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Appunti sul documentario etnografico di Ernesto De Martino - di Gaetano Gentile

Lingua: Italiana
Destinatari: Formazione post diploma, Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Ipermedia

Abstract: Appunti sul documentario etnografico demartiniano

di Gaetano Gentile

 

Ernesto De Martino si definisce, in una sua nota dichiarazione, un etnografo vagante nel Mezzogiorno d’Italia. Inquadrarne in poche righe lo spessore intellettuale, le molteplici ramificazioni e la straordinaria attualità legati ai suoi studi, nonché il vasto background culturale, è pressoché impossibile. Si può affermare senza dubbio che la sua figura e la sua opera ruotano essenzialmente sull’approfondimento “pratico”, “vissuto”, soprattutto tra il 1952 e il 1959,1 viaggiando e verificando di persona nella magica Lucania, e base di volumi fondamentali per la storia delle religioni, l’etnologia e il folclore quali Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958), Sud e magia (1959), La terra del rimorso (1961), mentre esce postuma, nel 1977, una raccolta di scritti sulle apocalissi culturali, dal significativo titolo di La fine del mondo. Per un quadro abbastanza esauriente di queste straordinarie “ricerche sul campo” e delle premesse culturali sottese è opportuno usare le parole stesse di De Martino, tratte da Sud e magia:

I folkloristi considerano la vita culturale del mondo popolare nell’astrattezza dei suoi elementi più arcaici, isolati dal resto e proiettati nella gran notte della preistoria; i meridionalisti parlano di rapporti di classe, di economia, di conquista regia, ma a proposito della vita culturale delle plebi meridionali, si limitano alle statistiche sull’analfabetismo; e ancor meno troveremo accenni a questo problema nella corrente storiografica etico-politica. Della “superstizione” o del “paganesimo” delle plebi meridionali e del carattere accentuatamente magico del cattolicesimo popolare del mezzogiorno tutti sono persuasi, ma nessuna mente storica ha preso come oggetto di ricerca la vicenda che ha trasformato nel corso dei secoli il paganesimo originario nell’attuale “cattolicesimo popolare”. E nella carenza di una seria problematica storica, il mondo culturale delle plebi meridionali oscilla per noi fra il pittoresco, il divertente e il deplorevole.2

Le premesse agli studi lucani sono presenti già dal 1948, anno della pubblicazione de Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, testo che suscitò grande interesse, documentato dagli interventi polemici e dalle osservazioni critiche che eminenti filosofi (Benedetto Croce,3 Enzo Paci)4 e storici delle religioni (Raffaele Pettazzoni,5 Mircea Eliade),6 interventi che De Martino volle raccolti alla fine del volume, a partire dalla seconda edizione del 1958. La necessità di una testimonianza in presa diretta del fenomeno magico è nel Mondo magico sottolineata indirettamente dall’autore:

La documentazione etnologica in proposito è del tutto occasionale, priva della necessaria garanzia, incerta, lacunosa, alcune volte contraddittoria, e tale da non consentire il distinguere, nelle pretese magiche, le parti dovute alle illusioni e alle allucinazioni, quelle dovute ai possibili trucchi degli stregoni, le semplici coincidenze che generano l’apparenza del miracoloso, le spiegazioni normali dell’apparentemente paranormale, e infine l’eventuale residuo effettivamente paranormale.7

Del 1949 è il saggio Intorno a una storia culturale del mondo subalterno, dove De Martino anela all’interpretazione della situazione teogonica (o magica, o mitica, o magico-religiosa)8 che sarebbe stata di un mondo popolare, tutto impegnato in una ideologia dell’al di là, in cui illusoriamente compie il riscatto della propria condizione subalterna.9 Questo saggio costituisce, oltre a una ricapitolazione degli intenti poi realizzatisi nelle varie spedizioni in Lucania, anche un importante collegamento con Carlo Levi e il suo Cristo si è fermato a Eboli, in cui l’intellettuale antifascista torinese traccia una specie di itinerario “magico”, sia nei contenuti che da un punto di vista squisitamente logistico, che ispirerà De Martino nelle sue ricerche sul campo.
La scoperta della Lucania da parte di De Martino risale a un periodo compreso tra il 1949 e il 1951, quando fu ospite a Tricarico di Rocco Scotellaro, cicerone d’eccezione che lo guida alla conoscenza della dura vita del contadino meridionale, prigioniero dalle sue condizioni economiche proibitive e ricchezza culturale. Da queste ricerche nasce un’inchiesta (inedita) sulla miseria bracciantile, condotta tramite la raccolta di documenti autobiografici per conto della CGL di Matera, Inchiesta sulla miseria del salariato agricolo. Inoltre, sono testimonianza di questo primo approccio alla Lucania le Note lucane (1950)
10 e il saggio Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni (1953)11, pubblicati su Società.
Nel 1952 De Martino affronta la ricerca in modo diverso e più articolato, imperniata sulla verifica di quanto teorizzato negli scritti precedenti, attraverso la ricerca sul campo, con la consapevolezza che solo nel sud Italia si possono ritrovare manifestazioni di folclore religioso-contadino.
Nell’intreccio tra antropologia culturale e neorealismo che questa tesi cerca di evidenziare, emblematico è che la spedizione di De Martino arriva dopo una sorta di invito di Cesare Zavattini a un maggior coinvolgimento sociale degli intellettuali circa i problemi della società italiana. Ciò avvenne con la pubblicazione su Il Rinnovamento d’Italia nel 1952
12 di una conferenza di Zavattini tenuta all’Istituto Gramsci cinque anni prima, che proponeva l’apertura di un “bollettino” di denuncia della miseria, evento che suscitò, nell’estate precedente alla partenza dell’équipe per la Lucania, un dibattito sullo stesso Rinnovamento d’Italia stesso e Paese Sera. De Martino rispose all’iniziativa di Zavattini sullo stesso periodico con illuminanti parole sulle motivazioni della “ricerca sul campo”:

È da qualche tempo che sto organizzando in Lucania spedizioni scientifiche per lo studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale […]. Abbiamo il nostro programma, i nostri itinerari, i nostri questionari. Incideremo i canti popolari e sorprenderemo nell’obiettivo fotografico ambienti, situazioni e persone […]. E di ritorno in città comunicheremo a tutti ciò che abbiamo visto e ascoltato: in una serie di conferenze sceneggiate, di articoli per quotidiani e periodici, in opuscoli a carattere divulgativo e in un’opera a carattere scientifico renderemo pubblico questo dimenticato regno degli stracci, faremo conoscere a tutti le storie che si consumano senza orizzonte di memoria storica nel segreto dei focolari domestici […]. Io penso che intorno a queste spedizioni organizzate dovrebbero raccogliersi gli intellettuali italiani, a qualunque categoria, essi appartengono, narratori, pittori, soggettisti, registi, folcloristi, storici, medici, maestri ecc. Il nuovo realismo, il nuovo umanesimo, manca, per quel che mi sembra, di questa esperienza in profondità, e spedizioni di questo genere costituiscono un’occasione unica per formarsela, e per colmare quella distanza tra popolo e intellettuali che Gramsci segnalava come uno dei caratteri salienti della nostra cultura nazionale.13

Preceduta da una pre-inchiesta nell’estate del 1952, per organizzare itinerari e preparare questionari, nell’ottobre 1952 parte la ricerca, con un’équipe che comprendeva, oltre a De Martino, il musicologo Diego Carpitella, Vittoria de Palma e Mario Venturioli come intervistatori, e Franco Pinna come fotografo. Secondo Clara Gallini, attuale presidente della Fondazione De Martino a Roma, e tra i maggiori studiosi dell’intellettuale sardo:

La spedizione del 1952 è importante sotto vari rispetti. È la prima che si sia condotta in Italia con un’équipe. Si propone di raccogliere e registrare canti popolari di condurre un’inchiesta sulle pratiche magiche connesse al “ciclo della vita”, da documentarsi anche con film e fotografie. Si segnala per l’ampiezza dell’area investigata e la quantità di materiale raccolto. Quanto ai suoi sbocchi successivi nell’opera di de Martino, la spedizione avrebbe fornito non solo gran parte della documentazione su cui poi sarebbero fondati i vari capitoli di Sud e magia, ma anche i primi materiali e i primi stimoli per lo studio del lamento funebre lucano.14

Pur incontrando un certo ostracismo nelle popolazioni, dal 1953 al 1956 seguono altri viaggi “di scoperta” - alcuni per conto della RAI per raccogliere e registrare canti popolari insieme a Diego Carpitella - tesi a continuare la precedente inchiesta sulla magia e all’approfondimento della ricerca sul lamento funebre. Del 1957 è la ricerca sui guaritori, finanziata dalla Parapsychological Foundation, con la quale si chiude la fase di raccolta e di studio di una mole di materiale cospicua, solo in parte utilizzata nei due libri Morte e pianto rituale nel mondo antico e Sud e Magia. Del 1959 è invece una ricerca in équipe a S. Cataldo, sull’osservanza della pratica religiosa, sospesa per l’ostilità del clero locale.
La produzione di documentari etnografici in Italia risente di tutti i limiti che la ricerca in generale ha avuto da noi, con in più l’aggravante di sfavorevoli condizioni economico-strutturali. Pur entro questi condizionamenti negativi, seguendo le fasi del suo sviluppo, tranne rare eccezioni la tematica del folclore magico-religioso del Sud è il tema dominante. È questa una specificità che non fa altro che riflettere una scelta di campo prevalente per un buon ventennio nella nostra ricerca sul campo. Il riferimento a Ernesto De Martino è immediato: l’inizio della documentaristica etnografica e di conoscenza scientifica deve molto a lui sia per l’intervento diretto, sia per l’ispirazione generica che i suoi rivoluzionari scritti riuscivano a trasmettere.

Si deve a De Martino l’indicazione dell’opportunità di una stretta collaborazione tra ricerca scientifica e impiego del mezzo filmico a suo sostegno, esigenza già sentita e realizzata da tempo in vari istituti di diverse nazioni d’Europa e degli Stati Uniti. È noto peraltro come in quegli anni nel Mezzogiorno oltre a De Martino ci fossero altre inchieste di antropologi stranieri, nordamericani soprattutto, discendenti alcuni di vecchi emigrati italiani, ma anche francesi e di altre nazionalità. Rispetto a queste inchieste De Martino si trovo spesso in polemica: valga come esempio il punto 5 del programma di lavoro citato nella lettera a Luigi Einaudi (28 maggio 1952): la polemica con la etnologia applicata americana e con i risultati della missione Friedmann al Sasso di Matera.

Non va dimenticato inoltre che il primo documentario etnografico demartiniano, Lamento funebre di Michele Gandin (1953), già autore di un documentario sulla Lucania di Levi dal significativo titolo Cristo non si è fermato a Eboli (1952), doveva essere nel progetto di De Martino, che contribuì con la sua consulenza scientifica, la prima voce di un“enciclopedia cinematografica” che non sarebbe mai stata realizzata per miopia istituzionale. Passeranno cinque lunghi anni perché venga realizzato il primo di una lunga serie di documentari etnografici, quel Magia lucana (1958) del prolifico Luigi Di Gianni, al suo esordio in quello che sarebbe diventato il campo specifico della sua attività, realizzato con gli illuminati patrocini del neonato Centro Etnografico e Sociologico e del Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma. La specificità culturale del Mezzogiorno scoperta da De Martino è un argomento che raccoglie l’interesse del documentarismo etnografico.
Altra osservazione da fare è che nel Mezzogiorno più facile fu l’innesto del nuovo pensiero antropologico con la ricerca folclorica delle grandi scuole “meridionalistiche” che andava avanti sin dalla fine del diciannovesimo secolo. Inoltre, il pensiero antropologico trovò in quegli anni una significativa mediazione nello spazio aperto da un originale produzione saggistica, tra inchiesta e memoriale, che ebbe protagonisti soprattutto il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli ambientato in Lucania, oltre a quello de Le parole sono pietre in Sicilia e Tutto il miele è finito in Sardegna, Rocco Scotellaro, caro amico di De Martino e di Levi, che nell’Uva puttanella racconta la lettura di Cristo si è fermato a Eboli ai diciotto compagni di cella nel carcere di Matera, e Danilo Dolci. Su Dolci, importante figura di intellettuale meridionale, esiste un documentario di ambientazione siciliana dal titolo La terra dell’uomo (1963/1988) del demartiniano Gianfranco Mingozzi, che racconta anche come un film sulla figura di Dolci, La violenza, da un’idea di Cesare Zavattini, fu prima iniziato poi sospeso dal produttore Dino De Laurentiis per ragioni censorie.
La produzione dei documentari etnografici demartiniani si concentra tra la fine degli anni Cinquanta e il primissimo inizio degli anni Settanta, e può essere suddivisa in due periodi: il primo caratterizzato dalla presenza di De Martino (che morì nel 1965), con una prevalenza di argomenti circoscritti entro il suo campo di interessi (lamento funebre, rituali magici, tarantismo), che idealmente si apre e chiude con due lavori di Luigi Di Gianni: Magia lucana (1958) e La Madonna del Pollino (1971), anche se Gianfranco Mingozzi tornerà ai temi più propriamente demartiniani nel 1978 col documentario Sud e magia. Il secondo è incentrato sulle grandi feste religiose del Sud, e ricorre alle volte anche alla consulenza di altri studiosi. Secondo Diego Carpitella, al fianco di De Martino in numerose occasioni di ricerca sul campo, autore anche lui di alcuni documentari sul tarantismo (Meloterapia del tarantismo, 1959) e sullo studio antropologico della gestualità (cito, tra gli altri, Cinesica 1: Napoli, 1973 e Cinesica 2: Barbagia, 1975), il documentario demartiniano tratta:

[…] Santuari, pellegrinaggi, feste religiose, cerimonie calendariali, riti magico-religiosi, feste patronali ecc. In genere fenomeni tutti di una tradizionale economia agro-pastorale, argomenti che per la maggior parte danno il destro al “pittoresco” e al “curioso” che vistosamente si prestano a essere “spettacolo”. In questa produzione etnografica 1959-80 sono quasi del tutto assenti i filmati relativi all’insediamento, alla cultura materiale, alle tecniche di lavoro, ai comportamenti sociali, all’alimentazione. Fatti questi poco spettacolari.15

I documentaristi demartiniani più importanti sono Luigi Di Gianni, Gianfranco Mingozzi, Giuseppe Ferrara, Vittorio De Seta, Lino Del Frà e Cecilia Mangini.

Gianfranco Mingozzi ha prodotto un discreto numero di documentari demartiniani o dedicati al Sud Italia, ma è ricordato nel quadro dei documentaristi ispirati da De Martino soprattutto per La taranta (1961), sul fenomeno del tarantismo, realizzato con la consulenza diretta di De Martino (che l’anno seguente avrebbe pubblicato La terra del rimorso, interamente dedicato al fenomeno). Le musiche furono raccolte da Diego Carpitella, che aveva già realizzato negli stessi luoghi un analogo documentario, Meloterapia del tarantismo (1959), realizzato nel corso dell’indagine sul tarantismo condotta da Ernesto De Martino. La taranta ebbe il commento del poeta Salvatore Quasimodo:

La taranta è il ragno mitico, in sé innocuo, che morde simbolicamente e dà col suo veleno turbamenti fisici e dell’anima: il tarantismo, il male del cattivo passato che torna, ebbe origine nell’Italia del Sud dalla contaminazione di riti orgiastici e iniziatici pagani tra l’800 e il 1300. I tarantati dicono di sentire la noia all’inizio del male, male che viene curato con le cadenze di una musica fortemente ritmata e continua, con la danza della piccola taranta, la tarantella accompagnata da strumenti musicali di cura: violino, fisarmonica, tamburello. Così, attraverso il simbolismo della musica e della danza il passato di dolore, le sconfitte dell’anima, i traumi delle tarantate vengono evocati, fatti traboccare e risolti in un equilibrio che durerà fino al nuovo tempo del rimorso, alla stagione del nuovo raccolto.16

Nel documentario di Mingozzi, girato a Nardò e Galatina, si vedono un esempio di terapia melocoreutica domiciliare di una tarantolata e rituali collettivi nella cappella dei SS. Pietro e Paolo in occasione della loro festa il 29 giugno. Il lavoro di Mingozzi non si limita a La taranta: basti ricordare Li mali mestieri (1963), ambientato a Palermo, con i versi di Ignazio Buttitta, o la realtà sottosviluppata del pluripremiato Col cuore fermo, Sicilia (1965), col testo di Leonardo Sciascia,17 o Sud e magia (1978)18, inchiesta in quattro puntate per la televisione, che ripercorrono le tappe della ricerca di De Martino venticinque anni dopo, verso la quale fu critico Vittorio Lanternari,19 o l’analogo Sulla terra del rimorso (1982), sul tarantismo, o l’interessante La terra dell’uomo (1963/1988), tre inchieste sulla Sicilia di ieri e di oggi: nella prima (Come muore un film) la storia del film su Danilo Dolci da un’idea di Cesare Zavattini, La violenza, prodotto e interrotto; nella seconda (Sicilia dei mutamenti) la figura di Danilo Dolci negli anni Sessanta e negli anni Ottanta; nella terza (I sentimenti e la violenza) la realtà della Sicilia di oggi – crimini, miseria, mafia – messa a confronto con quella di venti anni fa.
A parte l’episodio di Lamento funebre (1953) di Michele Gandin, il primo di una lunga serie di documentari ispirati a Ernesto De Martino si deve a Luigi Di Gianni, il più prolifico tra i documentaristi demartiniani, spesso in collaborazione con Annabella Rossi.
20 Il titolo è Magia lucana (1958), che ripercorre alcuni temi di Sud e magia e Morte e pianto rituale, e ne ripropone altri nuovi. Nel documentario, realizzato con la consulenza scientifica di De Martino e con le musiche raccolte da Diego Carpitella, ci sono ricostruzioni di riti magici nella vita quotidiana dei contadini lucani: prediche contro il temporale, fatture “d’amore”, la “legatura”, il “battesimo delle sette fate”, l’invocazione al sole affinché aiuti il contadino nel suo duro lavoro e lo difenda dalla precarietà esistenziale. Il secondo documentario di Di Gianni è Nascita e morte nel meridione (1959), con testo di Romano Calisi, sulla nascita che avviene in silenzio, senza gioie né emozioni, esistenza e morte di un uomo. Di Gianni realizza successivamente a Napoli Grazia e numeri (1962), sul culto delle anime dei morti nelle catacombe, il lotto, i sogni, I Fujenti (1966), che mostra nei diversi quartieri della città le squadre di devoti che hanno preparato i “toselli” (costruzioni votive) e si accingono, muovendosi secondo passi precisi, a trasportarli al santuario della Madonna dell’Arco, e Morte e grazia (1971), sul culto del Volto Santo; in Basilicata La Madonna di Pierno (1965), sul pellegrinaggio al santuario, la processione nel bosco con offerte di fronde alla Madonna e altri atti devozionali, a Montesano; in provincia di Salerno Il male di San Donato (1965), sulle manifestazioni dell’epilessia (male di S. Donato) nella chiesa durante la festa del 6 e 7 agosto; a S. Michele Garganico Il messia (1965) sulle forme di religiosità della comunità degli ebrei di San Nicandro; in varie zone del Potentino e del Volture Viaggio in Lucania (1965), documentario-inchiesta sulla miseria e la magia; a Raiano, in Abruzzo, Il culto delle pietre (1967), durante la festa di S. Venanzio al suo santuario, il 17 marzo, con i fedeli che hanno un mistico rapporto con le pietre; a Serra D’Arce, provincia di Salerno, Nascita di un culto (1968), sul culto di nuova formazione del Beato Alberto e le forme di devozione popolare, e La possessione (1971), sulla trance di Giuseppina Gonnella, leader del culto, e i suoi rapporti con i fedeli; in Irpinia La potenza degli spiriti (1968), sulle forme di possessione diabolica e gli esorcismi nell’ambito del cattolicesimo popolare e del pentecostalismo; al quartiere Forcella di Napoli L’attaccatura (1971), su una maga che opera fatture e controfatture; al santuario della Madonna del Pollino, tra Lucania e Calabria, La Madonna del Pollino (1971). In questo documentario, considerato come termine estremo della documentaristica demartiniana, è evidente la chiave di lettura di Di Gianni, che finisce anche per relegare le eventuali ragioni dell’etnologo a un ruolo più subalterno di quanto non avvenisse in passato. La Madonna del Pollino mostra gli accampamenti notturni, il banchetto di pecore, i comportamenti in chiesa (colloquio mistico con la Madonna, offerta di capelli e di abiti da sposa, ballo della tarantella, benedizione degli animali), asta del diritto di portare la statua della Madonna.
Giuseppe Ferrara
realizza due documentari con la consulenza scientifica di De Martino, I maciari (1962) e Il ballo delle vedove (1962).
I maciari
, girato a Castelmezzano in Lucania, Policastro Bussentino in Campania e Bovalino in Calabria, parla del “maciaro” zio Giuseppe, il mago bambino posseduto dallo spirito della madre (la santa di Betilia), che profetizza e compie riti di guarigione; inoltre vengono mostrati il culto del serpente e gli esorcismi esercitati da una “sanpaolara”.
Il ballo delle vedove
, realizzato nella valle del Tirso e in Sardegna, alta Barbagia, località Lula, consta di due ricostruzioni del rituale melocoreutico per la cura dell’argia (tarantismo sardo), caratterizzato dal “ballo tondo”. Nel primo esempio, proveniente dalla valle del Tirso nota a chi abbia letto Cristo si è fermato a Eboli, il rito è eseguito all’interno di una casa, da nove donne che danzano e cantano in circolo attorno a un bambino. Il malato viene bendato e quindi avvicinato al fuoco; al termine del rito viene avvolto nello scialle di una delle nove “vedove”. Nel secondo esempio dell’alta Barbagia l’esecuzione è affidata a ventuno donne: sette nubili, sette spose e sette vedove. Con la presenza dei tre stati civili si tenterà di scoprire quello dell’argia che ha morso l’uomo. Il malato giunge su un carro trainato da buoi e viene deposto su un prato, le donne si avvicinano e iniziano a danzare in cerchio; alcune coppie di danzatrici saltano sull’uomo; il riso finale del malato ne annuncia la guarigione. Si devono anche a Ferrara La Madonna di Gela (1963), su una processione della Madonna che si celebra l’8 maggio, e La cena di San Giuseppe, realizzato sempre a Gela, che ha come argomento il pranzo offerto in diversi quartieri alle famiglie più povere durante la settimana santa e ritualizzato come la ripetizione della fuga in Egitto, presenti un vecchio, una bambina e un bambino che simboleggiano San Giuseppe, la Madonna e Gesù Bambino.
Del Frà e la Mangini, coniugi nella vita, lavorarono insieme ai loro documentari. Di Lino Del Frà sono due documentari, La passione del grano (1960), con testo di Ernesto De Martino, e L’inceppata (1960). Di Cecilia Mangini è invece Stendalì (1959).

La passione del grano
, girato a S. Giorgio Lucano, in provincia di Matera, è una ricostruzione dell’antico rito della mietitura, residuo della civiltà mediterranea. Questo rituale aveva già interessato De Martino, che scrisse il testo del documentario insieme a Del Frà. Così scrive De Martino sul rituale:

La cerimonia della mietitura che abbiamo avuto occasione di vedere a San Giorgio Lucano appartengono a un tipo ben noto agli studiosi di storia della religione: nell’opera del Mannhardt, del Frazer e, più recentemente, del Liungmon, se ne può trovare il repertorio nel folklore europeo e della fascia mediterranea dell’Africa e dell’Asia. In genere, queste cerimonie sono ormai scomparse, poiché, tra l’altro, sono possibili in un quadro di rapporti sociali feudali e semifeudali, e di un’agricoltura cerealicola arretrata, che non conosce macchine e non va al di là dell’aratro, della falce e della trebbiatura a mano o animale.21

I mietitori, con le falci, inseguono e circondano l’uomo-capro, lo uccidono e lo depongono sulla paglia, si recano poi dalla sposa del grano (mietitrice con covone), mimano la sua svestizione e la baciano, mentre le donne portano vino; infine gli stessi uomini vanno dal padrone, lo deridono e lo svestono con la punta delle falci. L’inceppata, girato in un villaggio della Lucania, ha per argomento il rito d’amore per cui il giovane abbatte un albero e ne depone il ceppo davanti alla porta dell’innamorata. Del Frà lo raccolse autonomamente, e poi ne discusse con De Martino in sede di doppiaggio e stesura del testo. Stendalì, realizzato a Martano, in provincia di Lecce, è una lamentazione funebre; il testo è una traduzione ottocentesca in lingua greca del Salento rielaborata da Pier Paolo Pasolini, con la voce di Lilla Brignone.
Il nome di Vittorio De Seta rispetto a un cinema “etnografico” e documento di antropologia culturale rimane legato, oltre che a una serie di interessanti documentari, al film Banditi a Orgosolo (1961) che si può definire tra i pochissimi film demartiniani, nato da un lungo pedinamento dei problemi sardi, le cui tappe intermedie erano state i documentari Pastori di Orgosolo (1958) e Un giorno in Barbagia (1958). La citazione che segue basterebbe a esprimere tutto il significato e, in un certo senso, la disperazione legati al suo lavoro di documentarista etnoantropologico:

La pesca del pesce spada andava avanti così da duemila anni, quando io l’ho girata. Ci sono vasi fenici che la illustrano, e le immagini sono le stesse del ’54. Chi poteva pensare a cosa sarebbe successo dopo in Italia, con gli anni Sessanta? Chi poteva pensare, nel ’54, che pochi anni dopo, di colpo, questo tipo di pesca sarebbe finito? Tutto quello che ho documentato allora è finito. Le miniere di zolfo? Finite. La pesca del tonno? Finita. La mietitura del grano? Finita. I riti della Pasqua? Finiti…22

Molti documentari di De Seta, nativo di Palermo, raccontano la Sicilia. Il primo, realizzato con Vito Pandolfi (il futuro autore de Gli ultimi, 1962, altro film di ambientazione rurale) è Pasqua in Sicilia (1954), che filma le processioni pasquali da Messina a Caltanissetta. Vinni lu tempo de li pisci spata, insieme a Contadini del mare (1955) e Pescherecci (1957), sono una trilogia sul mondo dei pescatori, con echi verghiani (I Malavoglia) e viscontiani (La terra trema). Isole di fuoco (1954), filma l’eruzione dello Stromboli nel 1954. In Surfatara (1955) la didascalia iniziale l’immane e nobile dramma del lavoro umano, rimanda all’ipotizzata trilogia viscontiana e ai pescatori e contadini filmati da De Seta.

Per quanto riguarda Banditi a Orgosolo,23 De Seta lo realizzò ispirato – come per i documentari “di preparazione” Pastori a Orgosolo e Un giorno in Barbagia - dal saggio di Cagnetta sul banditismo orgolese. Bisogna sottolineare che il film arriva in un momento particolare della storia del cinema italiano, la stagione 1961-1962: in questo periodo, infatti, oltre al film di De Seta, che rivela le origini sociali del banditismo orgolese, altri due hanno come protagonisti contadini o pastori, Il brigante di Renato Castellari e Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, che soprattutto si realizzano dopo un accuratissimo studio d’ambiente24, quasi applicando alla lettera l’insegnamento e l’esempio di Ernesto De Martino, tanto che Tullio Kezich si sbilancia nell’affermare che in questa specie di trilogia si raggiunge la consapevolezza antropologica.25

 

 

1 Per un compendio delle ricerche sul campo di De Martino in Lucania vedi Clara Gallini, La ricerca sul campo in Lucania – Materiali dell’archivio De Martino, in La ricerca folklorica, n. 13, 1983, pp.105–108. Il saggio comprende anche un’esauriente bibliografia sul periodo.
2
Ernesto De Martino, Sud e magia, Milano, Feltrinelli 1961.
3
Benedetto Croce, Il mondo magico, in Quaderni della critica, n. 10, 1948, pp. 79 e sgg.; Intorno al magismo come età storica, in Filosofia e storiografia, 1949, pp. 193–208.
4
Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, pp.123–33.
5
Raffaele Pettazzoni, Il mondo magico, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni, vol. XXI, 1947.
6
Mircea Eliade, Scienza, idealismo e fenomeni paranormali, in Critique, n. 23, 1938, pp. 315 e sgg.
7
Ernesto De Martino, Il mondo magico – Prolegomeni a una storia del magismo, Torino, Boringhieri 1948.
8
Ernesto De Martino, Intorno a una storia culturale del mondo popolare subalterno, Società, n. 3, 1949, pp. 411–435, poi in R. Brienza (a cura di), Ernesto De Martino, Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata 1975, e in Angelini P. (introduzione e cura), Dibattito sulla cultura delle classi subalterne, Roma, Savelli 1977.
9
Ernesto De Martino, ibid., p. 433.
10
Ernesto De Martino, Note lucane, Società, n. 6, pp. 650–667, poi in Ernesto De Martino, Furore, simbolo, valore, Milano, Il saggiatore 1962, pp. 107-121.
11
Ernesto De Martino, Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, Società, IX, n. 3, pp. 313–342.
12
Cesare Zavattini, Un invito di Zavattini agli scrittori italiani – Un documento culturale di eccezionale importanza concesso al Rinnovamento”, in Il Rinnovamento d’Italia, 4 agosto 1952.
13
Ernesto De Martino, Una spedizione etnologica studierà scientificamente la vita delle popolazioni contadine del Mezzogiorno – Importanti sviluppi della iniziativa Zavattini, Il Rinnovamento d’Italia, 1 settembre 1952.
14
Clara Gallini, La ricerca sul campo in Lucania, op. cit., p. 105.
15
Diego Carpitella, Pratica e teoria nel film etnografico: prime osservazioni, La ricerca folklorica, n. 3, aprile 1981, p. 10.
16
Ibid., p.39.
17
Un brano tratto dal commento al documentario di Sciascia: Mafia. In questo nome, impropriamente i più associano la violenza che nasce dagli interessi di persone che, segretamente associate, tendono a un illecito arricchimento e danno a questi interessi una legge che internamente, tra loro, non va trasgredita ed esternamente va rispettata, e la violenza che sorge dall’amor proprio, che è legge tribale a custodia della proprietà e dell’onore, della roba e della donna. Ma che queste due forme di violenza abbiano radici nello stesso sentimento, nella stessa concezione del mondo non c’è dubbio. Una concezione pessimistica, disperata: quale può avere un popolo per secoli sfruttato, angariato, offeso negli averi e nella dignità, un popolo che ha conosciuto i vizi dei dominatori e non le sue virtù. Leonardo Sciascia, riportato in Paolo Micalizzi (a cura di), Terre della memoria – L’Emilia nel cinema di Gianfranco Mingozzi, Comune di Molinella 1997.
18
Si veda C. Barbati, G. Mingozzi, A. Rossi, Profondo sud, Milano, Feltrinelli 1978.
19
Cfr. Vittorio Lanternari, Religione popolare e TV, Lares, XLVI, n. 2, aprile-giugno 1980, Firenze, Leo S. Olschki, p. 88.
20
L’antropologa Annabella Rossi collabora con Luigi Di Gianni per La Madonna di Pierno (1965), Il male di San Donato (1965), Il culto delle pietre (1967), Nascita di un culto (1968), La possessione (1971), La Madonna del Pollino (1971). Cfr. Annabella Rossi, In viaggio con Ernesto De Martino, in Cesare Landricina (a cura di), Gianfranco Mingozzi – I documentari, Roma, Land Film 1989.
21
Ernesto de Martino, Il gioco della falce – Ogni anno la passione del grano, in Espresso mese, I, n. 4, agosto 1960, pp. 56-57.
22
Vittorio De Seta, riportato in Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa…, cit., didascalia iniziale.
23
Racconta Vittorio De Seta: La troupe di Banditi a Orgosolo era fatta di tre persone: io, mia moglie Vera Gherarducci e Luciano Tovoli, più mia figlia, che ci seguiva. Mi ha battuto solo Flaherty, che girava solo con la moglie, però lui girava muto! (…) Nel ’60 ho comprato delle macchine nuove, e siamo andati a Orgosolo, senza avere idee precise, il film è venuto fuori così, quasi da sé. Le idee le avevo, ma erano molto generiche. È stata la gente del posto a guidarci. Cosa fa un pastore se viene sospettato di furto?’. Fugge con le pecore’, ci avevano detto, e poco tempo dopo, quando già lavoravamo, successe veramente un fatto così. Il pastore che avevamo preso come protagonista, Michele Cossu, aveva vissuto molte delle situazioni che doveva vivere nel film. Però quest’identificazione era mediata, non era un film di cinema-verità, c’erano delle battute scritte, loro recitavano. Riportato in L’avventurosa…, cit. p. 85.
24
Clara Gallini, Il documentario…, cit. p. 29.
25
Riportato in Clara Gallini, Il documentario…, cit. p. 29



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