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Odissea, un mondo nuovo
Mario Amato
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In principio (della letteratura occidentale) era l’Odissea.
Essa rappresenta anche il passaggio ad un mondo nuovo.
La prima ragione della duplicità temporale dell’Odissea risiede nel fatto che essa appartiene ancora ad un tempo nel quale le storie non venivano narrate, ma cantate. Omero è l’aedo che intona la storia di Ulisse, ma essa diventerà un libro, ed i libri si leggono in solitudine ed in silenzio.
Sono gli scribi anonimi a tramandare la storia, non più illuminati dalle fiaccole e riscaldati da dolce vino, non più confortati dalla melodia della cetra.
Giovanni Pascoli sostiene che l’origine della poesia risale all’elegia funebre, cantata da un rapsodo durante la notte per ricordare l’amico morto: con cibo, musica e canto, narratore delle imprese del defunto, si lenisce la sofferenza per il tragico evento.
Questa teoria pascoliana può essere ampliata, poiché tutta la letteratura, probabilmente, ha origini conviviali che vanno ricondotte a tempi antichissimi, allorché gli uomini sedevano intorno ad un fuoco e raccontavano le loro fatiche di caccia. Era il tempo del mito.
Dal mito l’Odissea si allontana.
Nell’incontro tra Odisseo ed Achille nel mondo delle ombre possiamo trovare differenze culturali: Achille avverte l’antico compagno di guerra di tenersi cara la vita, perché non esiste bene più prezioso. Il Pelide è per nascita un eroe appartenente al mito, ma nessun destino è tragico quanto il suo: un guerriero sa di poter morire in guerra, tuttavia ad Achille era stata assegnata il dono dell’invulnerabilità. Il Fato designa per lui la morte. Egli non può sfuggire al destino che il Fato ha decretato.
Ulisse non è un semidio e, leggendo attentamente la sua storia, ci avvediamo che egli non ha alcun rispetto per gli Dei, anzi forse non crede in loro, o almeno sa che possono essere ingannati e vinti.
Odisseo è uomo dal multiforme ingegno: ciò significa che egli non è fissato in una forma, ma rappresenta i molteplici aspetti della vita. La figura di Odisseo ha trovato interpreti nella storia della letteratura: Dante, Tennyson, Pascoli, Saba, Joyce e tanti altri.
Nella figura di Ulisse troviamo esaltata, generalmente, la brama di conoscenza dell’eroe greco:
“nati non foste a viver come bruti/ ma per cercar virtude e conoscenza” (Dante Alighieri)
“Affranti dal tempo e dal fato, ma duri/ sempre nel lottare cercare e trovare né cedere mai” (Tennyson)
“…me al largo/ sospinge ancora il non domato spirto/ e della vita il doloroso amore” (Umberto Saba)
La volontà di acquisizione di sapere di Ulisse è tuttavia lontana da quella dell’età del mito, è un desiderio scientifico.
Secondo A. Frankfurt(1) la conoscenza mitica avviene con un tu che l’uomo rivolge alla natura in un rapporto di forza e laddove i fenomeni naturali sono invincibili ed inesplicabili, l’uomo mitico li deifica. Nella conoscenza scientifica il mondo non è un tu, ma un lui, vale a dire il mondo diventa oggetto dell’apprendimento.
Possiamo non accettare questa teoria, che pone il mito in una posizione subordinata alla storia, tuttavia essa può aiutarci in una lettura differente dell’Odissea.
Nel rapporto con gli Dei Ulisse è diverso da altri eroi: la civiltà greca nasce da una trasgressione, dal furto della scintilla divina che Prometeo compie ai danni del Sole. Prometeo viene legato ad una rupe e il suo fegato, sede dell’anima, viene ogni giorno divorato da un avvoltoio, ma rinasce durante la notte. Prometeo compirebbe altre mille volte quell’atto, pur conoscendo la punizione. Possiamo leggere nel mito di Prometeo l’eterno ritorno del mondo, secondo le fasi della nascita, della prosperità, della dismisura e della morte, ma anche l’accettazione della forza invincibile degli Dei.
Tale rapporto con gli Dei caratterizza anche Dedalo, che costruisce ali di cera, ma avverte il figlio Icaro di non avvicinarsi troppo al Sole: gli Dei possono essere sfidati, ma devono sempre essere rispettati.
Ulisse è diverso: egli sfida gli Dei, ma con la superba convinzione che l’uomo sia superiore ad essi e non ha pudore di dichiararlo. Nel libro decimo Odisseo narra l’incontro con Eolo, che gli fa dono di un otre che contiene tutti i venti, tranne il dolce Zefiro che lo sospingerà fino ad Itaca, ma il greco nasconde di aver ucciso Polifemo, figlio di Poseidone.
Le parole di Eolo sono una dura condanna: “Via da quest’isola, e tosto/, oh degli uomini tutti il più malvagio:/ che a me né accòr, né rimandar con doni/ lice un mortal che degli Eterni è in ira./ Via poiché l’odio lor qua ti condusse” (vv. 95 –99) (2).
Il più malvagio di tutti gli uomini è Ulisse per Eolo! Qual è la perfidia di Odisseo? Il desiderio di rivedere la patria e abbracciare di nuovo la moglie Penelope ed il figlio Telemaco? Un desiderio del tutto comprensibile per noi moderni, memori e testimoni, della miseria che le guerre arrecano, perché l’Odissea è anche una spietata critica dei conflitti che portano agli uomini morte, fame, disgregazione delle famiglie, malattie.
Ulisse è, per noi, non solo un eroe, ma anche una vittima, per gli Dei è un uomo malvagio, perché è connotato dalla altezzosa sicurezza che la conoscenza sia più forte di ogni altra forza. Egli reca un modo nuovo di pensare.
Non è un problema antico quello che l’Odissea ci propone ad ogni meravigliosa avventura, se pensiamo alle discussioni senza termine sullo scontro tra scienza ed etica.
Ulisse non si limita a recare una nuova Weltschaung, ma indaga penetra anche su quanto di più sacro possa esistere: l’anima.
Le Sirene chiamano l’eroe: “O molto illustre Odisseo, o degli Achei/ somma gloria immortal, su via qua vieni,/ ferma la nave, e il nostro canto ascolta/ Nessun passò di qua su negro legno,/ che non udisse pria questa che noi/ dalle labbra mandiam, voce soave;/ voce che inonda di diletto il core,/ e di molto saver la mente abbella./ Ché pur non pur ciò, che sopportaro a Troia / per celeste voler Teucri e Argivi,/ noi conosciam, ma non avvien/ su tutta la della vita serbatrice terra/ nulla che ignoto o scuro a noi rimanga”.(3)
La maga Circe ha indicato ad Ulisse la via per sfuggire al canto mortale delle Sirene. Non sono tanto le promesse degli esseri metà donne e metà pesce ad allettare i naviganti, quanto piuttosto il loro canto soave: “Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,/ E l’onde assonnò un Dèmone…”.
Una medesima situazione troviamo in Moby Dick di Hermann Melville nel capitolo significativamente intitolato La Sinfonia:”Era una limpida giornata d’un azzurro d’acciaio. I cieli dell’aria e del mare non si potevano quasi distinguere in quell’azzurro che tutto pervadeva; soltanto, l’aria pensosa era d’una purezza e dolcezza trasparenti, come di donna, e il mare gagliardo e virile si gonfiava in ondate lente, lunghe e poderose, come il petto di Sansone nel sonno”; e Capitan Achab dice “Oh, Starbuck (4), è un vento dolce dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo.” (5)
È la musica a lusingare Ulisse, perché essa penetra nelle profondità inaccessibili dell’anima, tanto che le sirene lo dichiarano apertamente, affermando che nulla sulla terra resta a loro nascosto. La terra è serbatrice, ma non nasconditrice. Odisseo racconta che un demone aveva chetato il mare: è il demone che permette di ascoltare la musica. Ha scritto Thomas Mann ne La Montagna incantata che non esiste arte più verticale ed insieme politicamente più pericolosa della musica, perché essa può essere ascoltata a più livelli, dalla ragione o dall’istinto. Nell’ascolto musicale può non esservi il filtro della ragione come avviene nella lettura.
Ulisse ascolta soprattutto il canto e solo grazie ad un accorgimento riesce a non cedere all’armonia che penetra nella sua anima, solo grazie alla ragione che è più forte di ogni dio e semidio.
Al contrario capitan Achab lascerà che la musica dolcissima del mare lo invada, nel senso antico di renderlo invasato. Egli seguirà fino all’ultimo il fine che la sua psiche gli indica.
Ulisse è il vero seguace del dettato delfico “Conosci te stesso”.
Bruno Bettelheim spiega la storia di Edipo (6).
Edipo, figlio di Lario e Giocasta , viene portato ad un pastore affinché egli non uccida il padre e non sposi la madre. Giovinetto, venuto a conoscenza della propria regale origine, si incammina verso Tebe. Scioglie l’enigma della Sfinge, entra nel tempio di Delfi ed ascolta l’oracolo. Tutto avverrà come è stato predetto: egli non può evitare il fato, ma la responsabilità è sua e non riguarda il parricidio e l’incesto, bensì il fatto che la Sfinge nell’enigma non indicava soltanto l’uomo in generale, ma anche Edipo stesso, che neanche nota alla frase “γνοτί σε αυτον” scritta all’entrata del tempio di Delfi.
Edipo sarà punito e dovrà espiare, Ulisse non pensa affatto di espiare, al contrario egli è fiero delle proprie azioni e vi è in lui piacere nel narrare gli espedienti mediante i quali ha ingannato dei e semidee.
Odisseo giungerà ad Itaca, Edipo si accecherà per vedere meglio, così come Omero canta più soavemente grazie alla sua cecità.
Noi leggiamo tacitamente, in solitudine, le meravigliose avventure di Ulisse, ma forse possiamo ancora udire, nel fruscio leggero delle pagine sfogliate, un’eco del canto dell’antico rapsodo.
NOTE
1) A. Frankfurt, Le origini della scienza, Einaudi
2) Omero, libro decimo, vv. 95-99 Newton
3) Omero, Odissea, libro decimosecondo, vv. 245-253, Newton
4) Starbuck è il capitano in seconda della Pequod, della nave comandata da capitan Achab
5) Hermann Melville, Moby Dick, Capitolo 132, La sinfonia, pagg.538,539
6) Bettelheim, Bruno, Freud e l’anima del mondo, Editori Riuniti
dicembre 2003
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