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Storia
Transdisciplinare
Giovanni Agnelli - Rassegna stampa: Valentino Parlato.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:

Il paese di Agnelli

VALENTINO PARLATO

 Molte volte, nelle vicende umane, la reazione all'evento è più importante e richiede più attenzione dell'evento e così, mi pare, è per la morte di Gianni Agnelli. Questa morte era annunciata, scontata e, forse, anticipata dallo stesso protagonista a poche ore dalla sua deposizione: Gianni Agnelli - penso io - aveva calcolato di morire prima del crollo della Fiat e si è sforzato di morire ancora da Presidente: noblesse oblige. La morte, che è naturalmente inevitabile e che nel caso era scontata, tuttavia ha suscitato un concerto di reazioni, che dovrebbe essere oggetto di studio da parte di sociologi e, meglio, di antropologi. Le reazioni, le avete registrate ieri su radio e Tv e oggi sulla carta stampata, tendono a una unanime beatificazione, fa quasi ricordare Giovanni Pascoli della Quercia caduta: «era pur grande, era pur bella...».

Perché questa caduta di spirito critico, di analisi razionale? Penso che ci siano almeno tre ragioni. La prima, la più superficiale, è la commozione, vera o finta, della morte: andare oltre il parce sepulto non costa niente. La seconda ragione, molto italiana, nasce dalla carenza di borghesia: noi italiani soffriamo in modo quasi bovaristico di non aver avuto e di non avere una borghesia e ne soffriamo anche a sinistra. Così Gianni Agnelli è stato per noi italiani il surrogato (l'ersatz, dicono i colti) del grande borghese. Ripeto un puro bovarismo poiché l'Avvocato non era affatto un grande borghese, ma solo uno snob del tutto privo del piacere e del valore (che i grandi borghesi talvolta hanno) del rischio. «L'avvocato di panna montata» una volta aveva scritto Eugenio Scalfari. «La Fiat - loro ce lo hanno insegnato fin da quando eravamo bambini - è sempre governativa», con Mussolini e anche con Berlusconi, magari con il sorridente bilanciamento di qualche battuta di spirito. L'Avvocato - persona anche simpatica e intelligente in incontri mondani - è stato solo un erede (non un fondatore) che, come un proprietario fondiario piuttosto distratto, ha affidato le sue fortune a due accorti fattori, come Valletta e Romiti, e, con alle spalle un grande Enrico Cuccia. Poi, alla fine anche assediato da una famiglia prolifica e famelica, si è sussurrato la massima snob, «après moi le déluge», solo che il déluge è arrivato in anticipo, facendogli correre il rischio personale di morire detronizzato da riottosi eredi senza qualità. La terza ragione del diluvio apologetico di questi giorni nasce dalla paura e dal disorientamento: ci eravamo inventati un re, il re è morto è nessuno è in grado di ripetere il fatidico «viva il re». «Les dieux s'en vont» si ripetono - salvo alcune meritevoli eccezioni - percossi e attoniti i comprimari del nostro teatro nazionale. La morte dell'Avvocato simboleggia per quasi tutti loro la fine di un'epoca e non hanno né idee né leader (per Berlusconi si può votare, ma non gli si può dare fiducia) per cominciarne un'altra. Andando oltre il paradosso si può sostenere che l'Avvocato non c'era, che era solo un abito, che adesso si è ammonticchiato per terra, ma l'apologetico disorientamento che il crollo di questo vestito produce non si può liquidare con un «tanto rumore per nulla».

Questa reazione a me pare molto più interessante, e preoccupante, dell'evento che l'ha prodotta. E' come uno squarcio di luce sull'Italia di oggi, divisa tra una destra impaurita e minacciosa, che chiede sempre più forza per chi ha vinto la partita elettorale e una sinistra nostalgica dei tempi andati (forse anche del patto tra produttori).



http://www.ilmanifesto.it/oggi/art3.html



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