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Filosofia
Pluridisciplinare
Tu che mi guardi, tu che mi racconti; Filosofia della narrazione - Incontro con Adriana Cavarero

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

Questioni di Filosofia (22/2/1998)

Adriana Cavarero

L'identità

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STEFANO CATUCCI: - Buonasera. Abbiamo qui in studio Adriana Cavarero, che insegna all’Università Statale di Verona e con la quale parleremo del problema dell' identità.

Ora ascolteremo la sigla. La voce di Maria Callas, che possiamo lasciare andare sullo sfondo, sembra quasi un introduzione alla conversazione di questa sera con Adriana Cavarero, all’insegna del "c’era una volta...". Dico questo perché credo che con Adriana Cavarero, autrice tra l’altro di un libro che è intitolato Tu che mi guardi, tu che mi racconti; Filosofia della narrazione uscito l’anno scorso per Feltrinelli, quando si discuta di identità, si vada subito a parlare di qualcosa che ha a che fare con la dimensione del racconto, con la narrazione, con la nozione di narratività. Intanto Le diamo il nostro buonasera, e benvenuta a questa puntata di "Questioni di filosofia". Perché la questione dell’identità lei la lega alla questione della narrazione? Che cosa c’entra il racconto con il gioco della nostra identità individuale, personale, di soggetti?

ADRIANA CAVARERO: - Potrei citare Karen Blixen (la scrittrice danese che pubblicò quasi tutte le sue opere con lo pseudonimo di Isaac Dynesen) che in un bellissimo racconto intitolato Il secondo racconto del cardinale affronta il problema del rapporto tra narratività ed identità, descrvendo la seguente situazione: c’è una signora che chiede al cardinale: "Ma tu chi sei?", e a questa domanda "chi sei?" il cardinale risponde: "Risponderò con una regola classica: racconterò una storia". Questo tipo di domande richiedono l’identificazione di una persona, l’individuazione di essa colta in tutta la sua irripetibilità, ossia nella irripetibile esistenza che ciascuno di noi ha, e c'è una sola domanda capace di far riemergere questa esistenza in tutta la sua irripetibilità: "Chi sei?" Perché se io chiedo: "cosa sei?" ebbene, allora posso rispondere accennando a una mia qualità, al mestiere che svolgo, a una mia appartenenza culturale, alla mia natura biologica, la mia specie di appartenenza... ma il "chi sei?" ha una sola risposta intesa come risposta verbale che può rendere il suo contenuto dotato di senso. Risposta che si dà nel discorso e che è appunto la narrazione, il raccontare una storia. In questo caso è ovviamente la storia di una vita.

CATUCCI: - Ecco, questa risposta, in effetti, ci porta verso una strada forse poco battuta, perché quando si chiede "chi sei?" a un individuo si potrebbe pensare che dall’altra parte ci sia appunto un "Io", se restiamo all'interno della prospettiva in prima persona, un "Sé", se ascoltiamo la prospettiva in terza persona, ossia la prospettiva di uno sguardo esterno. E quindi un'unità psicologica, un’identità (magari astratta), un corpo che è cresciuto dall’età infantile fino a quella adulta. Questo è il motivo per il quale la "storia personale" da questo punto di vista, agli occhi di chi si racconta, introduce qualche cosa di nuovo rispetto a tutti questi concetti che ho elencato?

CAVARERO: - Dire che l’identità sia una sostanza (questo era quello cui lei accennava), significa presupporre che esista un’identità sostanziale fin dall’inizio, e che poi, durante la vita di ciascun individuo, essa si sviluppi. Invece la mia posizione, che poi è la posizione tramandataci da Hannah Arendt, non focalizza tanto il problema dell’identità considerandola come una sostanza, ma pone altresì attenzione sul problema dell’identità impostato a partire dal fatto che ciascuno e ciascuna di noi, vivendo e agendo, come dice Hannah Arendt, mostri concretamente chi è, lasciandosi dietro una storia di vita. La differenza sostanziale tra queste due impostazioni che ho appena elencato, direi che stia proprio questa: intendere l’identità come sostanza significa legare l’identità a una sorta di a priori trascendentale, mentre l’identità che corrisponde a una "storia di vita" è, letteralmente, ciò che ci si lascia dietro. Insomma ciò che non si controlla, tutto quello che, in un certo senso, non si progetta e che si lascia dietro in quanto storia di vita, e che può avere un’espressione verbale soltanto nel racconto di questa storia di vita. Nella mia particolare posizione su queste tematiche io, ovviamente, condivido in pieno il lascito teoretico di Hannah Arendt, per il quale questa storia di vita non si dà mai nella forma dell'autobiografia, ossia nella sua forma narcisistica (nella quale io posso dire chi sono solo raccontando la mia storia), ma si dà nella forma della biografia, nella quale è qualcun altro a raccontare la mia storia. E questo significa che l’identità così intesa non solo non è sostanziale ma non è neanche isolata, monolitica, solitaria, solipsistica. E' un’identità che possiamo definire relazionale, che si dà solo nella "relazione con l’altro/con l’altra". Lei citava prima questo titolo curioso del mio ultimo libro che è appunto Tu che mi guardi, tu che mi racconti e questo titolo curioso tenta proprio di alludere a questi due principi fondamentali per il processo di identificazione che è l’altro che guarda, o è l’altro che racconta: colui o colei, che può esplicitare la mia identità, può offrirmi, donarmi la mia identità nella forma di una storia di vita raccontata da lui o da lei. Insomma: il titolo avrebbe potuto anche essere Raccontami la mia storia, che è una sorta di paradosso, se volete. Certamente, se si pensa ad alcune scene come, per esempio, quelle desumibili di un’amicizia, o tante scene d'amore non è poi così un grande paradosso.

CATUCCI: - Adriana Cavarero, lei ha citato prima Anna Harentd tra gli autori che hanno ispirato questa sua riflessione. Io però vorrei proporle, traendola dall’archivio delle interviste registrate dall’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, un contributo di Paul Ricoeur che affronta proprio questo tema. Ricoeur è un altro filosofo che ha riflettuto molto sulla questione dell’identità in rapporto alla narrazione. Sentiamo un sunto di cosa ha da dire Ricoeur su questo tema dopodiché lo commenteremo insieme.

Contributo di Paul Ricoeur: - Sostiene Ricoeur che la questione dell’identità assuma una forma problematica perché noi disponiamo di due modelli di identità.

Nel suo lavoro Ricoeur ha tentato di fissare due sensi di identità parlando da una parte di identità/idem (medesimezza) per usare una terminologia latina, e l’altra di identità/ipse (ipseità). Ciò che maggiormente interessa a Ricoeur è l’identità/ipse.

Ma che cosa ci intende con identità/idem? È l’identità di qualcosa che resta, mentre le apparenze o, come si suol dire, gli accidenti cambiano, ed è il modello filosofico che fin dall’antichità è stato chiamato dell'identità sostanziale. L’identità/ipse della quale, invece, ora parla Ricoeur, non implica immutabilità, staticità, ma, al contrario, si può arrivare all’esempio estremo in cui questo tipo d’identità si viene a porsi nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri del soggetto. L’esempio più notevole di questa identità/ipse (l’identità di me stesso, in quanto unico), è quello del mantenimento di una promessa.

La promessa è un esempio notevole perché non abbiamo a che fare solo con un soggetto che promette come se fosse una identità sostanziale. Al contrario: io mantengo la mia promessa nonostante tutto quello che mi succeda, e che succede nel mondo circostante, a partire dal momento in cui la pronuncio, e nonostante tutti i miei cambiamenti d’umore. E questa è un’identità che, secondo Ricoeur, si può chiamare di mantenimento più che di sussistenza: Io sono e mi conservo come lo stesso Io, nonostante non sia più identico, nonostante io sia cambiato - nel - tempo.

Dunque esistono due rapporti di continuità del soggetto con il tempo. Uno è un rapporto in qualche modo di immutabilità, all'interno della sostanza. L’altro è invece quello che Ricoeur definisce di identità narrativa, volendo dire con ciò che l’identità di un soggetto capace di mantenere una promessa è strutturata come l’identità del personaggio di una storia, di una narrazione.

CATUCCI: - Ecco; Adriana Cavarero, a quello che diceva Paul Ricoeur, attraverso questo esempio della "promessa", lei vorrebbe aggiungere qualcosa?

CAVARERO: - Sì. La distinzione di Ricoeur è chiarissima e ha appunto questo grande merito di distinguere l’idem ossia ciò che rimane sempre identico a sé stesso (la sostanza) dall’ipse che è invece il mutabile capace di mantenersi nella propria mutabilità.

Vorrei fare due osservazioni: alla mutabilità di ciò che si mantiene io aggiungerei la insostituibilità. Con questo termine intendo dire riferirmi alla nozione per cui io sono chi sono e questo "mio essere chi sono" che poi molto più semplicemente si può dire la mia esistenza, il mio esser qui, il mio essere nato, il mio vivere e il mio dovere prima o poi morire, tutto questo fa di me un ente insostituibile. Io posso essere sostituita in moltissime delle mie funzioni. Posso essere sostituita, per esempio, come insegnante o potrei essere sostituita da qualcun altra questa sera per parlare qui, alla radio, questo è molto chiaro, ma è ciò che è insostituibile è questa mia unicità. E' il fatto che esisto e che nessun altro può vivere per me al posto mio né può nascere né morire per me. Ecco, direi che aggiungere al concetto di Ricoeur riguardo all’ipse non solo la "mutabilità nel mantenersi" ma anche la insostituibilità chiarisce meglio il concetto in questione e lo unifica in una sintesi di base con questa categoria della unicità che è tipicamente harendtiana, e che io trovo perfettamente in sintonia con l’ipse di Ricoeur.

Un’altra cosa molto interessante è ovviamente l’identità narrativa che Ricoeur giustamente definisce come il "personaggio di una storia". Ecco questo è molto chiarificante ma può essere anche molto equivocante. Molti studiosi o studiose che si occupano di questo problema dell’identità narrativa (che io preferisco chiamare identità narrabile), cadono, a volte, nella tentazione di dire che stante questa relazione di presa diretta tra la nostra indntità nel tempo e la nostra capacità di narrarci, o di essere narrati dagli altri, allora ciascuno di noi è come se vivesse, nella realtà, la propria storia di vita. E ciò è anche giusto. Ma alcuni filosofi, narratologi, e psicologi, arrivano a dire che ognuno di noi vive la propria storia di vita come in un romanzo nel senso letterale (e non più metaforico), dei termini in questione. Come se noi non solo leggessimo romanzi, conoscendo i vari caratteri, ma come se progettassimo la nostra esistenza come se la nostra vita fosse realmente un romanzo. Questo può anche essere vero per certi temperamenti romantici o adolescenziali; ma questo porta a delle conseguenze inaccettabili; in primo luogo una certa confusione, una sovrapposizione fra "esistenza reale" ed "esistenza testuale" e "testo". Io posso anche vivere la mia vita come un romanzo. Lo farei se avessi un temperamento romantico, ad esempio. Ma non l’ho possiedo, purtroppo, e tuttavia anche chi vivesse la propria vita, quindi la propria identità, il proprio ipse (usando il vocabolo di Ricoeur), come un romanzo, tuttavia saprebbe benissimo che la sua esistenza non è un romanzo. Ossia sarebbe sempre chiara la distinzione (che dipende dal buon senso) che è quella fra la vita reale e il personaggio del romanzo. Detto in maniera un po’ tecnica possiamo riferirci ad una scuola di pensiero, molto conosciuta anche in Italia, ma che è celebre soprattutto nei paesi di lingua inglese, che è la scuola (si potrebbe dire) della "centralità testuale" ossia quel filone di pensiero che ha sempre posto al centro del problema dell'identità narrativa il testo. E quindi il protagonista di un romanzo viene definito come l’effetto di una retorica del testo, ossia come l’effetto della narrazione. Questo può andar bene come strumento di analisi del testo, ma non va affatto bene come strumento di analisi delle vite reali. Io personalmente non mi sento l’effetto di una strategia retorica, né della mia immaginazione, né di nessun testo, perché preferisco sentirmi (sempre sulla scorta di Hannah Arendt), come un essere unico che vive la sua vita, magari progettandola e tuttavia non riuscendo assolutamente a controllarla. E lasciandosi, dunque, dietro di sé una storia di vita che è appunto qualcosa che, in effetti, io mi lascio dietro. Ossia qualcosa che io non vedo, qualcosa che trovo, qualcosa che, come dice Hannah Arendt finisce per risultare. Ecco: questo risultare non è un effetto di strategia retorica di un testo. Questo risultare dipende dal nostro "essere qui", dal nostro "essere fragili", dal nostro non poter controllare la nostra esistenza.

CATUCCI: - Dunque, Adriana Cavarero, se capisco bene questo vuol dire anche che l'identità narrativa o, per meglio dire, che l'unicità che lei prima sottolineava, non è, a sua volta, un effetto della identità narrabile di cui lei prima parlava. Bensì ne è il presupposto...

CAVARERO: - Esattamente. E anche questa distinzione tra il parlare di identità narrativa come fa Ricoeur, ed identità narrabile, non è soltanto un piccolo spostamento di desinenza. "Identità narrativa" sono due parole che possiedono già un riferimento al concetto di "testo" molto netto. L'identità narrabile è un'identità che, semplicemente, può essere narrata. Nella mia posizione personale essa è presentata come un’identità che chiede di essere narrata. E' come se io desiderassi che qualcuno mi raccontasse la mia storia, o, altrimenti, detto in maniera meno egoistica, come se io vivessi la mia vita avendo come desiderio che la mia vita non venga costituita da un susseguirsi, per così dire, casuale di eventi, ma che essa abbia in sé una sorta di trama narrativa e che quindi sia narrabile. Come lei sa le filosofie che pongono al centro della propria disamina dell'identità la sostanza ovvero le filosofie dell’idem, sono anche filosofie dell'unità. Seconde queste impostazioni filosofiche, sostanza e unità vanno assieme. Mentre l’ipse non va molto d'accordo con l’unità. L’unità è una specie di vocabolo di provenienza metafisica che non gode di buona fama nella filosofia contemporanea. Io sto cercando di fare in modo che goda di nuovo, almeno, di una certa attenzione. E per "unità" io non intendo una sostanza, qualcosa che è immediatamente dato, qualcosa che sia innegabile, bensì una sorta di oggetto del desiderio per il quale la mia vita dovrebbe avere un disegno, essendo leggibile con una sorta di figura.

Forse, per meglio spiegare quello che ho in mente, potrei raccontare una favola tramandataci da Karen Blixen che ho deciso di inserire all’inizio del mio libro, la cui trama può chiarire tutti questi concetti che sto dicendo in maniera, forse, confusa. Narra Karen Blixen che da bambina le raccontavano una storia che si svolgeva così: "C’era una volta un uomo che viveva presso uno stagno e una notte sentì un gran rumore, e sentendo questo rumore uscì di casa nel buio. Che cosa era successo? Lo stagno si era aperto rompendosi in un argine da cui uscivano acqua e pesci, e quest’uomo correndo nel buio e calpestando il terreno bagnato, (andava un po’ alla cieca nel buio della notte), passò parecchio tempo a riparare questa falla negli argini dello stagno andando appunto avanti e indietro. Poi, finalmente, fatto il suo lavoro se ne andò a dormire. L’indomani mattina, affacciandosi alla finestra, vide che i suoi passi sul terreno avevano disegnato la figura di una cicogna; a questo punto Karen Blixen si chiede: quando la mia vita sarà compiuta io vedrò in me stessa una cicogna o la vedranno altri riflessa in me? Ecco questa domanda di Karen Blixen sintetizza in sé quel desiderio di cui parlavo prima.

Naturalmente la cicogna, ossia il disegno unitario di ciò che l’uomo ha fatto quella notte, è ciò che risulta non essere stato progettato da quest’uomo nella sua opera di riparazione, perché egli non ha fatto altro che andare avanti e indietro alla cieca, nel buio, e così è, effettivamente, la vita: la vita non viene progettata di modo ché ogni nostro passo, ogni nostra scelta, ogni nostra azione faccia parte di un disegno unitario. E tuttavia questo desiderio che, appunto, la vita non sia un susseguirsi di avvenimenti casuali e di scelte casuali, che l’insieme degli accidenti e delle nostre scelte volontarie producano un disegno che assomiglia alla "cicogna" di Karen Blixen, credo che faccia parte dell’animo umano nella sua dinamicità. Perlomeno è un desiderio riconosciuto sia da Hannah Arendt che da Karen Blixen, che non per niente è stata una grande narratrice che ci ha regalato in ogni racconto questi accenni delle "possibili cicogne" presenti in ciascuno di noi.

CATUCCI: - Adriana Cavarero, mi pare che questo racconto di Karen Blixen, questo apologo, verrebbe quasi da dire, sia molto illustrativo. Intanto, mentre ricordo agli ascoltatori il numero di telefono, vorrei però spingerla ad un passo ulteriore. Vorrei che magari lei ci spiegasse, in poche parole se è possibile, quali sono i concetti, i valori, e le cose che sono in gioco in questa sua presa di posizione. In fondo che cosa comporta per un filosofo assumere questa posizione ossia dire che l’identità non è una sostanza stabile alla quale dobbiamo attribuire un valore metafisico, e che non è neppure qualcosa di semplicemente naturale, bensì qualcosa di pertinente alla nostra unicità di persone e, al tempo stesso, qualcosa che noi possiamo semplicemente e soprattutto raccontare? O, in qualche modo, farci raccontare, da un altro punto di vista? Lei diceva, se non capisco male, che "l'altro Io", capace di narrarmi, non sarei altro che me stesso posto di fronte allo specchio riflettente la mia storia vissuta fino a quel momento, la storia che mi è passata, per così dire, davanti agli occhi. Vorrei capire che cosa c’è in gioco in questa posizione, perché è così importante? Quali sono le prospettive che apre una posizione filosofica come questa?

CAVARERO. - Direi delle prospettive fondamentali, almeno dal mio punto di vista, e potremmo citare il grande Aristotele, il quale scrisse: "Dell’uomo, di che cos’è l’uomo - va sottolineato questo che cos’è, alla radio non si può sottolineare , quindi lo dirò con un volume di voce più forte - si può sviluppare una scienza, ossia un discorso filosofico. Tanto è vero che, una volta chiestoci "cos’è l’uomo" possiamo rispondere che esso è un animale razionale e perciò politico, per stare con Aristotele. Su "chi è Socrate", dice Aristotele, al contrario, non c’è la possibilità di costruire una scienza. Non si può fare alcun discorso che goda di credibilità scientifica, di verità: sarebbe un discorso non appartenente all’ambito della filosofia. Questo è un esempio noto ma tutta la filosofia possiede questo tipo di struttura. Ossia la filosofia si occupa del "che cosa" (il problema delle definizioni fondamentali) e possiamo chiamare questo "che cosa" l’universale: "che cos’è" l’uomo, "che cos’è" il soggetto e così via. Si può anche domandare: "che cos’è il mondo?", ma, per quanto riguarda gli uomini, la filosofia definisce il che cosa del genere umano in universale, e ritiene la singolarità, l’unicità, questo nostro esistere fatto così e non altrimenti, che in fondo dovrebbe interessarci molto, al di fuori del dominio del suo discorso e dei suoi interessi. Questa espulsione non è stata una semplice espulsione ma ha avuto delle conseguenze abbastanza gravi. L’unicità, ossia il fatto che ciascuno di noi sia un unico esistente così com’è, è diventato un fatto superfluo. Si scrive la storia dell’uomo, si elaborano le scienze sull’uomo, ma su di me, su di te, sull’unicità, su ciò che siamo, di questo non esiste la possibilità di una scienza, non c’è discorso. Tutto questo è il superfluo. Ebbene la letteratura, la narrazione, la narrativa, fa e ha sempre fatto esattamente il contrario. Non penso solo a Karen Blixen ma possiamo pensare anche ad Omero, per esempio. Il narrare storia significa inserire qualcosa e qualcuno in un discorso che è anche memoria. In questo risiede l’unicità dell’esistenza. E questo va sottolineato pur non avendo un approccio filosofico direttamente narrativo, come nel mio caso (perché io purtroppo non sono una narratrice e penso che questo si capisca subito).

CATUCCI: - Anche se poi lei stessa dice che tutti hanno delle storie da raccontare!

CAVARERO: - Tutti hanno delle storie da raccontare, e in ogni caso ognuno di noi si lascia dietro una storia di vita. Quello che vorrei precisare subito è che l’unicità non è l’eccezionalità. L’unicità è il fatto che ciascuno o ciascuna di noi è unico e non eccezionale. Non solo i grandi uomini e le grandi donne si lasciano dietro una storia degna di essere raccontata. L’umano in quanto umano ossia l’individualità, l’unicità, si lascia dietro una storia in quanto storia. Ora, un approccio filosofico a queste tematiche, alle tematiche dell’unicità e della singolarità, va contro a tutta una grande tradizione filosofica, e va contro le due grandi correnti filosofiche che sono ancora in gioco nell’Età Contemporanea. Una è la grande corrente che potremmo chiamare "metafisica" ed è quella che si occupa più specificamente, all'interno di questo problematica dell’identità, dell’idem ossia quel "medesimo" che Ricoeur ha illustrato così bene con il suo esempio della sostanza. L’altra invece è la corrente che potremmo chiamare brevemente postmoderna o poststrutturalista che proprio per opporsi a questa sostanza, a questa "cosa universale" e metafisica (che è incapace di occuparsi della singolarità vivente, in tutta la sua complessità), tende a guardare al dissolversi di tutto questo, ossia al dissolversi della sostanza in una sorta di identità frammentaria che non è più un’identità ma che è diciamo una somma di molti "che cosa". Ora potrei fare questo esempio: mentre per la prospettiva dell’idem, la prospettiva metafisica, io sono una sostanza, ma non io come Adriana Cavarero, bensì come la sostanza detta "uomo" (il che, se vogliamo, è un po’ ridicolo), assieme a qualche lieve accidente o proprietà che non mi fa corrispondere totalmente all’essere umano nella sua totalità, per la prospettiva postmoderna e poststrutturalista io sono un insieme di varie identità secondarie, slegate tra di loro, una sorta di "centrifuga senza centro", e allora potrei dire che sono, che ne so, una donna, una filosofa, un’italiana, sono bianca, sono eterosessuale, mi piace Mozart, e così potrei andare avanti fino a dopodomani. E sono pure la somma di tutto questo. Ma la somma di tutte queste che sono cose, naturalmente, in grado di cambiare. Queste caratteristiche possono cambiare perché io potrei cambiare la mia identità di nord italiana e quindi di sud europea, potrei andare in America e stare lì vent’anni e diventare americana o diventare di cultura africana. Potrei cambiare le mie pratiche sessuali o potrei cambiare le mie credenze religiose, potrei diventare musulmana, e quindi c’è sempre questo variare, e in questo variare, in questi frammenti che roteano impazziti fino a un certo punto, impazziti ma che, in ogni caso, hanno un carattere di estrema mobilità senza nessuna unità, succede ciò che succedeva nella prospettiva della sostanza: l’unicità era indicibile, superflua, come disse il grande Aristotele. Ebbene qui l’unicità è altrettanto indicibile e superflua, ma ciò non mi interessa: mi interessano le mie varie identità, e mi interessa l’assemblarsi o il combinarsi di queste varie identità, sia in un caso che nell’altro nella mia vita, nella mia esistenza: il fatto che io nasca e viva e muoia e il fatto che io sia insostituibile, insostituibile perché nessuno può nascere al mio posto, nessuno può vivere al mio posto, nessuno può morire al mio posto.

CATUCCI: - Io vorrei chiedere una cosa ad Adriana Cavarero, e prima di dare la parola ai primi ascoltatori, che sono già in linea (e quindi magari le chiederei anche di essere brevissima nelle risposte), ci sarebbero due cose che mi incuriosiscono molto e sulle quali vorrei dei chiarimenti. Lei prima ha citato Omero e allora mi è venuto in mente che, in fondo, l’identità quando è in gioco, non è in gioco soltanto come identità di individui o di persone uniche ma anche come concetto allargabile, per esempio, al dominio dell'etnia, della razza, ai popoli, alle nazioni, ai gruppi, alle associazioni. Ecco anche qui lei trova che l’elemento della narrazione, delle grandi narrazioni che possono essere tramandate sotto forma di mitologia o di epopee o di leggende, può contribuire a fondare un sentire comune che trascenda la dimensione del puro dato individuale. Trova che anche queste identità siano, in qualche modo, riconducibili a questo gioco narrativo oppure qui c’è sotto qualcos’altro?

CAVARERO: - Penso che siano riconducibili, anzi, penso che non si possa fare a meno di ricondurle. Prendiamo pure l'esempio di Omero. Omero parla di Achille o di Ulisse e parlando di Achille e di Ulisse, raccontando la loro storia, parla anche di una identità, diciamo pure, collettiva, culturale, che possiamo chiamare "l’identità eroica", dell’eroe. E così si può fare anche attraverso una forma di narrazione contemporanea. Si può parlare di qualcuno che si può chiamare Pinco Pallino e intanto descrivere questa identità che può essere legata all’etnia, all’associazione o alla classe, come si diceva una volta. Perché? Perché nessuno di noi è un puro "chi" senza un suo "che cosa". Voglio dire: è vero che il mio chi è insostituibile, ma la mia esistenza non è una specie di filo senza qualità: io sono una donna con delle qualità, e queste mie qualità sono appunto le mie identità plurali, le mie identità di appartenenza che mi riguardano e che ciascuna o ciascuno di noi ha. Quindi, se la narrazione è storia di vita, è storia di vita che si riferisce all’identità irripetibile di quella vita ossia alla sua unicità, e che nel frattempo narra anche di queste appartenenze. Se restiamo nel campo della letteratura, ebbene: qualsiasi grande romanzo è così strutturato intorno alle identità dei suoi protagonisti. Pensiamo ai grandi romanzi di formazione; in fondo cosa sono essi se non il ritratto di una o più società, ovvero il ritratto di identità precise e storicamente fondate.

CATUCCI: - Un’altra cosa che mi viene in mente, Adriana Cavarero, è il riferimento che faceva lei prima alla questione delle filosofie che lei ha chiamato postmoderne, dove appunto le identità vengono frantumate e dove, allora uno risulta essere la somma di tante identità. Mi pare che questa sia una questione risalente, perlomeno, a Nietzsche, il quando affermò che noi abbiamo scoperto con la morte di Dio di non avere un’unica anima immortale ma solo tante anime mortali. Allora mi chiedevo: uno dei vantaggi di questa posizione è il poter pensare all’identità non ad una cosa fissata una volta per tutte, e che quindi non si sia, in qualche modo, condannati all’identità. Mi veniva in mente il famoso detto: "non possiamo non dirci cristiani". Lei diceva prima: io potrei diventare musulmana. Qualcuno gliela contesterebbe questa affermazione e direbbe no: alla sua storia personale appartiene anche un certo tratto di inesorabilità dipendente dalla tradizione storica a cui lei appartiene, ossia esattamente da tutto ciò che non la rende unica come individuo, ma membro di una comunità culturale...

CAVARERO: - Certamente.

CATUCCI: - .Volevo chiederLe: quale è l’incidenza di questa universalità, per così dire, sul tipo di narrazione alla quale lei pensava.

CAVARERO: - Certamente. Perché appunto l’unico, l’unica, o colui o colei che nasce (senza averlo voluto, senza averlo deciso) in un luogo, in un tempo, si ritrova immesso o immessa, immediatamente, in una storia, in un ambiente che influenzano ciò che ciascuno o ciascuna di noi è, attraverso questo carattere di condizionamento della contingenza (ovvero tutto ciò che accoglie l’unicità e che la accompagna durante tutta la vita). Quindi io non vedo come queste categorie siano in contraddizione tra loro, appunto perché non bisogna pensare all’identità come unicità, non bisogna pensarla come qualche cosa che possa essere astratta dalla vita reale che è sempre in un tempo e in un luogo. E se capisco bene la sua domanda l’unicità non è una sorta di destino inesorabile del tipo "non possiamo non dirci cristiani" non è una sorta di destino inesorabile. E tuttavia l’identità intesa come unicità è fortemente condizionata dal tempo e dal luogo e questa è la vita, e quindi le infinite appartenenze segnano l’identità unica e non potrebbero non farlo.

CATUCCI: - Intanto la ringrazio di queste risposte. E darei la parola ai primi ascoltatori in linea. Buonasera. Prego.

ASCOLTATRICE: - Io volevo chiedere alla professoressa Cavarero se non sia il momento di affermare l'esistenza di una terza via per poter riproporre il concetto dell’identità come soggetto, ossia l’ermeneutica. L’ermeneutica ripropone il problema della identità narrativa e del dialogo che comunque si frappone fra me e un testo, e quindi, come sostiene Ricoeur, io mi comprendo comprendendo l’opera. Quindi in questo senso volevo sapere se fosse possibile ripartire dal cogito di Descartes inteso in un senso non più sostanzialista ma come cogito "spezzato" sempre per citare Ricoeur, e per mettere in evidenza la possibilità che solo attraverso un’alterità nel cuore dello stesso, sia possibile poi arrivare alla identità dell’Io e quindi all’Io come incontrovertibile non più come un mero a priori ma considerato a posteriori, ovvero guadagnato anche attraverso un percorso molto spesso accidentato.

CATUCCI: - Io mi sentirei in dovere di tradurre un po’ quello che lei ha appena detto, perché Lei ha usato un vocabolario molto specialistico. Lei ha parlato di cogito, e questo, naturalmente, ci riporta a Cartesio cioè a quell’idea di identità fondata sull’idea di sostanza, ossia di res cogitans, di "sostanza pensante". Ecco che lei chiedeva ad Adriana Cavarero se tutto sommato bisognasse ormai sbarazzarsi del tutto di quest’idea oppure se la sua idea di una identità narrabile in qualche modo non sia già contenuta all’interno del concetto stesso di cogito, di questa stessa sostanza, soltanto come una delle sue tante possibilità.

CATUCCI: - Sì. La mia posizione è abbastanza vicina a quella sostenuta dell’ermeneutica e anche abbastanza vicina a quella di Ricoeur, e rispetto a quello che diceva l'ascoltatrice direi che andrebbero chiarite le differenze della mia posizione rispetto alle impostazioni dell'ermeneutica. Io, innanzitutto, contesto la centralità del testo. Ossia, secondo me il testo, ovvero l’opera non è primaria e non è necessaria. Cerco di essere ancora più chiara: raccontami la mia storia perché io ho desiderio che la mia storia mi sia raccontata, ho desiderio di avere una cicogna e non so se tu me la darai con il tuo racconto. "Raccontami una storia" è una sentenza che io scrivo, e che si focalizza, si basa sul desiderio, e non è detto che la risposta mi sia data. Intendo dire che il racconto ci può essere, il racconto può essere buono, cattivo, fatto bene, fatto male e tuttavia si può prescindere dal racconto e anche prescindendo dal racconto non si cancella che l’unicità si esprima in questo desiderio. Ritorniamo alla domanda iniziale posta da Karen Blixen: "Ma tu chi sei?", è da qui, da questo interrogativo che viene fuori la figura dell’identità e il suo desiderio di autonarrazione. Che poi la narrazione sia data in determinate forme questo è, diciamo, non importante, non decisivo. La seconda osservazione da fare, riguardante l'interpretazione del cogito che dà Ricoeur, ecco io, in materia, differirei da Ricoeur in questo senso: io non vorrei baloccarmi - uso queste parole polemicamente non con l'ascoltatrice, che è stata così brava, ma con le molte posizioni della filosofia contemporanea - con il concetto di alterità; alterità è uno dei concetti che, a partire perlomeno da Platone, se non da Parmenide, attraversa tutta la filosofia. E nell’epoca contemporanea ha finito per diventare come un grande giocattolo che tutti si scambiano per giocarci. E allora si sente parlare dell’altro che è in me, dell’altro che è fuori di me, e del fatto che con me ci siano molti altri. E ancora: dell’alterità che è in me, oppure del fatto che l’altro (che non si capisce bene chi sia), certe volte è l’altro con la A maiuscola che forse è Iddio, forse è il mare, forse è l’aldilà, forse non si sa. Ecco io ho chiuso con questi baloccamenti, quando cercando l’altro o l’altra intendo sempre qualcun altro, qualcun’altra ossia un essere vivente che è nato, che vive e che si lascia dietro una storia, che ha un volto ed un nome diversi da x. Allora per rispondere all'ascoltatrice direi che l’ermeneutica è fondamentale e tuttavia rispetto all’ermeneutica io rifiuterei la centralizzazione del testo e rifiuterei, e proprio qui sono polemica, qualsiasi nominazione dell’altro o dell’altra che non si riferisca a un essere umano che è unico, che ha una storia, che ha un volto, e che non sta per niente altro ma sta solo per se stesso e per se stessa.

CATUCCI: - Abbiamo un’altra ascoltatrice in linea. Buonasera. Prego.

ASCOLTATRICE: - Io volevo porre un attimo l’attenzione su diciamo l’aspetto psicologico della questione, perché mi ha colpito molto il fatto che la signora Cavarero sottolineasse come il problema dell’identità sia direttamente collegato con il problema della relazione che io ho con l’altro. Quindi mi chiedevo: nel mondo attuale, dove ci sono pochissimi spazi per costruire relazioni autentiche e dove anche i tempi vivono di accelerazioni molto forti e dove mancano anche i luoghi, perché appunto i tempi, i luoghi, le relazioni sono abbastanza precarie, ebbene, in tutto questo, come è possibile che poi l’altro si possa formare anche solo un riflesso, un’immagine della nostra persona più vera, più autentica. Ecco volevo sottolineare questo aspetto che mi sembra anche pieno di drammaticità, perché poi è anche connesso al problema della solitudine e ad altri problemi che sono propri di questa epoca in cui viviamo.

CATUCCI: - Grazie molte. Allora, Adriana Cavarero?

CAVARERO: - E’ una domanda molto bella e mi dà modo di dire una cosa che mi sta molto a cuore. Naturalmente il "chi sei", la domanda riguardante la relazione di questo chi con l’altro chi, (chi sei tu, chi sono io) non è una qualsiasi relazione con qualsiasi cosa ossia non è una relazione di tipo semplicemente narrativo. E il riconoscimento dell’altro in quanto qualcun altro che è appunto uno e non un "qualsiasi", non è semplicemente tutto ciò che si dà nella vita quotidiana. Ci sono però scene di vita molto particolari che ognuno di noi ha vissuto, se non è proprio uno sventurato, dove tutto questo avviene normalmente. Sono scene di vita che, appunto, ognuno di noi conosce bene e che ognuna di noi conosce altrettanto bene. Penso, ad esempio, alla scena dell’amicizia. L’amicizia è quasi sempre, soprattutto l'amicizia fra donne, uno scenario di tipo molto narrativo. L’amica è colei che sa chi io sono, l’amica è colei a cui io potrei raccontare la sua storia anche se non lo faccio normalmente. Lei sa che io potrei raccontarLe la sua storia. L’amica è diversa dalla conoscente, perché la conoscente è una persona che posso incontrare, che sicuramente ha una storia di vita unica, ma io non gliela saprei raccontare in prima persona. Ma alle mie amiche sì che potrei raccontare loro la loro storia, e così è l’amore. Nella scena amorosa i due amanti guardano sempre a loro ossia a chi è più importante chi è l'altro che io amo. Io amo il "chi" non amo il "che cosa". Io cito sempre questo fatto paradossale, anche assurdo, che può sembrare paradossale e assurdo in ogni caso tremendo: ci sono casi in cui degli ebrei hanno amato dei nazisti o, viceversa, adesso faccio questo esempio perché è tra i più celebri. E tutto ciò è così appunto perché a tal punto, in maniera paradossale in questo caso, a tal punto si ama "chi" l’altro è, e si ama l’unicità dell’altro che, alla fine, il che cos’è (che pure in questo caso è l'essere nazista, ovvero qualcosa di macroscopico) riesce certe volte per brevi tempi a sparire e viene posto così in sottofondo che non conta più. Quindi certamente la solitudine è appunto il fenomeno del "chi" che va in cerca di un altro "chi", e che lo può incontrare (o magari lo ha già incontrato altre volte) in scene di vita particolari, nelle scene in cui la relazione è una relazione fra diverse unicità: uno è l’amore l’altra è l’amicizia, a mio avviso siamo di fronte, in questi concetti, a certi tipi di politica o perlomeno a quello che io, con Annah Harendt, chiamo "politica". Sicuramente certe esperienze di politica tra le donne, che non per caso hanno questo tipo di slogan (molto noto, ma che risulta invece strano a chi non è abituato a questo tipo di esperienze) "la politica delle donne è la relazione fra donne", ebbene, risulta incomprensibile a chi non ha mai vissuto questo tipo di esperienze. Eppure chi ha affrontato questo tipo di esperienza sa bene cosa voglio dire. E in più, ultima scena che vorrei nominare, proprio perché all’inizio della trasmissione è stata nominata la psicologia, possiamo passare dalla psicologia alla psicoanalisi (anche se ovviamente non sono la stessa cosa), e vedere come la scena psicanalitica è la tipica scena, di un chi che va da un altro chi, ossia un’analista e gli racconta la sua storia per sentirsela, in seguito, ri-raccontare. Io non vorrei dilungarmi sulla scena psicanalitica perché sono celebre fra i miei amici psicoanalisti come colei che non ha l’inconscio, quindi io ho terrore di parlare delle cose che non conosco. Però, indubbiamente, la scena psicoanalitica è una scena di relazione narrativa.

CATUCCI: - Insomma, i suoi amici, da come lei racconta, dovrebbero anche saperla lunga per raccontarla...

CAVARERO: - Sì, dicono che non ho l’inconscio, e che questo fa parte della mia storia di vita..

CATUCCI: - La pregherei, visto che ci troviamo in due studi diversi, di essere magari un po’ più breve nelle risposte, mi scusi se glielo chiedo. Intanto abbiamo un’altra ascoltatrice in linea. Buonasera. Prego.

ASCOLTATRICE: - Buonasera. Volevo salutare Adriana, e porLe una domanda: questa identità della narrazione, che si traduce nella autonarrazione, a me non sembra che faccia compiere molti passi in avanti alla nostra analisi, rispetto all'identità come Io - sostanza, come Io sostanziale, perché rimane pur sempre solipsistica e autoreferenziale, a mio avviso, e anche quando si parla di amore, di amicizia quindi di rapporti a due, mi sembra che si tratti sempre di legami che non creano una "catena". Io, invece, vorrei che tu parlassi di quella identità che lega le persone in una catena generativa e che quindi le combina, legando insieme la volontà con la necessità, il pensiero che prevede di mettere al mondo o che ricorda di essere stato messo al mondo con il corpo. Insomma, per concludere: non ti sembra che, oggi, la filosofia non debba ormai pensare sempre più eticamente e politicamente alla procreazione? Ciao.

CATUCCI: - Grazie molte.

CAVARERO: - Sì, indubbiamente deve pensare alla procreazione, tanto è vero che proprio perché mi baso su Annah Harendt lo scenario immediato che fa vedere come l’unicità, l’identità dell’unicità non possa essere né solipsistica né autoreferenziale, che ciascuno di noi nasce da madre e quindi la relazione all’altra è addirittura necessaria per il nascere, per il mostrarsi così come si è, per l’apparire al mondo. Rispetto a quello che diceva l'ascoltatrice io intendo già l’amicizia come una catena. Certamente nei rapporti a due ma anche nei rapporti a catena. Un altro scenario possibile di catene narrative è ovviamente quella della famiglia. E' quasi sempre la madre o la nonna che racconta per prima il capitolo dell’infanzia di ognuno di noi, della storia di una vita che inizia. E in ogni caso la relazione presa sul serio (ossia la relazione come costitutiva dell’identità dell’altra e dell’altro) è una relazione che crea catene e crea catene di riconoscimento che però non sono tanto di tipo genealogico che possano sussistere.. come dire? Come esempi resi per sempre universali, ma pur sempre ricostruite e praticate. Io penso all’identità non tanto - ovviamente sto teorizzando, faccio il mio mestiere - come a una teoria ma come ad una pratica.

CATUCCI: - Io prima di andare avanti con gli altri ascoltatori che sono in linea vorrei coinvolgere nella discussione una persona che abbiamo cercato ossia una nostra ospite, una giovane scrittrice si chiama Heléna Janecêck. L’abbiamo anche ospitata qualche tempo fa nella nostra rubrica del sabato degli scrittori esordienti per presentare il suo libro Lezioni di tenebra, e lì si trattava di una storia di un’identità anche difficile da riacquisire, da ritrovare che è anche un’identità appunto ebraica, però l’ha narrata, raccontata in una maniera particolarmente leggera. Con un tono appunto che faceva di questa identità un luogo non cruciale, non così drammatico mi pare, della propria esperienza anche se importante, e quindi da recuperare. È in linea. Io vorrei sapere che impressione ha tratto dall’ascolto della trasmissione fino a questo momento.

HELENA JANECÊK: - Dunque io adesso non vorrei subito cominciare a fare quella che parla subito del suo libro, ma mi sembra che potrebbe essere una cosa abbastanza interessante proprio per riallacciarmi al discorso di prima. Perché lei, Catucci, ora ha parlato di identità ebraica. Ora questo libro, più che un libro sull’identità ebraica è il racconto di una figlia che cerca la propria madre e che si racconta la storia della propria madre per potersi narrare la propria storia. Ed è esattamente quello che di cui parlava prima Adriana Cavarero, se ho capito bene. Questo libro è stato scritto (in un certo senso) anche in forte polemica con il discorso filosofico sull'identità. Ovvero il problema dell' "io chi sono". In questo libro, il concetto/bersaglio di identità viene inteso come quello di "identità postmoderna" (il che sta a significare questa sorta di accozzaglia di etichette che ti porti dietro volente o nolente, che nel mio caso dovrebbero già aver prodotto una schizofrenia congenita, perché io sono donna, sono ebrea, sono tedesca, sono italiana, sono polacca, sono non so’ che cosa e allora la gente ti chiede: ma allora ti senti più italiana o più tedesca, più ebrea o più polacca e uno dice: ma a me in fondo non mi interessa). Io credo che non sia questo ciò di cui una persona è fatta, in cui una persona consiste. Tutte queste sono appartenenze, più o meno importanti, più o meno conflittuali, che non ti scegli, ma che ti sono date, o meglio che ti scegli volente o nolente, con le quali ti identifichi (nel senso che ci tieni), che investi di significati tuoi. E l’unica cosa che puoi fare è cercare di integrarle e le integri raccontandole. Però non c’è un sé oggettivo, non c’è nessun contenuto, sia sostanziale sia nella parzialità di queste cosiddette identità multiple, che sono delle etichette, a mio avviso più o meno ideologiche, che ci costituisca realmente. Quello che ci costituisce è il nostro rapporto col mondo, esattamente come dice Adriana Cavarero. E sono perfettamente d’accordo con lei, quando afferma che è il nostro specifico rapporto con singole persone a costituire il tessuto di questa identità. Ed è per questo che, proprio per raccontare una mia esperienza familiare del campo di concentramento, che ho scelto di raccontare la storia di mia madre che sono andata praticamente a rimettere insieme attraverso pezzi, brandelli, frammenti che lei non mi aveva mai raccontato. E da questa "relazione" viene fuori lei e vengo fuori io. E' stato almeno un tentativo. E' un lavoro che fai, e lo fai probabilmente per tutta la tua vita, non ottenendo mai un risultato definitivo.

CATUCCI: - Io la ringrazio intanto di questo contributo e la pregherei di rimanere in linea se le è possibile così potrà anche intervenire magari più avanti, nella conversazione. Intanto coinvolgerei un altro ascoltatore, che è in linea. Buonasera. Prego.

ASCOLTATORE: - .Non pensa che l’impulso del soggetto che si pone questa domanda possa essere, con molto profitto, inserita in una discussione che secondo me non può essere altro che di impostazione lacaniana, per quanto riguarda la domanda stessa colta proprio nel suo nocciolo logico? Mi viene in mente che questo "chi è" in un certo senso già è una risposta. È una risposta a una domanda che è: chi sono io?, Mi è sembrato, stasera, che venisse usata, questa parola, da parte della professoressa, proprio come in un baloccarsi con questi concetti di "altro". Quanti ce ne possano essere, poi, con la lettera maiuscola, o minuscola, è una questione secondaria. Ecco Lacan, secondo me, centrava la discussione, dicendo che non si può fare la sostanza di questo "altro ". Il che equivale a dire che non c’è nessun altro. C'è il linguaggio, e basta..

CATUCCI: - Grazie di questo contributo. Quindi abbiamo evocato il nome di Lacan; che ne pensa Adriana Cavarero?

CAVARERO: - Lacan secondo me è uno di quelli che si baloccano con queste alterità. Naturalmente è difficile rispondere su questo quesito su Lacan perché la mia posizione è completamente diversa. Mi limiterei a riprendere queste cose assolutamente perfette che ha detto la Janecêk, in base alle quali qui si tratta sempre di qualcuno o di qualcuna che è un essere vivente e che ha una lunga storia di vita e che è nata e che vive, intendo dire: anche il mio modo di parlare e dire chi è o il dire che cosa, può essere fuorviante, perché la domanda non è mai il chi è ma la domanda è: chi sei tu? Chi sono io? Ossia bisogna sempre immaginare che c’è un essere umano che fa questa domanda e, allora, rispetto a quello che diceva l'ascoltatore, (naturalmente non posso affrontare Lacan, mi dovreste concedere altre sei ore per parlare di Lacan), però rispetto a quello che diceva l'ascoltatore, non so se egli sia d’accordo mentre ascolta. In Lacan la dimensione del linguaggio è una dimensione che alla fine produce la soggettività, ossia è una dimensione rispetto a quale la singolarità di ciascuno, l’unicità è una sorta di prodotto, in questo Lacan appunto si avvicina a Foucault tanto per citare un altro grande nome. Il mio tentativo è di uscire da queste grandi categorie (il linguaggio, l'inconscio ecc.) e, invece, dare voce e discutere filosoficamente, presentare filosoficamente quella cosa fondamentale che ha detto la Janecêk, che lei ha descritto narrativamente e quindi in maniera molto più suggestiva, molto più affascinante. Essendo il mio mestiere di filosofa il mio tentativo è dire queste cose in un linguaggio che ahimé è ancora tutto filosofico.

CATUCCI: - Un altro ascoltatore. Buonasera. Prego.

ASCOLTATORE: - Io mi ritrovo ampiamente nella posizione di Adriana Cavarero sull'identità come narrabilità avendo condotto un consistente trattamento analitico, (e qui taglio rapidamente). Avevo tre domande: una l’ha già fatta Stefano Catucci sulle identità collettive e, quindi, me ne restano due. Le mie domande nascono da delle impressioni di lavoro. Partendo vorrei sottolineare questa consistenza un po’ labile, evidentemente, di queste impressioni che vorrebbero essere confermate da verifiche personali, ed, eventualmente, da dialoghi e da altri pareri. Uno è quello di Adriana Cavarero. Allora, la prima domanda riguarda i miei giovani pazienti. La mia sensazione, avendo avuto un'esperienza terapeutica di questo tipo, è che, andando sempre più avanti verso l’attualità della loro esistenza, non solo non si possa parlare di eccezionalità nella loro identità ma neppure di unicità. Spesso mi sembrano delle individualità senza svolgimento quindi evidentemente senza narrabilità. La seconda domanda riguarda, al contrario, i pazienti anziani. Non riguarda tutti gli anziani, ma in alcuni si ha la sensazione che l’identità, all'interno delle loro strutture esistenziali, non ci sia. Non perché non sussista narrabilità del passato ma perché non sussiste un narrabilità del futuro e non so spiegarmi perché non ci sia in tutti. Queste sono le mie domande.

CATUCCI: - Grazie molte. Adriana Cavarero.

CAVARERO: - Se ho capito bene la questione, per quanto riguarda i giovani, diceva Giuseppe, essi hanno una unicità che trova sempre di meno espressione. Non so se lui accennasse a questo problema dell’imitazione, della massificazione. Indubbiamente tutto è dovuto all'esistenza di un comportamento massificato, un comportamento di imitazione di vari modelli che possono essere modelli televisivi o modelli alla moda. Tutto questo rende molto difficile l’espressione dell’unicità, non so se è questo che volesse dire il nostro ascoltatore, ma sempre citando la mia amatissima Hannah Arendt, lei stessa dice che la società di massa è un paravento, anzi un peso schiacciante, un peso incredibile che tenta di rendere impossibile l’espressione dell’unicità. Quanto agli anziani, certamente essi hanno "meno futuro". Questo è spiegabile grazie al comune buon senso, e tuttavia i "vecchi" sono dei grandi narratori, e sono forse i migliori narratori del passato. Ma, viceversa, gli anziani che si propongono come narratori del futuro sono forse gli anziani, direbbe Hannah Arendt, che hanno ancora voglia di azione, che hanno ancora voglia di esprimere chi sono, non cosa sono, ma chi sono. E in ogni caso gli anziani sono preziosissimi perché sono loro i grandi narratori, e sono loro i grandi narratori in quella catena di relazioni narrative che è appunto la famiglia.

CATUCCI: - Abbiamo ancora altri ascoltatori in linea. Prego.

ASCOLTATORE: - Io ho seguito con grande interesse la discussione e in particolare sono molto incuriosito e attratto dalla questione dell’identità personale a cui, mi sembra, che la professoressa abbia voluto richiamare molte volte l’attenzione. Ora il problema dell’identità personale è stata trattata e approfondita in campo filosofico per molti secoli dando origine a dubbi, a discussioni e a diverse polemiche. A me interessa in particolare quella messa in discussione dell’identità personale che deriva in parte dalle conseguenze di alcune scoperte scientifiche, in particolare neurologiche e neuropsichiatriche. La domanda è proprio questa: non pensa la professoressa che, per esempio, per poter parlare e concepire l'intera problematica dell’identità personale non bisognerebbe ignorare studi come quelli di Roger Sperry che con la commissurotomia cerebrale, (ovvero la rescissione tra i due emisferi cerebrali della parte che li connette, il corpus callosus) riuscì a realizzare un perfetta incomunicabilità neurofisiologica tra le funzioni più alte della corteccia cerebrale? Con studi come quello di Sperry venne sottoposto a revisione critica il concetto tradizionale di identità personale, basato, anticamente, sull'idea che esistesse un fenomeno noto come unità della coscienza, unità, che nei pazienti commisurotomizzati venne completamente a mancare, dando origine a più flussi di coscienza. Ma si pensi anche allo studio, in neuropsichiatria, delle personalità multiple, studi che rimettono in discussione la concezione classica dell'identità personale. E un ultima considerazione (su questo ci terrei molto ad ascoltare un parere della professoressa) un filosofo analitico, se non sbaglio inglese, Derek Parfit, nel libro Ragioni e persone addirittura è giunto, così mi sembra di ricordare, a dichiarare che la stessa idea dell’Io, della nostra identità personale, è forse una vera e propria illusione. Parfit arriva a queste conclusioni prendendo spunto proprio dagli studi di Sperry, ed elaborando, a partire da questi studi, diversi esperimenti mentali, in cui viene estremizzata l'idea che se il cervello, in linea di principio, (ossia di possibilità logica), fosse un organo espiantabile e trapiantabile come un qualsiasi organo vitale, allora, essendo esso stesso la sede della mente e della coscienza, con esso sarebbe possibile espiantare e ritrapiantare, anche su più soggetti, l'identità personale di quello che un tempo era una solo persona. Ma in questo modo, l'identità personale cesserebbe di essere ciò che conta. Mi rendo conto che è un esperimento mostruoso solo da immaginare, e forse impossibile. Però a livello di teorizzazione bisogna tenere presente anche queste possibilità.

CATUCCI: - E', forse, questo uno scenario ancor più mostruoso se immaginato anche al livello dell'ingegneria e delle manipolazioni genetiche. Grazie molte. Adriana Cavarero?

CAVARERO: - Sì. I quesiti che venivano posti dall'ascoltatore per l’identità personale sembravano intendere essa ancora come sostanza. Se si intende l’identità materiale come sostanza e così pure l’identità personale, (così l’ha intesa la Storia della Filosofia fino ai tempi recenti) da questa posizione può derivare un problema: questa identità dell'io si stabilisce nella mente o nel corpo di un individuo? Una volta si diceva l’anima adesso si dice la mente. L'io sta nella mente o nel corpo? Ed ora il contributo portato dal signor ascoltatore che è appena intervenuto, in effetti, fa parte di una discussione sul concetto di identità personale, intesa come sostanza, che è praticata soprattutto in America negli Stati Uniti dai filosofi di indirizzo analitico. Questo tipo di discussione, e uno dei quesiti che vengono riproposti in essa, è proprio quello delle conseguenze di un ipotetico trapianto di cervello all'interno di un "sistema corpo" individuale. Ci si chiede: l’identità non è nel corpo, l’identità è in quella parte del corpo che si chiama "cervello", e che si può anche chiamare mente, perché se si trapianta il cervello di qualcuno a qualcun altro che cosa succede? Questo trapiantato perde completamente la sua identità? Cambia la sua identità? Ha una memoria che proviene dal cervello del donatore? Tutte queste domande sono ormai oggetto di una approfondita indagine filosofica nel campo analitico. Io non mi intendo di neuropsichiatria e neuropsicologia, ma bisogna dire che all'interno di quel dibattito vengono spesso portati questi esempi, esperimenti mentali che, d’altra parte, provengono da un ben determinato tipo di narrativa e, quindi, di narrazione. Pensate alla fantascienza! Tutta la fantascienza è ormai piena di questo genere di narrazione che chiamerei la "nuova mitologia del cyborg". Io ritengo che tutti questi quesiti siano tutti molto interessanti, ma la mia prospettiva di analisi è molto più modesta. La mia prospettiva è quella di non affrontare l’identità come sostanza, così come si è fatto tradizionalmente nella storia della filosofia moderna e nella scienza cognitiva, ma piuttosto dare senso, con parole filosofiche, a questo desiderio che, secondo me, molti di noi hanno, (io direi: che ciascuno e ciascuna di noi ha), di poter entrare nel racconto della propria storia di vita e dare senso a questo dominio che è sottoposto al nostro buon senso. E il nostro buon senso ci dice che al di là dei possibili trapianti di cervello al quale io posso andare incontro tuttavia ciò che ora mi preme è chi sono io, chi sei tu. E in ogni caso, diciamo, il modello a cui penso io non è sicuramente il modello patologico dell'identità, ovviamente, (questa è una frase di Hannah Arendt la quale ha sostenuto che prima di occuparci del patologico dovremmo studiare più a fondo il "non patologico").

CATUCCI: - Abbiamo in linea un altro signore. Buonasera. Prego.

ASCOLTATORE: - Devo dire che sono stato in parte anticipato da un ascoltatore. Comunque espongo ugualmente la mia considerazione: io sento sempre più diffondersi fra i miei amici questa tipica frase: che cosa mi racconti?. E poi in televisione si sente sempre più spesso un’altra frase che è quella dell’intervistatore che chiede all’intervistato di raccontare la sua storia. Ecco, io mi chiedo se non sia un po’ ossessivo tutto questo raccontarsi. Non esiste forse una specie di eccesso di narrazione? Questo eccesso di narrazione non può avere, forse, degli aspetti alcune volte deteriori, nel senso che a volte si rischia di rendere proprietà comune ciò che è intimo? E poi un’ultima cosa, per quanto riguarda il buon senso. Il buon senso comune intende l’identità in modo fluido perché, citando Descartes, si potrebbe dire che il buon senso sia la cosa meglio distribuita fra gli uomini. Però si potrebbe anche dire che il razzismo è una cosa molto ben distribuita fra gli uomini, se spingiamo all'estremo questo metodo di ragionamento! Ogni identità, se la si intende in modo così fluido, può diciamo così, cristallizzarsi su luoghi comuni scontatissimi che sono favoriti da questa pratica di eccessiva narrazione. Grazie.

CATUCCI: - Insomma, Adriana Cavarero; anche l’identità narrabile tende ad alienarsi, a cristallizzarsi in una sostanza?

CAVARERO: - Sì. Io credo che quello che diceva l'ultimo ascoltatore sia molto importante, perché nell’epoca della grande spettacolarizzazione anche la narrazione viene, purtroppo, spettacolarizzata, e viene spettacolarizzata insieme al narcisismo che è una delle tipiche "cifre della modernità". Quindi da una parte non posso che dargli ragione. Questo eccesso di narrazione, non è più la narrazione personale del tipo "chi sei tu" "chi sono io" su di uno scenario condiviso, bensì è la narrazione televisiva, ossia la spettacolarizzazione massmediale e questo non colpisce solo la narrazione colpisce qualsiasi aspetto della modernità. Direi, semmai, che in mezzo a tutto il male di questa spettacolarizzazione del narrare che raggiunge, appunto, punte incredibili di cattivo gusto, (ho visto una volta una trasmissione che si chiama "Strano Amore") male che va, appunto, condannato, bisognerebbe avere anche la forza di distanziarsi da tutto ciò e notare che tutto quello che viene spinto fino alle soglie dello spettacolo è tuttavia il frutto di un'esigenza che altrove non trova spazio. Forse questo desiderio di narrazione prende una strada sbagliata, ma è un’esigenza che c’è, se viene riconosciuta. C’è sia da parte di chi va lì per raccontare la sua storia sia da parte degli ascoltatori che si bevono queste storie. Perché c’è un desiderio di narrazione? Molto importante invece, e ringrazio l'ascoltatore per questa domanda, è l’accenno al razzismo. Ecco il razzismo, qualsiasi forma di razzismo è fondato sulla ricerca di un "che cosa" in luogo di una sana ricerca di un "Chi". Il razzista non pone mai la domanda: "chi sei"? Questo perché non si può rispondere "io sono nero" o "io sono musulmano" o "io sono bianco" o "io sono nazista" o "io sono comunista" o "io sono extracomunitario" o tutto quello che vogliamo dire alla domanda "chi sei". Tutte queste risposte arrivano, piuttosto, alla domanda "che cosa sei". Il "che cosa" tende a focalizzare le identità sostanziali, il "chi" invece focalizza le unicità prima delle identità plurali. E qui voglio fare l’esempio di un film, perché forse raccontando delle storie ci si capisce meglio. C’è un film, di qualche anno fa, che si chiamava La moglie del soldato, che raccontava di terroristi irlandesi che rapiscono un soldato inglese e che quindi lo vogliono uccidere, vedendo appunto in questo soldato il "che cosa": è l’inglese, è l’altro, è il nemico ecc. Tuttavia prima di ucciderlo, poiché aspettano che vengano liberati degli ostaggi in cambio della sua salvezza, il carceriere comincia a parlare con questo prigioniero, e si raccontano la loro storia e l’ostaggio inglese comincia a raccontare la sua storia. Dopo di che, questo carceriere si rifiuta di ucciderlo personalmente e anzi finisce per morire lui, per altre vicende del film, dopo essersi legato alla "moglie" vedova del prigioniero inglese. Con questo esempio intendo sottolineare l'importanza, anche sul piano etico, del mettere in primo piano il "chi" senza eliminare il "che cosa". Non c’è mai un chi che non sia pieno di identità plurali, questo lo vorrei ripetere, ma lo diceva anche prima la Janacêk, chiaramente. Anche l’identità ebraica, di cui lei faceva l’esempio, non è distaccabile dalla sua vita o dalla vita di sua madre. Ma non è in questa cosa che lei consiste. Questa identità appartiene alla sua vita ma lei non è identificata solo da questa proprietà. Ebbene il porre le identità plurali, le identità che possono dare adito al razzismo, non come primarie ma come secondarie e rivolgersi a chi mi sta di fronte come a un essere unico questo, secondo me, può aprire un orizzonte, un orizzonte etico e un orizzonte politico che è totalmente differente da quello cui siamo abituati. Facciamo un ultimo accenno. Il "che cosa", la domanda del "che cosa", "che cosa sei?", bianco, nero, musulmano, in qualsiasi modo si risponda non può che dare adito a gerarchie, a distinzioni oziose o pericolose, addirittura. Dove c’è un che cosa che si, crede di essere, che è meglio di un che cosa che è un altro, (questa è storia non si può negare questo), colà si rischia la degenerazione nell'intolleranza. La focalizzazione del "che cosa" costruisce gerarchie, costruisce sistemi di dominio. La domanda sul "chi" secondo me, purtroppo, non evita che invece sistemi di dominio siano creati, e tuttavia sposta positivamente l’attenzione. Se prima chiedessimo chi e dopo che cosa, forse, i sistemi di dominio e i sistemi gerarchici sarebbero più difficili da costruire.

CATUCCI: - Bene, Adriana Cavarero. Mi sembra che questo discorso sia molto interessante. Vorrei sottolineare una cosa che è venuta alla luce anche in questa Sua ultima risposta, non in quest’ultima parte. Quando l’ascoltatore ci parlava della televisione, della spettacolarizzazione, lei ha posto una distinzione tra forme di narrazione e mi pare che per la prima volta sia venuto un po’ a galla anche il problema di un certo, crescente, "bisogno di autenticità". Ecco: questa parola che è rimasta un po’ sullo sfondo "bisogno di autenticità" " bisogno di verità", ci riporta da dove abbiamo cominciato, ossia Paul Ricoeur. Ricoeur sottolinea come, in ogni narrazione, ci sia un forte sforzo di finzione di riconfigurazione di costruzione e artificio. Ecco vorrei sapere: secondo lei questo sforzo di finzione quanto entra nella costituzione della identità?

CAVARERO: - Ecco di nuovo l’autenticità intesa come finzione, artificio, narrazione! Tutto questo, di nuovo, cattura l’attenzione sul testo. Io non nego che il testo sia una cosa importante, in un’ottica di tipo narrativo e tuttavia io mi sforzo di rendere il testo secondario rispetto alle concrete storie di vita. Allora: se qualcuno mi racconta la mia storia e quindi dà risposta a questo mio desiderio che non vorrebbe la mia vita come un’accozzaglia di eventi, io posso avere due atteggiamenti: un atteggiamento è quello di valutare o giudicare il testo che mi viene fornito (che naturalmente non necessariamente deve essere un testo scritto, ma può anche essere un testo orale), ossia quanto tu, amico/interlocutore, mi racconti bene, non mi racconti bene? Quanto mi riconosco, non mi riconosco in ciò che tu narri? E allora tutto questo che lei diceva di Ricoeur può andar bene. Ma se io non focalizzo la qualità del testo ma mi concentro sull’altra o l’alt

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