Ogni volta che rapiscono un bambino o una bambina, io mi chiedo con angoscia se è più intollerabile saperli già morti e finalmente in pace, o pensarli vivi, in mano di persone che possono usare e abusare di loro, esposti a ogni tipo di sofferenza senza che noi possiamo proteggerli in nessun modo.
Alla notizia della straordinaria fuga della giovane Natascha Kampusch, mi sono identificata perciò nel lungo dolore di sua madre e dei suoi familiari e mi sono posta ancora la stessa dolorosa questione.
Ma la personalità di Natascha e il racconto che ha voluto offrirci, di un altrove che non riusciamo a pensare, ci dà nuove strade di riflessione e nuove possibilità di conoscenza.
Il miracolo della giovane Natascha sta nella sua integrità psichica, nella sua capacità di “sentimento” invece che di ri-sentimento -come ha scritto finemente Umberto Galimberti- nella sua forza consapevole, nella sua lucida strategia di sopravvivenza, nella sua determinata volontà di vincere il confronto con il suo aguzzino attraverso il lavoro su di sé e la cura della sua crescita culturale e psicologica.
Natascha ci dice di un’ esperienza estrema: come i sopravvissuti dei campi di sterminio, narra di una condizione che a noi appare indicibile e intollerabile. Come il bambino Otar di sei anni, che nell’inferno della scuola di Beslan racconta al cronista di essersi nascosto e salvato perché ha pensato intensamente ai suoi genitori e alle barzellette che gli raccontava il padre, Natascha ha continuato a pensare ai suoi affetti, al suo mondo di relazioni; è riuscita cioè a porre un argine alla devastazione e alla destrutturazione programmata dall’altro, proprio grazie alla forza del suo mondo affettivo e sentimentale, alla vitalità della sua immaginazione creativa.
Dopo la sua intervista, alcuni psichiatri si sono affrettati a dirci che si tratta di finzione, di una perdita di legame con la realtà, che Natascha per sopravvivere si è costruita un mondo inesistente, dal quale ha espunto la sua sofferenza. Commenti che colpiscono per la loro freddezza, per la riduzione di questa straordinaria e commovente storia individuale a caso clinico, a una qualche sindrome.
Nessuno di noi può avere la stupidità e l’ingenuità di pensare che tutto sia risolto, né che la profondità della sofferenza di questa piccola si possa risolvere in quindici giorni.
Sappiamo purtroppo che, a differenza dei sopravvissuti dei campi, lei è stata per otto anni terribilmente sola con se stessa, ed è un pensiero straziante quello di pensarla così coraggiosa e così sola, constatare che abbia dovuto crescere e svilupparsi fisicamente senza la presenza complice di una figura femminile (la madre, le amiche, le sorelle), che abbia letto e interpretato il mondo senza potersi confrontare con i coetanei.
Ma rischiamo di perdere la novità del suo messaggio, la speranza di cui è portatrice questa giovane donna, se guardiamo a una vicenda come questa soltanto per trovare conferma di quello che sappiamo già, dei nostri parametri di lettura, della casistica clinica.
La straordinaria e importante novità, secondo me, sta nel fatto che una bambina così piccola non abbia accettato di rappresentarsi solo come vittima, che abbia continuato a credere in se stessa, e che ora possa avere pensieri e desideri di riparazione e di condivisione, con una tale profondità e apertura agli altri che sembra davvero inaudita e impossibile. Non avremmo osato sperare che l’esito di una tortura e di una prolungata persecuzione fosse la capacità di assunzione di responsabilità verso i più deboli (Natascha individua le donne uccise a Ciudad Juarez, i bambini sequestrati e affamati come i suoi più prossimi); siamo abituati a comportarci secondo un dare e avere simmetrico e per questo sterile.
Invece, come già molti sopravvissuti dei campi, Natascha ci dice oggi che, nonostante tutto, è possibile non perdere la propria umanità; che è possibile convivere con il male, senza farsene sopraffare; che la volontà di vivere e la libertà personale possono essere più forti della follia e dare un senso anche alla sofferenza più estrema.