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Educazione linguistica Italiano come lingua seconda
Educazione linguistica Italiano
Intercultura
L'invenzione della letteratura italiana e italoamericana

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione permanente, Formazione post diploma
Tipologia: Ipermedia

Abstract: Dove la religione fallì nel dare una coscienza etnico-nazionale italiana ai vari gruppi emigranti perché ognuno era ben radicato nelle celebrazioni di santi paesani; dove fallirono i movimenti che ora definiremmo di estrema sinistra (radicali, socialisti e anarchici) poiché, per forza di cose, dovevano attraversare nazionalità ed etnie e potevano attingere solo a immaginari ben più collettivi; dove fallì ancora il recupero nazionalista della politica tra le due guerre, a causa dello scontro frontale tra fascismo e resistenza che si propagò acerrimo anche in America; vi riesce la lingua italiana.

Religiosi e anticlericali; milanesi, toscani, napoletani e siciliani; operai, artigiani, professori, avvocati e politici; fascisti e antifascisti; tutti tentarono di presentarsi come i veri interpreti della dolce favella, i discendenti dei grandi poeti, la grande etnia della poesia italiana. Tutti imitarono le loro «invocazioni» e i loro ritmi, spesso facendone inevitabile scempio.

D'altronde chi potevano essere i primi a inventare la bella Italia, la dolce patria, se non i grandi poeti, i grandi esuli? Chi non ricorda Dante e Petrarca, ben prima di Mazzini e Garibaldi?

È mia ferma convinzione che l'ingrediente etnico più importante della letteratura scritta dagli immigrati italiani, il fattore che maggiormente costituisce l'elemento coagulante e non solo del sangue delle micro-etnie italiche, sia il concetto stesso di letteratura italiana. Il caso italiano è uno dei pochi esempi europei in cui la nascita o invenzione della lingua nazionale, in senso letterario anche se non letterale, e quindi di una letteratura nazionale, anticipa di qualche secolo quella dello stato nazionale.

Già nel 1698 Giovanni Maria Crescimbeni pubblica la prima edizione della sua Istoria della volgar poesia; nel 1723 Giacinto Gimma pubblica Idea della storia dell'Italia Letterata; tra il 1772 e il 1794 escono le due edizioni della Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. C'è perfino un francese Pierre-Louis Ginguené che con la sua Histoire littéraire d'Italie corregge molti ingiusti giudizi della critica francese. Il primo volume, che copre tutto il Medioevo e arriva fino al Quattrocento, esce nel 1811 - a Dante e alla Divina Commedia è dedicato quasi un intero volume. Dante, infatti, in Italia è il sommo poeta; in Europa questo «Homère des temps modernes» affascina Madame de Staël e molti altri intellettuali legati al suo circolo letterario; in America, Henry Wadsworth Longfellow, forse il poeta americano più amato dai propri compatrioti, traduce la Divina Commedia (1865-67) pochi decenni prima che arrivino i primi contingenti italiani.

Altre storie della letteratura saranno pubblicate mentre cominciano i primi movimenti politici che porteranno all'unificazione d'Italia, finché nel 1870, mentre Roma diventa capitale, Francesco De Sanctis termina il primo volume della sua Storia della letteratura italiana che, come tanti hanno rilevato, costituisce la perfetta sintesi dello storicismo e della filosofia romantica.

Se molti partirono veneti, torinesi, toscani, napoletani, calabresi o siciliani e si scoprirono italiani soltanto negli Stati Uniti, certamente coloro che partirono sapendo che cos'era la letteratura anche solo per sentito dire, anche solo per i certami poetici che si svolgevano in dialetto nei loro paesi, sicuramente non potevano non vantarsi dei grandi poeti italiani. Non importava aver letto Dante o Petrarca, bastava essere italiani. Non importava quale dialetto parlassero: la lingua italiana era la lingua del bel canto, non solo quello dell'opera lirica, e nessuno poteva contestarlo, nemmeno un americano «purosangue». Non importa se pochi immigrati italiani conoscevano direttamente i grandi poeti ed erano perfino in grado di tradurli in inglese, mentre la maggior parte che aveva frequentato scuole in Italia era influenzata più dai minori dell'Ottocento come spesso ha notato, tra il divertito e lo spazientito, Giuseppe Prezzolini. L'importante è ricordare che per tutti questi scrittori veri o presunti, la letteratura italiana è poesia, anche quando ci appare sotto forma di prosa, solo per il fatto che è la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio & Co. E la poesia, a quel tempo, non occorreva saperla leggere per conoscerla, bastava saper ascoltare chi la recitava. La poesia si imparava a memoria per il piacere di ripeterla e riascoltarla. Se a questo si aggiunge la ricaduta dell'effetto romanticismo sul rapporto tra poeta, poesia e vita è molto facile scoprirsi poeta, perché poeti si nasce, specialmente in Italia. E alla poesia non si è soliti applicare la geometria booleaniana e nemmeno le tavole della verità, nonostante sia proprio il poeta romantico a reclamare la verità in assoluto, sia quella della natura sia quella dei sentimenti.

Sicuramente la memoria e la vita degli immigrati italiani sembravano fatte apposta per produrre testi di sentimento, testi lirici. L'Italia non aveva una grande tradizione narrativa in prosa, i grandi romanzieri dell'Inghilterra, ma in America gli italiani impararono a trascrivere i fatti quotidiani che si erano sempre raccontati in Italia. Ora che le loro vite sembravano dei romanzi potevano raccontare autobiografie romanzate o romanzi autobiografici, dove spesso la prosa è intercalata con versi. La letteratura degli italiani ha spesso il ritmo del parlato, è una trascrizione del raccontare diretto al pubblico dei parenti e degli amici che stanno in circolo, di fronte al narratore. William Boelhower ha già parlato diffusamente delle tematiche e delle strutture di quelle autobiografie specialmente in Immigrant Autobiography in the United States (Venezia, Essedue Edizioni, 1982), e non ritengo utile aggiungere altro. Vorrei soltanto menzionare, a sostegno di quanto ho affermato fino ad ora, il caso esemplare di Virgilio Luciani4, un italoamericano del ritorno. Nato a Badia Pozzeveri (Lucca) il 19 ottobre 1896, andò in California per raggiungere il padre quand'era ancora un ragazzino ma ritornò subito dopo la Prima guerra mondiale. Autore di alcuni volumi di poesie in inglese e in italiano, danzatore, traduttore, e autore di Un italiano in America. Romanzo (Pescia, Tip. A. Benedetti, 1956)5. Non vi è certo tempo a sufficienza per parlare diffusamente del romanzo, ricco di informazioni sulla vita sociale e culturale di San Francisco all'inizio del secolo, quello che però mi preme far notare sono pochi tratti chiarificatori.

L'inizio del romanzo è preceduto da due citazioni: la prima del Tasso, «E tu la verità traggi dal fondo, / dov'è sommersa; e senza il velo ed ombra, / ignuda e bella agli occhi altrui la mostri»; l'altra di Keats, «Beauty is truth, truth beauty» - un verso diventato quasi il manifesto del secondo romanticismo.

Ambedue i poeti, uno italiano, l'altro inglese fanno quasi coincidere la verità con la bellezza, di qui il concetto romantico, cui si accennava in precedenza, che l'arte può trasformare in bellezza la verità, quindi anche la vita dell'emigrato.

Ma c'è di più, le due citazioni e l'inizio del romanzo sono separate, o meglio legate, da una pagina che contiene una «Nota dell'autore»: «Invito l'intera umanità a meditare sulle pagine di questo mio libro che presenta un'America vissuta anni or sono da un giovane idealista italiano in cruda sanguinante lotta con l'ambiente e il materialismo del nuovo mondo, senza peraltro disconoscere i valori positivi che pongono quel grande Paese all'avanguardla della storia contemporanea. È mio profondo desiderio che i lettori possano scoprire in questo lavoro l'essenza di un chiaro messaggio intriso di verità e di bene, e possano trarne i sensi più elevati per la mente e per il cuore». In questa breve nota introduttiva vediamo che Luciani, come tantissimi altri scrittori italoamericani, opera una fondamentale sostituzione: non abbiamo più verità e bellezza, ma verità e bene. Non è che la bellezza sia scomparsa, è semplicemente sottintesa, cioè posta sotto e in tensione. Infatti, senza il bene, come può essere bella la verità? Come potrebbe mai parlare al cuore?

Il toscano Virgilio, fin dalle prime pagine del suo romanzo, ci parla di Omero Danti - strano nome per un emigrato! - che curiosa per la nave che lo porta verso l'America: «Quei dialetti dell'alta Italia non li capiva affatto; fra quegli operai e quelle massaie, si sentiva ignorante: avrebbe voluto capire a volo tutte le conversazioni animate, quei modi di dire, fra i gesti meccanici delle mani e gli sguardi rapidi come scintille. Quando giunti a Napoli salirono i passeggeri della Campania, del Lazio, della Sicilia con sacchi e fagotti e valigie nuove e logore, e chitarre, mandolini, organetti, perfino flauti, i dialetti più canori risuonavano come una festa di colore e di gioiosa confusione. Omero sentì subito la poesia dei loro concerti improvvisati, a gruppi, seduti e in piedi, e quelle canzoni dalle fresche voci, spontanee e spavalde, che inneggiavano al cielo, al sole, alla luna, alle stelle, come un messaggio di dolcezza che presto avrebbe echeggiato nell'Atlantico» .

E dall'Atlantico avrebbe invaso l'America, potremmo aggiungere noi. L'albero genealogico dell'etnia italiana, letterariamente trapiantato su suolo americano, ricresce, quasi irriconoscibile ma rigoglioso, pullula tutto di vita: gridi, canti, trilli, sussurri, aneliti, fremiti, gemiti, armonie, singulti, palpiti, accordi e dissonanze, tra sogni, faville, rimembranze, nostalgie, rose e spine, viole e ortiche. Voci nell'ombra lanciano quei loro messaggi disperati, eppure pieni di speranza verso quelle luci lontane:

Le luci che si vedon vacillare,
leggiadramente piccole e lontane,
son come stelle sorte al limitare
di sterminate solitudi piane.


Brillano dolcemente in mezzo al velo
viola cupo della notte oscura,
sembran discese dall'immenso cielo
la cui infinita vastità impaura;


ignote e inaccessibili, fasciate
da un senso lieve di malinconia,
son come le chimere vagheggiate
inutilmente per l'eterna via.

È il ritmo cantilenante della lucchese Severina Magni che incastona frammenti della tradizione letteraria italiana nelle sue tele quotidiane per ricamarle in modo italoamericano. L'aulica poetic diction ottocentesca s'attenua in minuscoli trompe d'oreille, e quasi si dissolve nell'incantamento sussurrato delle ninne-nanne toscane d'un tempo. E che poesie sono quelle di Severina? Ce lo dice l'editrice nella presentazione del volume: «E difatti la bellezza sta in rapporto alla sofferenza che le esprime. Poesia semplice e buona, questa di Severina Magni, che ci è di gioia nel presente e di promessa nell'avvenire».

L'antologia che più rappresenta la tradizione in lingua italiana è An Anthology of Italian and Italo-American Poetry (Boston, Bruce Humphries, 1955) a cura di Rodolfo Pucelli. La tecnica utilizzata per organizzare l'antologia si può definire geniale, quasi inventa la nuova tradizione italiana, cioè quella italoamericana. L'antologia ci presenta i poeti in ordine alfabetlco e così, fianco a fianco, troviamo ad esempio, Alighieri Dante, Berloco Francesco, Certa Francesco, Carducci Giosuè, Codiferro Riccardo, D'Annunzio Gabriele, Giovannitti Arturo, Incalicchio Giuseppe, Leopardi Giacomo, Magni Severina, Maturanzo Salvatore, Negri Ada, Pascoli Giovanni, Petrarca Francesco, Pucelli Rodolfo, Saba Umberto, Stecchetti Lorenzo, e così via fino a Zamboni Armando. Mai era stata pubblicata un'antologia così democratica che contenesse una tale varietà poetica. Pucelli è tanto sicuro di quell'operazione economico-culturale da affermare nella prefazione all'antologia: «Si può fiduciosamente prevedere, però, che questa antologia unica nel suo genere sarà apprezzata e tenuta in ogni casa italoamericana onesta e istruita, come dono prezioso reso possibile dagli sforzi di uomini che hanno dedicato i loro anni migliori alla letteratura, alle lingue, alla critica, e al giornalismo».

Fa notare, poi, che non tutti i poeti italoamericani che avrebbe voluto includere sono rappresentati nell'antologia o perché non ha potuto raggiungerli, o perché non sono ancora abbastanza famosi, «mentre altri esitarono a inviare le loro poesie per tema che fosse chiesto loro di comprarne alcune copie» - cosa che avviene immancabilmente.

A soli tre anni di distanza gli fa eco, in Italia, Filippo Fichera nella sua «unica» storia della Letteratura Italoamericana (Milano, Editrice Convivio Letterario, 1958). All'inizio dell'esposizione, vengono chiaramente e definitivamente stabiliti ed estesi i canoni della teoria della letteratura italiana, e italoamericana: «La Poesia di una Nazione non va cercata soltanto nella Lingua, ma nei dialetti; e non dentro i limiti segnati dalle convenzioni diplomatiche, bensì in ogni luogo del mondo in cui si aggirano connazionali, e loro discendenti. Dove è un italiano, ivi è Italia».

Il lettore è sconcertato fin dall'inizio da «La Poesia» legata, con artificio grafico, la maiuscola iniziale, ad altri due sostantivi: Nazione e Lingua. Se la letteratura è subito scalzata dalla Poesia, la Lingua è di colpo contrastata dai dialetti. Come questi sono situati al di fuori dei confini della Lingua, ma reclamano il loro diritto di cittadinanza letteraria, così i «connazionali», che vivono al di fuori dei confini geografici, reclamano quella politica: «Dove è un italiano, ivi è Italia». Italia, luogo mitico al di là dello spazio e del tempo e della lingua, offre il nome alla Nazione per eccellenza, la Nazione della Poesia o Poetopia.

La proposta di una nazione al di là dei confini non è invenzione di Fichera, ma ora egli può ripresentarla a causa della nuova realtà venutasi repentinamente a creare dopo la Seconda guerra mondiale. Sono i mass media che permettono di abbattere confini precedentemente impensabili e, così, anche il villaggio italoamericano diventa globale: «La stampa e la radio, attraverso la loro opera quotidiana, additano al mondo nomi e opere di persone che nessuna Scuola aveva mai conosciuto; insospettati valori letterari ci si rivelano dai borghi più remoti, e dall'estero. I quotidiani autorevoli danno ospitalità alle lettere provinciali, che erano prima limitate alla indulgenza del bollettino campanilistico; e gli editori di primo piano non sdegnano di accogliere e lanciare al mondo la produzione letteraria regionale. Sotto l'uzzolo del gioco e del premio, la televisione attrae all'universalità del video eserciti di studiosi d'ogni ceto dal quale si vede che la cultura è un dono celeste largito agli uomini di buona volontà, senza preferenza di nascita, di censo, di età, di classe, e soprattutto si dimostra che l'italiano è portatore di Poesia. Dov'è Italia, ivi è Poesia. Questa innegabile verità bisogna ripeterla a gola piena, perché altri non dimentichi. In ogni luogo, nella città o nei campi, in patria o all'estero, l'italiano è sempre e soprattutto poeta. È necessario che gli italiani riconoscano questa loro insopprimibile nobiltà che ha espresso nei secoli le voci belle dell'Amore universale».

La poesia riproposta come oggetto etico sconfina nella realtà, e fa scoppiare una vera e propria rivoluzione. L'insorgere della periferia verso il centro, dei dialetti verso la lingua ufficiale, del popolo verso l'élite economico-politico-culturale non poteva essere espressa in modo più radicale in queste pagine iniziali di Fichera che assumono il ruolo di «Manifesto della letteratura-poesia italoamericana». Con l'aiuto terreno di giornali, radio e televisione, e con quello « celeste» che ha equamente dispensato il dono della poesia, specialmente tra gli italiani, è facile giungere «sinteticamente» alle giuste conclusioni, se «dove è un italiano, ivi è Italia» e «dove è Italia, ivi è Poesia». «Gli italiani, dicemmo, sono portatori di Poesia. Gli emigrati sono i più ardenti portatori di poesia. Vanno con la nostalgia che li divora in terra straniera, ed è la nostalgia il più potente lievito del loro ingegno; lo sprone assiduo della loro ansia di cantare... È la lontananza dalle persone care, nel mondo nuovo in cui si vive, fonte di perenne Poesia» (p. 6). Infine, Fichera attacca la stampa e la storiografia definendole «letteratura lacrimosa», e propone di celebrare i poeti invece di insistere sulla criminalità italoamericana di origine meridionale, e specialmente siciliana7. «Troppo si è sofisticato sulla cosiddetta "piaga dell'emigrazione", e troppa letteratura lacrimosa si è armeggiata intorno all'emigrazione del nostro popolo, senza mai rilevarne il volto migliore: la Poesia... Si decida invece la stampa italiana ad aprire gli occhi lieti sul fenomeno più chiaro, che tanto ci onora, ed esaltino la Poesia dell'Immigrazione. È tempo che i letterati d'Italia onorino il nome e l'opera dei fratelli d'America» .

Come è vero che tantissimi immigrati italiani provenienti dal Meridione e dalla Sicilia non hanno nulla in comune con la mafia e ogni altro tipo di criminalità, è pur vero che gran parte degli emigrati che hanno prodotto un qualche tipo di testo scritto in prosa o in versi non possono essere accusati di essere dei poeti. Non si può certo risolvere la questione meridionale, che tuttora esiste, gettando retorici allori alla memoria per alleviare i nostri sensi di colpa, e nemmeno continuando a fare poesia quando occorre serietà di azione politica. Nessuno può negare che gli italiani emigrati, non solo quelli d'America, siano stati e siano capaci di cose ben più grandi della poesia, imprese che i poeti difficilmente saranno in grado di narrare ai posteri con il tono giusto. Molto però è stato scritto in anni recenti, non in poesia e non tanto in loro difesa, ma nella «scarna» prosa della relazione scientifica e alla ricerca dell'obiettività, per quanto è possibile.

Non sempre la categoria «letteratura» può contenere gli scritti prodotti dall'emigrazione, a meno che non la si consideri come la totalità dei testi scritti e trascritti. Questo non significa, però, che molti di quei documenti non letterari e i loro autori non siano rispettabili, o che alcuni di quei testi letterari non debbano essere riconsiderati e inseriti a pieno titolo nella nostra storia della letteratura.

Con questo convegno di Losanna potrebbe essere giunto il tempo in cui «i letterati d'Italia onorino il nome e l'opera dei fratelli», non solo «d'America».

Note: Raffaele Cocchi Università di Bologna Fondazione Giovanni Agnelli
Altreitalie: saggi
http://www.fga.it/altreitalie/5_saggi1.htm


http://fuzzy.phpwebhosting.com/~igrbnet/igr/modules.php?name=News&file=article&sid=247



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