Davvero un bell’8 marzo quello di sessant’anni fa, il primo dopo la Liberazione. Si era alla vigilia delle elezioni amministrative: dopo un quarto di secolo e la dittatura fascista gli italiani potevano di nuovo esprimere il loro libero voto. Le donne avevano un motivo in più per festeggiare: per la prima volta nella storia dell’Italia unita avrebbero potuto partecipare al voto ed essere elette. Il diritto era stato riconosciuto da un decreto emanato dal governo Bonomi, il 31 gennaio del 1945, quando l`Italia era ancora divisa e al Nord si combatteva contro i nazifascisti.
Il debutto del voto femminile avvenne nelle elezioni per la ricostituzione delle amministrazioni democratiche, che si svolsero dal 10 marzo al 7 aprile 1946 in 5.722 comuni. Le donne, parteciparono massicciamente al voto contribuendo a eleggere le prime consigliere comunali. Ma la vera grande “prima” delle elettrici italiane si ebbe con il voto del 2 giugno per il referendum istituzionale e l’Assemblea costituente. Le donne rappresentavano il 52 per cento del corpo elettorale e circa il 90 per cento di loro si recò alle urne. Dei 573 eletti alla Costituente le donne risultarono solo 21: nove del Pci, altrettante della Dc, due del Psiup e una dell’Uomo qualunque.
Tra le prime parlamentari italiane, che si batterono affinché la Costituzione sancisse l’uguaglianza giuridica tra i sessi, ricordiamo le comuniste Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde lotti, Teresa Mattei, Teresa Noce e la socialista Lina Merlin.
Si realizzava così una conquista per la quale il movimento femminista si era battuto fin dagli albori dello stato unitario. È del 1864 l’opuscolo La donna e i suoi rapporti sociali nel quale Anna Maria Mozzoni denunciava la discriminazioni: «La donna ha sempre subito la legge senza concorrere a farla». Nel 1879 la stessa Mozzoni fondò la Lega promotrice degli interessi femminili, che rivendicava il diritto di voto alle donne quando gli italiani ammessi al voto rappresentavano un’esigua minoranza. La riforma elettorale del 1882, che ancora una volta escludeva le donne, portò la percentuale degli aventi diritto al voto dal 2,2 per cento al 6,9 per cento della popolazione!
Se tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne venivano regolarmente respinti era anche perché la battaglia suffragista non aveva il convinto sostegno del campo progressista. Al movimento socialista stava decisamente più a cuore la legislazione sociale che non il voto delle donne, considerato un obiettivo borghese. Nel 1910 la questione del voto femminile fu al centro di un contrasto tra Filippo Turati e la sua compagna Anna Kuliscioff, l’uno contrario l’altra favorevole a impegnare il partito socialista in questa battaglia. Tuttavia, nel corso del dibattito sulla riforma elettorale che nel 1912 introdusse il suffragio universale maschile, alcuni deputati socialisti, tra cui lo stesso Turati proposero un emendamento che estendeva il diritto di voto alle donne. Giolitti manifestò la sua netta opposizione a quello che considerava “un salto nel buio” e la maggioranza dei deputati si mostrò del suo stesso avviso respingendo l’emendamento con 209 voti contrari, 48 a favore e sei astenuti.
Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò, con 174 voti favorevoli e 55 contrari, la legge che concedeva il voto alle donne: non dalle imminenti elezioni bensì dalle successive. Prima che il provvedimento fosse approvato dal Senato intervenne però lo scioglimento delle Camere. Nella nuova legislatura la Camera riapprovò la legge, ma ancora una volta il Senato non fece in tempo a fare altrettanto prima delle elezioni anticipate al maggio 1921.
La marcia su Roma fece saltare tutto. Il fascismo concesse il diritto di voto attivo, solo per le amministrative, a determinate categorie di “signore” (decorate, madri di caduti, titolari della patria potestà, in possesso della licenza o che sapessero leggere e scrivere ma pagassero almeno quaranta lire annue di tasse comunali), ma prima che potessero affacciarsi alle urne abolì le elezioni amministrative. La primavera nel 1946 era ancora lontana.