commento scritto dei testi degli autori classici sotto forma di saggio breve o di relazione. Non v’è chi non veda come da un esercizio continuato e motivato come quest’ultimo possa trarre un vantaggio di ritorno, in uno scambievole ambito interdisciplinare anche la progettazione, la stesura e l’organizzazione dei modelli di scrittura dell’italiano.
(5° modulo) - Teoria e pratica della traduzione latina
Prima che si affermasse il metodo semiologico dell’analisi del testo, impostato sull’attenta considerazione delle strutture o livelli (lessicale, metrico-ritmico, fonologico, retorico etc.) costitutivi, analogamente alle materie dell’area comune, del sistema linguistico del latino, la capacità di traduzione, ritenuta a torto o a ragione l’unica attività veramente scientifica della nostra scuola tradizionale, è stata per lungo tempo, e in non pochi casi prevalentemente, la prova fondamentale da cui far risultare il livello di preparazione di uno studente liceale. Si deve riconoscere che essa ha sempre costituito per gli allievi un autentico problema anche per quelli della scuola del passato, per quanto fossero in possesso di una più solida preparazione linguistica maturata in un più esteso arco di tempo e in grado almeno di fornire ad essi i mezzi necessari alla comprensione delle particolari strutture grammaticali del testo degli autori.
Attualmente il problema della traduzione si è fatto ancora più stringente non solo a causa della riduzione oraria del latino ma anche per un progressivo indebolimento della mens grammatica dei nostri giovani che, essendo per questo meno robusti delle passate generazioni, spesso non sono in grado di effettuare senza aiuto una decente traduzione. Ciò vuol dire che una didattica aggiornata del latino, come si legge nella proposta Brocca, deve soprattutto nel biennio far leva prevalentemente sulla traduzione quale “sintesi finale di una serie di operazioni che richiedono la capacità di analizzare, comprendere e interpretare il testo latino e insieme di riprodurlo in italiano, strutturando e organizzando il discorso secondo le regole della lingua di arrivo”. Essa, pertanto, non deve essere pretesa, né assolutamente né in partenza, ma dovrebbe costituire il momento conclusivo, il punto di arrivo di un consapevole e complesso itinerario culturale, in grado di fornire agli alunni al termine del biennio lo strumento essenziale di lettura per penetrare più profondamente all’interno dell’antica civiltà, che proprio attraverso l’espressione linguistico-letteraria torna a mettersi in comunicazione con noi.Viene a cadere in tal modo anche la necessità di una didattica scelta alternativa fra lingua e civiltà (o lingua e letteratura) che non ha nessun senso di esistere, dato che esse formano un unico complesso coincidente in definitiva con lo statuto epistemologico e scientifico di una disciplina alla quale, comunque, non ci si avvicina o si accede totalmente se non attraverso il canale della traduzione linguistica.
La difficoltà del tradurre
L’importanza della teoria e della pratica del tradurre, che da alcuni anni ha avuto numerosi interventi da parte degli addetti del mestiere è dimostrata, oltre che dalla copiosa bibliografia che si è accumulata intorno al problema, anche dall’ istituzione recente di una specifica disciplina universitaria con connotazioni proprie, traduzione letteraria e traduzione tecnico-scientifica, che indica ancor più chiaramente la direzione specialistica che ha assunto un tale procedimento, ritenuto parte integrante della competenza linguistica del latino.La complessa capacità del tradurre, che prima di tutto si configura come “una produzione linguistica autonoma” (nel senso che il traduttore, pur utilizzando quali strumenti necessari la conoscenza del lessico, della grammatica, della morfo-sintassi e di altri elementi esterni del testo, si preoccupa di costituirne un nuovo servendosi di un codice linguistico diverso), si innesta su essenziali conoscenze della linguistica, indispensabili ad effettuare un difficile confronto interculturale che esige contemporaneamente una teoria ed anche una tecnica pragmatica, la “traduttologia” appunto, fatta di regole precise che, pur non essendo valide in assoluto, potrebbero servire comunque ad alleggerire il peso stesso del trasferimento di un testo qualsiasi in altra lingua.
La difficile praticabilità della traduzione testuale è stata così illustrata da Gentili: “Ogni sistema di segni, cioè ogni lingua, può in linea di principio essere tradotto in altri sistemi segnici ovvero in altre lingue in virtù di una logica generale dei sistemi segnici, il testo invece non può essere tradotto fino in fondo, poiché non esiste un potenziale unitario testo dei testi. Perciò tradurre un testo non è semplicemente tradurre dalla lingua ma tradurre un testo nella sua lingua: esso implica sempre un confronto-scontro fra due testi, quello pronto e quello in fieri che si realizza in rapporto al primo, come evento dialogico fra due soggetti, l’autore e il traduttore. La poetica della traduzione, dunque, storicizza le contraddizioni tra lingua di partenza e lingua di arrivo”.(34).
Poste queste difficoltà, non c’è da meravigliarsi se nell’età presente molti, anche fra gli specialisti delle lettere classiche, siano giunti a dubitare se sia lecito o no il tradurre. Il nostro pensiero corre innanzitutto a Foscolo che, messosi con entusiasmo a tradurre l’Iliade di Omero, non andò oltre l’Esperimento di traduzione del libro primo dello stesso poema, giustificando la sua rinunzia col fatto della inimitabilità della lingua del suo autore, a suo dire intraducibile come quella di tutti i grandi poeti, a causa dell’immediata partecipazione di essa, a livello per così dire ontico, della stessa creazione.
Non diversamente D’Annunzio in una lettera inedita al suo traduttore-editore Herelle, si dichiarava costernato nel constatare che nella traduzione delle sue frasi liriche il francese, non tenendo nel debito conto di tutte le caratteristiche dell’originale, aveva ottenuto come finale risultato di banalizzare l’opera intera, se non proprio di tradirla. E’ più o meno ciò che pensava Benedetto Croce nella sua Estetica, il quale, pur sottolineando esclusivamente la possibilità di tradurre un testo di prosa, ribadiva con l’intraducibilità della poesia l’improbabile risultato del tradurre: “Ogni traduzione infatti, o sminuisce e guasta, ovvero crea un’altra espressione, rimettendo la prima nel crogiuolo e mescolandola con le impressioni personali di colui che si chiama traduttore (…) “Brutte fedeli o belle infedeli”; questo detto proverbiale coglie bene il dilemma, che ogni traduttore si trova innanzi”. È noto che nella considerazione estetica del critico napoletano il pensiero non solo non può stare all’arte, ma non c’è arte alla quale si mescoli una qualche filosofia; ciò significa che può essere tradotto esclusivamente il pensiero che non sia messo in versi. Occorre sottolineare che un tale suggerimento, rompendo in partenza l’unità dell’opera di un poeta-filosofo come Lucrezio e dichiarandone l’intraducibilità, finirebbe per condannare all’oblio i suoi versi costituti da un pathos carico di speculazione.
Tradurre prosa e/o poesia
Se pure è vero in via di principio che non è proprio la stessa cosa tradurre un testo in prosa o di poesia, in quanto il fare poetico, caratterizzato com’è da frequenti scarti linguistici e stilistici, è certamente più tecnico di quello prosastico, non è detto però che il pensiero degli antichi sia assolutamente tanto decifrabile da rendere sempre più agevole la traduzione di un brano di prosa. Una cosa comunque è certa se tradurre bene prosa significa ripensare le stesse cose che ha pensato l’autore al fine di riprodurre le sue idee, tradurre nel migliore dei modi poesia vuol dire sentire ed esprimere gli stessi sentimenti e le medesime emozioni che il poeta ha provato (35).
Pur ammettendo che non è sempre facile tradurre, al di là di ogni restrizione, da qualsiasi parte essa provenga, non ce la sentiamo di imporre né divieti né limitazioni di sorta a chicchessia, rispettosi del principio che si deve tradurre sempre e di tutto, augurandoci che ciò venga seguito anche dai nostri alunni oltre che dagli insegnanti. Assodato che conviene tradurre in ogni caso tutti i testi non solo quelli letterari, siano essi in prosa o in poesia, ma anche quelli che nelle loro varietà linguistiche e stilistiche testimoniano la presenza delle lingue speciali, resta ora da vedere, considerando il fatto che a questo punto i traduttori saranno molti e le traduzioni diverse, quali autori tradurre e quale sia tra le altre la migliore traduzione.
Se prendessimo in considerazione la possibilità di affidare a più traduttori la versione di uno dei carmi di Catullo avremmo probabilmente risultati non propriamente omogenei ed univoci; se poi riduciamo a due il numero dei traduttori, scegliendo ad esempio un traduttore filologo come Fedeli ed uno poeta come Quasimodo, avremo certamente due traduzioni abbastanza diverse, in quanto il primo, pur senza trascurare il senso estetico, darà più importanza ai dati tecnici e filologici, mentre l’altro, pur con qualche libertà nella resa della lingua, preoccupandosi di aderire più al gusto dell’arte catulliana che al rispetto della grammatica, allestirà una traduzione poetica. Volendo indicare un vincitore in questa ipotetica gara tra un traduttore tecnico ed un poeta non sapremmo proprio a chi dare la preferenza, in quanto l’una e l’altra traduzione, pur presentando a seconda dei punti di vista pregi e difetti, per quanto diverse risulteranno entrambe valide.
Occorre a questo punto sottolineare che, data la grande quantità e diversità degli scrittori, non è il caso di pensare all’esistenza di un solo latino, ma al contrario dovremmo paradossalmente ritenere che esistono tante lingue latine per quanti autori vi sono con le loro varietà stilistiche. Poiché sarebbe impossibile leggerli e tradurli tutti è necessario fare una scelta di qualità nella varietà degli scrittori di ogni epoca ( età classica, argentea, umanistico-rinascimentale, moderna ) puntando l’attenzione su quelli più rappresentativi della storia (36) o privilegiando quell’arco di tempo, compreso fra il 100 a.C. e il 100 d.C. (due secoli di storia particolarmente significativi sia per sviluppo della lingua sia per la straordinaria produzione letteraria degli autori) che, partendo da Terenzio e giungendo fino a Tacito coincide con il periodo di massimo splendore del latino letterario classico.
Comprendere più che tradurre
Nella pratica scolastica la generale difficoltà di trasferire da una lingua all’altra un messaggio qualsiasi è aggravata inoltre da problemi di varia natura che rendono più complicata l’opera del traduttore: la natura tecnica del linguaggio, prevalentemente letterario, la mancata conoscenza del generale codice linguistico degli autori, la somministrazione di brani da tradurre, spesso malamente tagliati e senza senso compiuto, che danno ad un traduttore inesperto l’impressione di avere a che fare con argomenti senza fine né principio. Non si può negare, inoltre, che l’uso scolastico della traduzione, generalmente rivolto in modo strumentale piuttosto alla valutazione che alla resa comunicativa, (nella prassi scolastica se ne conoscono due forme: la versione, quale compito in classe che serve esclusivamente a determinare il voto scritto e la traduzione degli autori che, oltre al tradurre pure e semplice, richiede anche la complessa analisi del testo) abbia reso meno desiderabile un tale esercizio da parte degli alunni; pertanto sarebbe opportuno che invece di brani unici senza capo né coda, isolati o anonimi, si offrissero alla lettura autentici messaggi, cioè testi diversi di significato compiuto, dei quali siano noti almeno il titolo dell’opera, l’autore referente e la particolare tipologia o grammatica del testo. Infatti, come non è assolutamente indifferente per il traduttore sapere, insieme al nome dell’autore, se l’opera da cui è tratto il brano sia di tipo descrittivo, narrativo o argomentativo, così è anche opportuno che capisca che avvicinarsi ad un testo latino non significa solo tradurlo ma principalmente capirlo, in quanto la traduzione dovrebbe essere solo la fase definitiva di due momenti distinti, ma anche intimamente congiunti, che non potrebbe aver luogo senza quella propedeutica, la comprensione appunto che, coincidendo con l’analisi dei fattori extralinguistici del testo, consiste nella contestualizzazione di esso in base al procedimento diacronico.
Il laboratorio di traduzione
L’opera di traduzione, che nella nostra scuola si riduce purtroppo molto spesso ad una frettolosa, poco gratificante e talvolta inesatta “versione”in lingua italiana di brani, cioè di frammenti di opere che molte volte non hanno nulla dell’organicità e della comunicabilità di un testo che voglia essere anche un messaggio, richiederebbe per la sua complessità un’attenzione particolare sia da parte dei docenti che dei capi d’istituto, i quali, preso atto molte volte dell’insufficiente competenza linguistica e capacità traduttiva degli allievi, si limitano ad organizzare corsi di sostegno e recupero sclerotici che non soddisfano nessuno, né i docenti, al solito malpagati, che non possono fare miracoli, né gli alunni e le famiglie che preferiscono, pur spendendo di più, inviare i loro rampolli a lezione da docenti esterni con la speranza, a dire il vero non sempre fondata, di poter risolvere l’impreparazione o i limiti del loro profitto in latino.
Eppure una soluzione ci sarebbe che, in modo ottimale e inoltre con il risparmio di tempo e capitali, sia da parte della scuola sia delle famiglie, potrebbe portare ad una soluzione definitiva del problema: l’attivazione di laboratori di analisi e traduzioneche, come prevedono le recenti norme sull’autonomia, insieme ad altre e nuove forme di collaborazione, potrebbero essere organizzati dalla scuola col concorso delle famiglie semplicemente razionalizzando o dividendo la spesa. Spetta agli estensori della proposta Brocca il merito di aver sottolineato l’importanza del laboratorio di traduzione(l’espressione compare per la prima volta nelle indicazioni didattiche sulla disciplina, dove fra l’altro si sottolinea per i docenti la necessità di un’adeguata ricerca in materia: “Lavorare sulla traduzione implica inoltre da parte del docente anche la conoscenza man mano aggiornata delle teorie della traduzione che potranno essere sperimentate (senza farne oggetto di valutazione) con la classe in quell’opportuno spazio, da ritagliare all’interno del curricolo, individuato come laboratorio della traduzione”.) quale momento privilegiato e strumento essenziale per educare gli alunni ad apprendere la difficile attività del tradurre che consiste prima di tutto nella capacità di analizzare un testo per poi ricodificarlo nella propria lingua. Essendo quest’ultima il risultato finale di una serie di operazioni molto complesse da effettuare sulle due lingue è opportuno che sia il docente ad indicarle guidando gli allievi a seguire quel difficile processo fino al possesso delle abilità necessarie ad analizzare, comprendere e tradurre un testo latino.
L’attività laboratoriale, momento privilegiato nel quale l’azione formativa dovrebbe qualificarsi come “sapere e saper fare“, diversamente da ogni altra attività didattica che avviene esclusivamente all’interno del curricolo, richiede, contrariamente a ciò che si legge nella parte conclusiva del testo della Commissione Brocca, uno spazio ritagliato al di fuori di esso, anche opportunamente ed eventualmente separato dallo studio normalizzato della lingua, perché si realizzino le condizioni necessarie di quell’ apprendimento simulato che attraverso l’esperienza del “sapere agito” sia in grado di fornire agli alunni un complesso di conoscenze acquisite senza l’assillo psicologico e il peso dell’ordinario svolgimento scolastico costituito prevalentemente dalla ricorrente routine dei compiti e delle interrogazioni. Pertanto, l’esperienza didattica del laboratorio, pur non pretendendo di essere sostitutiva, anzi configurandosi come integrativa del normale studio disciplinare e curricolare, conduce per sua natura ad un nuovo modello di ricerca-azione che coinvolge docenti ed allievi, soggetti distinti che, pur operando con ruolo diverso e su piani diversificati, cooperano infine alla integrazione dei rispettivi campi di azione alla ricerca di un dialettico e proficuo rapporto.
L’ esperimento del laboratorio di traduzione, che pure è considerato con sospetto da non pochi capi d’istituto, forse a causa dell’impatto non lieve che una tale tecnica di lavoro esercita nei riguardi dei procedimenti tradizionali d’istruzione, rimane a nostro avviso uno strumento fondamentale per comunicare agli allievi quella tecnica del tradurre che difficilmente apprenderebbero anche utilizzando al meglio le poche ore riservate alla tradizionale esercitazione in classe. Infatti, solo attraverso la progettazione e l’esecuzione della formula del laboratorio sarebbe consentito al docente, questa volta anche nella veste di “tecnico”, di strutturare un percorso per nulla teorico ma eminentemente pratico, nel quale egli ha la possibilità di verificare i risultati dei suoi studi e l’attendibilità della ricerca effettuata sulla teoria del tradurre e l’allievo di coniugare le conoscenze morfosintattiche, stilistiche, retoriche ecc. (recuperate questa volta non in modo astratto ed assoluto, ma utilizzate esclusivamente quali propedeutici strumenti essenziali alla comprensione del testo) apprese negli altri momenti del percorso disciplinare con i procedimenti tecnici della traduzione acquisiti attraverso la ripetuta pratica della simulazione. È solo il caso di ricordare che l’azione didattica del laboratorio non prevede la lezione teorica del docente, men che mai frontale, ma una diversa strategia educativa fondata non tanto sulle nozioni quanto sull’apprendimento diretto e “mentre si fa” di procedimenti formativi acquisiti attraverso il ripetuto esercizio di “operazioni” particolari e adatte allo scopo, che l’alunno deve saper fare dopo averle a lungo sperimentate.
Un procedimento sistematico
Sarebbe opportuno, a questo proposito, che il docente di latino già nella fase di progettazione allestisca un iter procedurale costituito da un insieme di regole, o piuttosto da una sequenza di operazioni, per fornire agli alunni non propriamente un metodo scientifico della traduzione valido in assoluto (esso non può sussistere non fosse altro perché il trasferimento di un messaggio letterario da una lingua all’altra comporta sempre l’intervento soggettivo e l’interpretazione del traduttore), capace di sostituire i soliti consigli pratici per la traduzione, quanto piuttosto un semplice procedimento sistematico nel quale sia indicata una successione di operazioni adatte alla soluzione del problema del tradurre che, prima di indicare la necessaria procedura analitica di sviluppo, si potrebbe ridurre almeno inizialmente in forma schematica. Non pretendiamo di fornire ricette infallibili a docenti esperti della materia ma, appellandoci ad una esperienza a lungo maturata sul campo, vorremmo poter suggerire a quelli più giovani che già insegnano o a quelli che si accingono ad iniziare la carriera di fare apprendere ai loro allievi, unitamente alle conoscenze linguistiche, una vera e propria tecnica del tradurre che a parer nostro dovrebbe innanzitutto tradursi, e non solo nella fase propedeutica, in una successione di attività pratico-intellettive così sintetizzabili: leggere, intuire, comprendere, analizzare, confrontare, tradurre, verificare, correggere, revisionare.
Tutti i docenti della disciplina sanno bene che una lettura meditata e ripetuta del testo da tradurre ha una necessaria funzione ostiaria, nel senso che serve ad introdurre il giovane traduttore in un mondo che altrimenti gli rimarrebbe in parte estraneo. È necessario, pertanto, che inizialmente sia il docente ad effettuare una lettura corretta ed espressiva del brano sia per abituare gli allievi ad un’ esatta pronunzia sia per consentire loro la completa intuizione del testo. È bene qui chiarire che intuire il testo non significa affatto affidarsi ad una generica impressione, ma va inteso nel senso proprio di guardare dentro(da intueor), cioè di penetrarvi all’interno per inquadrare la trama generale del messaggio attraverso la considerazione attenta degli elementi lessicali significativi, le parole chiavi o “amiche” (che andrebbero isolate ed annotate sempre per iscritto col proposito di costituire, senza l’uso del dizionario, un lessico ragionato formato di reti e famiglie di parole più facili da recuperare ed utilizzare rispetto ai termini singoli da ricordare semplicemente a memoria) e per cogliervi anche le idee cardinali utilizzando la propria enciclopedia del sapere. A questo punto si innesta il comprendere, operazione propedeutica e fondamentale di contestualizzazione del testo all’interno dell’opera e dell’autore nella storia e nella cultura della sua epoca che, date le difficoltà, sarebbe meglio venisse effettuata dal docente anche per consentire prima della traduzione una più agevole analisi del brano.
Analizzare il testo significa prima di tutto esaminare la struttura del periodo per individuare i connettivi semantici e sintattico- funzionali. È questa un procedimento essenziale ai fini del possesso della cosiddetta “grammatica della frase”, che consiste nel sapere distinguere e separare le proposizioni, sottolineare la centralità del verbo (distinguendolo nelle due categorie dei verbi semplici e composti con preposizione o suffissali che andrebbero annotati, prima di ogni altro elemento grammaticale, nella prima colonna di una scheda da utilizzare eventualmente alla fine nella fase di verifica e correzione), l’importanza delle congiunzioni (da riportare, dopo averle distinte in coordinative e subordinanti, nella seconda colonna della griglia accanto ai verbi), i cosiddetti “ attanti”(i complementi fondamentali che fanno l’azione” che sono in genere nomina, cioè sostantivi, aggettivi e pronomi che andrebbero ugualmente sistemati nella scheda nell’ordine funzionale), i “circostanti” (attributi e apposizioni e altri elementi circostanziali come, ad esempio i genitivi di possesso), le “espansioni”, cioè tutti gli altri complementi che non dipendono direttamente dal verbo. Connessa all’analisi della frase e non meno importante di essa ai fini di una decente traduzione è la cosiddetta “ grammatica del testo” che consiste nella capacità del traduttore di saperne classificare al livello più semplice la tipologia narrativa, descrittiva o argomentativa o quella di individuare la specifica qualità stilistica dell’autore.
Il metodo contrastivo
La successiva operazione del confrontare che, fondandosi essenzialmente sulla conoscenza delle strutture sintattiche del latino, richiede da parte del giovane traduttore la capacità critica di saper riconoscere al confronto con l’italiano, prevalentemente per quanto riguarda l'ordo frasale, la disparità esistente fra la lingua di arrivo e quella di partenza. A questo proposito deve essere indicata nella traduzione contrastava il procedimento metodologico più adatto ad effettuare in modo sistematico il confronto linguistico sia per la proficua ricaduta formativa (consistente nel potenziamento di entrambi i codici espressivi) sia per la potenziale gratificazione che può derivare ai discenti da un continuato esercizio del genere che presuppone in ogni caso lunghe attese prima che si possano vedere consistenti risultati.
Non pochi docenti, soprattutto quelli che sono ancora fermi nel considerare la traduzione un esercizio didattico da cui trarre immediatamente dei risultati da utilizzare ai fini della valutazione, sono però disposti ad affiancare al testo latino altre traduzioni già fatte per educare gli alunni ad una traduzione finale autonoma attraverso l’utilizzazione di materiali attinti da altri traduttori. Non è certamente facile convincere certi docenti poco desiderosi di rinnovarsi ed aggiornarsi che la metodologia contrastiva, se avviata per tempo e ben utilizzata, più che favorire la pigrizia degli alunni, può rivelarsi un’ipotesi di lavoro affascinante, uno strumento didattico efficacissimo in grado di fornire loro attraverso un sistematico raffronto interlinguistico la capacità di intendere anche le strutture testuali del testo latino. Non ha nessun senso, pertanto, impedire agli alunni di utilizzare i libri di autori latini, corredati di traduzione a fronte, che essi possono trovare fortunatamente e in abbondanza nelle collane economiche degli editori e sostituirli ai miserevoli e veramente inutili “ traduttori” di una volta. Il dovere odierno dell’insegnante di latino non è esclusivamente quello di vietare l’utilizzazione di tali testi sebbene, come giustamente sostiene Flocchini, di educare i discenti a sapersene servire in maniera giusta: Credo che una buona edizione con la traduzione a fronte sia utilissima, a patto che i docenti si facciano carico di insegnare agli studenti a utilizzarla nel modo migliore, abituandoli all’analisi contrastiva ed a considerare la traduzione stampata a fianco del testo latino non come “ la” traduzione, ma come una fra le traduzioni possibili, in cui larga parte ha la interpretazione del traduttore, la sua sensibilità, la sua competenza, il suo gusto.Classici con le edizioni a fronte credo che possano aver diritto di cittadinanza anche in classe come normali sussidi didattici nell’ambito di un “laboratorio di traduzione” (37). A queste condizioni è assolutamente inopportuno condannare un alunno che servendosi di sue personali qualità critico-interpretative sia capace di fornirci una traduzione “autonoma“ che nasca dal confronto di una o più traduzioni “mediate”.
Da quanto detto consegue che l’esecuzione traduttiva prima di attivarsi richiede necessariamente da parte dell’alunno l’esecuzione di una serie di operazioni precedenti senza le quali i risultati del tradurre stesso sarebbero certamente manchevoli o addirittura insufficienti. Non a caso, come risulta dall’esame del nostro schema, proprio perché la fase del tradurre richiede preparazione ed attenzione, la composizione del nuovo testo è situata solo al quinto posto nelle operazioni preventivate.
Festina lente
È compito del docente ricordare all’alunno di non aver fretta, che non gli conviene essere impaziente, che potrà cimentarsi nella traduzione solo dopo aver maturato, accanto ad una certa competenza linguistica, una buona sensibilità ed abilità traduttiva, cose che si acquistano solo col tempo e che in ogni caso sono in grado di garantirgli per il momento solo una soluzione provvisoria, quello che solitamente viene definito tentativo o abbozzo di traduzione, da effettuarsi in modo letterale dopo la consultazione, e questa volta a fondo, di un buon vocabolario, come ad esempio l’antico e sempre valido Calonghi. Ciò non vuol dire però che lo studente sia giunto al termine della sua fatica, anzi, è opportuno che egli eviti la tentazione di una traduzione semplicemente letterale non fosse altro perché essa, pretendendo esclusivamente “ il calco dei vocaboli, è appunto la sola che ha la certezza di sbagliare” (38), in quanto l’abitudine continuata di considerare solo in modo analitico le parole, escludendo l’intervento valutativo ed interpretativo del traduttore sul peso e sul significato dei diversi elementi verbali nella frase, finirebbe per ridurre l’attività del tradurre esclusivamente ad un vizioso e inutile trasporto di parole dalla lingua di partenza a quella d’arrivo. Per ovviare a questo inconveniente i docenti del passato suggerivano di effettuare la cosiddetta “costruzione diretta“ consigliando agli alunni di numerare le parole che costituivano la frase latina secondo l’ordine sintattico dell’italiano. Tale procedimento empirico, che viene oggi generalmente avversato, costituendo un ottimo antidoto contro una traduzione troppo letterale si è rivelato sempre un ottimo sistema per comprendere le disparità sintattiche che esistono tra la sintassi dell’italiano, la cui frase ha una struttura progressiva (nel senso che gli elementi più caratterizzanti si trovano al termine) e quella regressiva del latino, che, adottando quello che oggi in gergo giornalistico si dice stile nominale, di solito colloca all’inizio l’elemento più importante.
Pertanto, pur consentendo e solo nella fase iniziale una traduzione provvisoria di tipo letterale occorre tuttavia evitare che lo studente, dopo aver effettuato questa prima stesura, ritenga di aver concluso la sua opera avendo fatto fino in fondo il suo dovere, ma è opportuno si persuada che l’opera di traduzione, non è solo una tecnica che ha bisogno di regole, ma, essendo anche assimilabile ad un originale oggetto artistico, non può rimanere nella forma dell’abbozzo, ma solitamente ha bisogno di essere digrossato prima di ricevere l’ultima mano del suo esecutore. L’esperienza nei licei ci insegna che solitamente non è agevole per un docente richiedere agli alunni lo sforzo di riprendere e rielaborare con attenzione un testo latino dopo averlo trasferito nella nostra lingua. Essi non lo fanno non solo per pigrizia o per mancanza di tempo (nel caso specifico di una traduzione in classe), ma soprattutto perché di solito non ne hanno i mezzi o pensano che spetti esclusivamente al professore verificare o correggere qualsiasi lavoro sia stato da loro eseguito. È compito del docente, nello spazio appartato del laboratorio, dimostrare che l’opera di verifica e correzione (da effettuarsi con l’attento confronto delle le singole parti verbali del testo latino con i termini annotati con ordine e riportati parola per parola nella griglia) non compete solo a lui, ma potrebbe ad essi delegarla e trasferirla non senza averne prima dimostrato l’utilità, anzi l’assoluta necessità, ai fini del risultato finale.
Per verificare la fedeltà della traduzione italiana rispetto al testo latino l’insegnante, dopo aver approfondito le caratteristiche stilistiche dell’autore preso in considerazione, potrebbe realizzare insieme con gli alunni quell’autentica prova del nove che è la tecnica del retrovertere, che consiste nel ricodificare nuovamente, dopo averlo corretto, il testo della lingua di arrivo secondo il modello originale dell’autore classico. Quest’ultimo esercizio, che richiede in ogni caso già un’avviata competenza linguistica, potrebbe fornire col tempo interessantissimi risultati, prevalentemente al termine del curriculum in vista dell’esame di stato, o a livello di maggiore specializzazione quale esercitazione per la preparazione dell’esame di latino scritto universitario.
La revisione formale
Dopo verifica attenta e correzione, l’ultimo atto del tradurre coincide con la revisione formale che dovrebbe essere la finale e necessaria conclusione (saper revisionare un testo è uno dei momenti chiave della competenza linguistica) nel processo di costituzione e stesura di un qualsiasi testo. Sennonché la capacità di saper revisionare una scrittura è uno degli anelli più deboli nel complesso delle competenze dei nostri alunni, i quali molte volte, non possedendo né le categorie metalinguistiche per riflettere sulla testualità né gli strumenti per realizzare il montaggio e lo smontaggio di un testo, non sanno come revisionarlo e in base a quali principi. Per revisionare un testo l’alunno dovrebbe sapere costituire, regolare e controllare in modo chiaro, leggibile e comprensibile la sua scrittura, ma per fare ciò è necessario innanzitutto che sappia organizzare nel tessuto del discorso dei contenuti secondo un ordine espositivo che tenga conto degli elementi appartenenti ai diversi livelli (lessicale, morfologico, sintattico, metrico-ritmico, fonologico, retorico) del sistema linguistico terminale (LA) che pur avendo un proprio funzionamento interagiscono anche tra loro.
Da quanto detto risulta che la capacità di revisionare un testo, sia a stesura ultimata sia nel corso della sua costituzione, dipende essenzialmente dalla competenza linguistica che è la dote essenziale che si richiede ad buon traduttore, ma a ciò si deve aggiungere anche un’altra necessità che potrebbe agevolare il riconoscimento di eventuali errori commessi nella prima stesura: la difficile disposizione a saper prendere le distanze dal testo, a spersonalizzarsi, guardandolo come altri da sé e assumendo la posizione critica del lettore esterno.
La valutazione
Al termine del percorso, per fornire agli allievi la riprova di aver eseguito fino in fondo e correttamente tutte e sei le operazioni indicate, sarebbe conveniente che sempre all’interno di un laboratorio, da ritagliare all’esterno del curricolo piuttosto che all’interno di esso, come suggerisce la proposta Brocca, il docente mettendo in pratica una didattica a carte scoperte dimostri agli allievi che la valutazione sarà effettuata tenendo conto conseguentemente dei seguenti elementi di accertamento:
che è stato inteso il messaggio dell’autore;
che dal traduttore sono stati compresi i contenuti linguistici (lessico, strutture morfo-sintattiche e stilistiche, tropi);
che sono state rispettate le regole della lingua di arrivo;
che la ricodificazione del testo nella lingua del traduttore sia corretta e perfettamente rispondente alle regole ;
che il registro stilistico sia chiaro, leggibile ed immediatamente fruibile: cioè conforme al modello di una medietas espressiva, equidistante sia dagli eccessi del linguaggio troppo elevato (aulicismi, latinismi, ecc.) sia dall’impiego troppo sconsiderato di termini dell’uso o dialettali.
Gli obiettivi terminali
Per concludere sulla traduzione, riprendendo contemporaneamente anche il discorso sulle finalità e gli obbiettivi, si dirà che la decodificazione di un testo latino e la sua successiva ricodificazione nella nostra lingua non potrebbero avvenire senza la contemporanea e completa conoscenza sia della lingua di arrivo (LA) sia di quella di partenza (LP); pertanto il problema di una traduzione, fedele o infedele che sia, si gioca tutto quanto sull’acquisita capacità di padroneggiare l’uno e l’altro sistema linguistico per individuare al confronto analogie e differenze, nonché i rapporti di derivazione e i mutamenti intervenuti nel transito della lingua di Roma in quelle neolatine. Tali non facili risultati (coincidenti col secondo obiettivo) si dovrebbero conseguire già al termine del primo anno del triennio, allorché, insieme al consolidamento delle nozioni morfo-sintattiche e lessicali, l’esercizio dell’analisi di penetrazione del testo, già avviato e seguito con sistematica continuità al primo livello, successivamente continuato ed arricchito, sulle basi di una più matura educazione linguistica, dagli apporti più consistenti dello studio retorico-stilistico e coniugato con la lezione storico-critica delle altre discipline del curricolo, dovrebbe condurre progressivamente l’alunno al possesso di quella civiltà e cultura latina in grado di offrirgli al termine del percorso (allorché la prima e più importante delle finalità generali coinciderà con i risultati del terzo obiettivo finale) insieme con la consapevolezza dei fatti della storia la misura del mondo reale e le ragioni più profonde della sua personale appartenenza.
NOTE
1) N.FLOCCHINI, La didattica del latino in Insegnare latino, Firenze 1999 pp.121-22.
2) Italo Calvino così ha annotato a proposito di quegli anni: “ Non c’era la letteratura della negazione che veniva proposta, ma la negazione della letteratura. La letteratura stessa era accusata d’essere una perdita di tempo “ (Usi politici giusti e sbagliati della letteratura in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980 ).
3) N.FLOCCHINI, Il latino nella scuola italiana del dopoguerra, in op. cit., pp.57 sgg.
4) La Commissione, che prese il nome da uno dei sottosegretari del ministro Galloni che la presiedeva, insediata nel 1988 in previsione di una riforma della scuola superiore mai realizzata, ha cessato i suoi lavori nel 1992 con la redazione dei nuovi programmi.
5) Cfr. G. GENTILE, La nuova scuola media, Firenze 1925, p. 35.
6) Nei programmi concorsuali degli anni cinquanta la prova scritta di latino consisteva nello svolgimento in lingua latina di un tema scelto dal candidato relativo alla letteratura latina ed in particolare “ nella narrazione di un fatto storico o nella biografia di un personaggio storico o nell’esposizione di un’opera letteraria”.
7) N. FLOCCHINI, cit., pp. 157-58.
8) N. FLOCCHINI, cit., p. 154.
9) F.PIAZZI, La “Brevità” nell’insegnamento del latino, in La didattica breve del latino, Bologna 1997-2002, p. 7.
10) N. FLOCCHINI, cit., p. 87.
11) Cfr. La didattica breve del latino, a cura di F. Piazzi,Bologna 1997- 2002, pp. 22 sgg.
12) L’espressione “Didattica breve“, con la sigla di riduzione DB, compare in un testo dallo stesso titolo ( il Mulino Bologna 1993 ) di F. Ciampolini con specifico riferimento alle discipline tecniche, essa è stata estesa successivamente con alterna fortuna anche alle materie umanistiche, e pertanto anche al latino, con il proposito di renderne l’apprendimento più rapido, meno dispendioso, ma anche più vario. Occorre dire che tale metodo, pur presentando notevole interesse, non sempre viene accolto con favore sia dai docenti delle scuole sia da quelli dell’Università che pure dovrebbero sperimentarne i metodi non fosse altro per farne conoscere i risultati mettendoli in comune.
13) Cfr.E.MANDRUZZATO, Il piacere del latino, Milano 1989, pp.22 sgg.
14) Con una tale espressione si suole intendere da parte degli esperti della moderna linguistica ( in particolare dal Sabatini ) il livello medio riconosciuto di una lingua.
15) E.MANDRUZZATO, cit., p.25.
16) F.SABATINI, Il latino e l’educazione linguistica nella scuola superiore, in Cultura e Scuola, Aprile-Giugno 1984, N.90.
17) Cfr. M.FAGGELLA, Il problema delle due culture, in L.Sinisgalli, un poeta nella civiltà delle macchine, Ermes, Potenza 1996, pp. 11-12.
18) N.FLOCCHINI, cit., pp. 114-15.
19) E.MANDRUZZATO, cit., p. 44.
20) Cfr. La didattica breve del latino, cit., p.20.
21) Per questo problema specifico e per tutte le questioni riguardanti il metodo breve in generale si rimanda al testo fondamentale di F.CIAMPOLINI, La didattica breve, Bologna 1993.
22) Per questi problemi:cfr., L.R. PALMER, La lingua latina, Torino 1997, pp. 153 sgg.
23) Cfr., Il piacere del latino, cit., p. 25 sgg.
24) Cfr., A..TRAINA, L’alfabeto e la pronunzia del latino, Bologna 1973, p. 76.
25) N.FLOCCHINI, Le antologie degli autori in una moderna didattica del latino, “ Aufidus” 1998, 7, p. 136.
26) Cfr. D.P.R. 31/9/1980 n.316 (Modifica dei programmi nel triennio liceale).
27) Per una trattazione più specifica del problema: Cfr. N.Flocchini, “Aufidus“ 1998, 7, pp. 127 sgg.
28) Cfr. M. FAGGELLA, Leopardi-Proust:la ricerca del temto e il procedimento della memoria involontaria, “ Avanguardia” 13, Anno 5° 2000.
29) Cfr. M.FAGGELLA, Manzoni “tragico” ,” Sylarus “ 17, Anno 6° 2001.
30) Si veda, a tal proposito, Linguaggio e lettura testuale, in “ Quaderni di Humanitas “, Potenza novembre-dicembre 1988.
31) P.V.COVA, Didattica breve e grammatica latina I, “ Nuova Secondaria “, 1995, 9, p. 70.
32) Ovviamente, per non caricare troppo l’apparato di notizie filologiche che potrebbero tediare gli alunni , si procederà ad una semplice e schematica catalogazione dei dati come la seguente, corrispondente alla trasmissione manoscritta delle due monografie sallustiane: Il testo delle due opere storiche è giunto a noi contemporaneamente attraverso due classi di manoscritti derivati da un archetipo comune del IV secolo: a) i mutili, quelli più antichi, parzialmente integrati e generalmente residenti a Parigi; b) gli integri, più recenti e corretti; c) un Papiro di Ossirinco (IV, 8884), scorretto ma utile in qualche parte per effettuare un’opera di collazione, necessaria a correggere le modificazioni e i diversi errori presenti negli altri codici.
33) Per una probabile applicazione delle coordinate gramsciane e dei termini di intellettuale organico o tradizionale, si veda il mio Orazio e il potere, in Il bimillenario oraziano “Basilicata Regione”, 2 Anno 6° 1993, pp. 131-140.
34) B.GENTILI, Tradurre poesia, “Aufidus“ 8, 1989, pp. 61-62.
35) Cfr. E. MANDRUZZATO, Il piacere del latino, Milano 1989, pp.43 sgg.
36) Senza negare l’importanza degli autori minori, le cui opere spesso sono molto utili per tracciare un quadro più completo della civiltà letteraria, e dando per scontata la lettura dei poeti più noti, a nostro giudizio sarebbe opportuno, sia per risparmio di tempo sia per la loro “ insostituibilità, al fine di mettere a punto ed affinare la tecnica della traduzione puntare soprattutto l’attenzione sui seguenti prosatori maggiori: Catone, Varrone, C.Nepote, Cesare, Cicerone, Sallustio, Catullo, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibullo, Properzio, Livio, Velleio, Curzio Rufo, Plinio, Valerio Massimo, Seneca, Quintiliano, Petronio, Tacito, Svetonio, Apulelio, Tertulliano, Ambrogio, Girolamo, Agostino,
37) N.FLOCCHINI, Insegnare latino, cit., p.206.
38) E.MANDRUZZATO, cit., p. 53.
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