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Moby Dick, un eroe mitico contro l’Assoluto
Mario Amato
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La figura letteraria che più di ogni altra ha attraversato i secoli è Ulisse, fino al punto che sulla navicella spaziale destinata ad atterrare sulla luna furono incisi i versi danteschi “nati non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtude e conoscenza“ (Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVI).
Ulisse ha cambiato molti aspetti grazie ai poeti che lo hanno rappresentato ed interpretato ed ha avuto molti discendenti.
Possiamo trovare Ulisse nei tratti di molteplici personaggi, perché Odisseo è l’uomo dal “multiforme ingegno”, ed è anche uomo proteiforme: è amante appassionato, marito innamorato, grande guerriero, suadente narratore, ma è soprattutto eroe che sfida gli Dei. Egli uccide Polifemo, inganna Eolo, abbandona Calipso e Circe, si allontana infine anche da Penelope e Telemaco. Egli non si arrende agli Dei; porta a termine ciò che Tiresia, l’indovino, gli ha predetto nel mondo delle ombre: raggiunge la terra dove gli uomini non conoscono il sale e non sanno nulla della navigazione, pianta il remo e compie sacrifici al Dio Poseidone. Morrà in serena vecchiaia.
Chi ci assicura tuttavia che anche questo sacrificio non sia un’astuzia compiuta al fine di procurarsi tranquillità?
Vi sono due elementi da rilevare: la storia di Odisseo è una continua sfida agli Dei ed è indissolubilmente legata al mare.
Il mare è la vera patria di Ulisse, non Itaca, è fra le acque infide che si compie il suo destino; egli lotta con il Dio del mare, perché non vuole soccombere all’Oceano(1), al mostro che inghiotte gli uomini senza che di essi resti traccia alcuna.
In “Moby Dick” di Hermann Melville, il narratore, Ismaele, prima di imbarcarsi visita, a Bedford, una cappella edificata affinché madri e mogli possano pregare dinanzi a tombe vuote, sulle cui lapidi sono scritti i nomi dei loro figli e dei loro mariti morti in mare (Cap VII La Cappella).
Il mare è, come il cielo, l’elemento più infido per l’uomo.
Come per Ulisse, per Capitan Achab la lotta si svolge nel mare. Achab, come Odisseo, attua una lotta impari, una lotta destinata all’insuccesso, che significa tragicamente morte.
Achab, al pari di Odisseo, appartiene al mito per la sua perseveranza nella lotta a Moby Dick, alla balena bianca, che rappresenta l’ignoto, l’inconoscibile, rappresenta Dio. Essa è bianca perché questo è il colore più indefinito che esista, perché è il colore della purezza, ma il bianco assoluto è accecante e non permette di distinguere.
Certamente la balena bianca ha un antenato nella letteratura inglese nel mostro combattuto da Beowulf, ma essa ha radici più profonde nella Bibbia, nell’antico testamento, nel nuovo concetto di Dio portato dal popolo ebraico in Mesopotamia.
Che “Moby Dick” di Hermann Melville abbia riferimenti biblici è evidente: il libro inizia con la voce narrante che dice ai lettori “Chiamatemi Ismaele”; Ismaele è, nell’ Antico Testamento, il figlio d i Abramo e della sua schiava; Achab è un re che ha peccato, innalzando un tempio d’avorio ed è talmente malvagio che neanche i cani mangeranno le sue ossa, una volta morto. Capitan Achab ha una gamba d’avorio, costruita con ossa di balene. Più ancora, l’avversario del capitano somiglia al Dio dell’Antico testamento.
Gli Assiri, gli Egizi, i Babilonesi veneravano statue e credevano che gli Dei risiedessero in esse, deificavano i fenomeni naturali. Gli Ebrei introdussero un concetto incomprensibile: Dio è pura essenza; questo Dio giudaico ordina “Non ti farai immagini né dipinte né scolpite di me”. È un Dio che non può essere immaginato.
È questa la tragedia di Achab: egli è un eroe mitico, ma combatte contro un Dio che non è paragonabile agli Dei ingannati e sfidati da Ulisse, i quali avevano aspetto umano ed erano dotati di parola. Questo Dio non ha forma, non ha nome, è innominabile.
È questa la differenza tra Achab ed Odisseo: l’eroe greco può riappacificarsi con gli dei, Achab non può, perché compete contro un Dio che non potrà mai conoscere.
John Houston ha ben interpretato la scrittura di Hermann Melville in “Moby Dick”, inserendo un dialogo non presente nel libro: dice uno dei personaggi, alla vigilia dell’ultima caccia alla balena bianca “La vedo, la vedo”, ma l’altro risponde “Che tu la veda, non significa che sia reale”.
Il Dio dell’Antico Testamento chiede ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, invia ogni genere di dolori a Giobbe, punisce il mondo con il diluvio universale: è un Dio severo ed implacabile e non comprensibile.
Achab non ha timor di Dio, come Abramo, Giobbe o Noè, egli combatte contro ciò che non riesce a spiegare, contro ciò che lo perseguita solo in virtù della propria immane forza, combatte contro la morte.
In Ulisse vi è fierezza, forse anche albagia, ma v’è anche amore infinito per la vita: nel mondo delle ombre Odisseo incontra Achille e ne è ammirato, perché anche qui l’eroe gli sembra un re, ma in risposta il Pelide(2) gli rivela che preferirebbe essere l’ultimo degli schiavi nella più povera delle case piuttosto che regnare nel mondo dei morti.
È questa la grande differenza tra la cultura greca e quella giudaico-cristiana: gli Dei possono essere vinti, perché possono essere conosciuti, Dio è invincibile, perché non può essere neanche immaginato.
Nel capitolo “La sinfonia” Capitan Achab pronunzia queste parole, riferendosi a ciò che dentro o fuori di sé lo spinge alla caccia: “Che cos’è mai, quale cosa senza nome, imperscrutabile e ultraterrena è mai; quale signore e padrone nascosto e ingannatore, quale tiranno spietato mi comanda, perché contro tutti gli affetti e i desideri umani, io debba continuare a sospingere, ad agitarmi, a menare gomitate senza posa, accingendomi temerario a ciò che nel mio cuore, vero, naturale, non ho mai osato nemmeno di osare?”.
È questa la tragedia di Capitan Achab: egli è un eroe mitico, ma non appartiene al tempo del mito, ad un tempo astratto e completamente vero, appartiene alla Storia.
La storia può essere narrata, come il mito: l’ultima pagina del libro reca la citazione biblica “E solo io sono scampato a raccontare” (Giobbe). Questa pagina deve essere congiunta alla prima, allorché Ismaele spiega le ragioni del suo viaggio "Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fá – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare…".
Ha scritto M. Yourcenare che bisogna viaggiare con la curiosità dello straniero e la devozione del pellegrino (Straniera e Pellegrina, Einaudi), ha scritto Hermann Hesse che varcare i confini è il Nirvan (L’azzurra lontana, Sugarco), ma se noi non possiamo imbarcarci in una insolita avventura come fa Ismaele, possiamo aprire un libro, perché la lettura è una meravigliosa avventura.
NOTE
1) Il termine Oceano è usato come sinonimo di mare
2) Achille
dicembre 2003
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