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I Centri di Permanenza Temporanea come nuove forme dell'istituzione totale. Drammatiche sofferenze psicologiche, privazione di diritti basilari, completo disorientamento. Parla l'etnopsichiatra Roberto Beneduce. Articolo.

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract: Nuove forme dell'istituzione totale. Per «alieni» Drammatiche sofferenze psicologiche, privazione di diritti basilari, completo disorientamento.
Parla l'etnopsichiatra Roberto Beneduce

CINZIA GUBBINI

Quei luoghi chiusi al pubblico, quei luoghi di un'ambigua reclusione per una categoria di persone - i «clandestini» - che sono i centri di permanenza temporanea (cpt), generano interrogativi sul «nostro» modo di risolvere e mediare i conflitti sociali generati dal fenomeno dell'immigrazione. E' emblematico come il dibattito pubblico abbia rinunciato a sondare i significati e le conseguenze del ripristino sul territorio di una struttura che per tanti versi rimanda a quelle che Erving Goffman definiva «istituzioni totali».

Ne parliamo con Roberto Beneduce, etnopsichiatra, è docente di Antropologia culturale presso la facoltà di Psicologia dell'Università di Torino. Beneduce è inoltre presidente dell'«Associazione interdisciplinare Frantz Fanon», che da anni si occupa - secondo una prospettiva medico-antropologica - di problematiche interculturali, di formazione degli operatori dei servizi (carceri, ospedali, ecc.), e di supporto psicologico ad immigrati, rifugiati e vittime della tortura.

Secondo lei per come sono strutturati i cpt oggi, esistono gli elementi per riconoscervi un' istituzione totale?

L'indecifrabilità di molte delle operazioni quotidiane o la difficoltà di comprendere il senso delle regole, la rigida gerarchizzazione dei ruoli, la non condivisione delle informazioni e delle decisioni, il dover rinunciare all'immagine abituale di sé, del proprio corpo - ai propri abiti, ad esempio, o a quell'insieme di piccoli oggetti in apparenza banali e tuttavia così necessari nel salvaguardare i confini del proprio mondo privato - il mancato accesso da parte della popolazione esterna allo svolgimento delle attività istituzionali dunque, l'impossibilità di valutarne il grado di legittimità o l'efficacia: queste alcune delle caratteristiche che, con grado ed espressioni diverse, possiamo riconoscere in non poche istituzioni totali.
In esse una riflessione critica sul dispositivo istituzionale è per definizione esclusa: le regole sono date come ovvie. La conseguenza, per chi si trova al loro interno è, indipendentemente dal livello di consapevolezza, un crescente senso di impotenza, di fragilità, di passivizzazione o di disorientamento.

Se questo vale per le istituzioni totali in genere, possiamo in via d'ipotesi immaginare che questi aspetti o almeno alcuni fra essi possano essere drammaticamente amplificati nel contesto dei centri di permanenza temporanea: anche dalla scarsa conoscenza della lingua e del contesto, dal senso di smarrimento, dall'incertezza sul proprio futuro e su quello dei propri familiari così frequentemente sperimentata da chi vive in condizioni di clandestinità. Sebbene non abbia mai visitato personalmente un cpt, non è difficile ipotizzare che sia alto il rischio di veder riprodotta la stessa logica delle istituzioni totali.

Le persone rinchiuse nei cpt vengono da un'esperienza di «clandestinità» e, all'interno del centro, aspettano il rimpatrio. Due situazioni incandescenti per l'equilibrio psicologico di una persona?

Ne aggiungerei ancora altre: la storia pre-migratoria con le sue minacce, le eventuali violenze subite, la povertà, la «violenza strutturale» di molti dei contesti da cui arrivano oggi gli immigrati variabile quest'ultima di cui tener conto, anche quando non si configura in perfetto accordo con le convenzioni internazionali che definiscono il diritto d'asilo. Non sorprende che talvolta, come è capitato anche a noi dell'Associazione Frantz Fanon, si sentono frasi come «se devo tornare, preferisco morire». Questo insieme di variabili è già stato oggetto di ricerche da parte dell'etnopsichiatria: e tutte documentano come presso i rifugiati e gli immigrati clandestini lo stress sperimentato nel paese ospite in relazione, ad esempio, all'ostilità diffusa e all'assenza di appropriate risposte assistenziali o terapeutiche contribuiscono in modo determinante ad accrescere la sofferenza psicologica.

Ha mai avuto in cura persone trattenute in un cpt, o che comunque avevano passato quella esperienza?

Un paziente che ebbi modo di incontrare alcuni anni or sono fu accompagnato dalle forze dell'ordine e dai sanitari. Era stato molto agitato, e la preoccupazione maggiore era la presenza di un elevato rischio di suicidio. L'incontro non fu facile, e già solo l'ingresso di così tanti membri delle forze dell'ordine in uno spazio sanitario aveva creato non poche difficoltà; dovetti negoziare a lungo per restare solo con lui. La sensazione forte fu quella di un animale braccato, che non conosce il perché di quello che gli accade, un animale in trappola che - come i suoi gesti autolesionistici avevano fatto pensare - poteva anche pensare al suicidio come ad una soluzione estrema. Quando dico che non conosceva le ragioni di quanto stesse accadendo non mi riferisco ovviamente a una dimensione meramente cognitiva, riguardante la consapevolezza delle leggi e delle procedure: penso ad una domanda più radicale, di giovani, donne e uomini che spesso, pur essendo perfettamente a conoscenza dei rischi ai quali vanno incontro, si trovano poi alle prese con un'angoscia paralizzante, con un dubbio sconfinato quando il loro progetto naufraga definitivamente: in queste circostanze aiutare una persona significa costruire una alleanza, un minimo di condivisione, ciò che rimane davvero difficile fare per i tempi con i quali l'ascolto e la cura sono spesso richiesti. L'alleanza alla quale penso può nascere d'altronde solo a partire da una discreta conoscenza delle vicende storiche, culturali e sociali dei contesti di provenienza. Bisogna aggiungere poi che molto spesso gli operatori si sentono «manipolati»: questi gesti autolesivi sono poi sinceri o volti solo a realizzare dei vantaggi? Eterna quanto inutile domanda. Seguendo Fanon e quello che diceva più di cinquant'anni fa, noi riconosciamo oggi un'analoga situazione: il ricorso alla violenza, all'autolesionismo, e perché no: persino all'inganno, indicano spesso l'impossibilità di ogni accesso alla parola, ad un rapporto simmetrico, e la consuetudine con una lunga storia di incertezza.

Sui cpt se ne sono dette tante, a partire dal loro ambiguo status giuridico. Poco, però, si è detto dei cpt come luoghi di violazione dei diritti umani. Lei cosa ne pensa?

La definizione stessa di «diritti umani» non è talvolta meno ambigua e controversa: in loro nome, paradossalmente, spesso vengono compiute altre violazioni. Tornando al nostro discorso, ritengo che devono essere garantiti alcuni principi elementari: fra questi l'accesso a chiunque voglia incontrare le persone che vi sono detenute; la possibilità di esigere che le cure eventualmente necessarie possano essere realizzate in strutture sanitarie alternative o con operatori scelti di propria iniziativa; ecc, ma l'elenco di quelle condizioni minime che rendono rispettosa dei diritti umani elementari un'istituzione è ancora lungo. L'emigrazione, non dimentichiamolo, nella stragrande maggioranza dei casi ha ragioni umane, quasi banali: vivere meglio, poter accedere ad un'esistenza senza paura, poter avere accesso a cure altrimenti impossibili (ciò che può significare anche scegliere fra la possibilità di vivere e la morte...). Queste ragioni, così banali e condivisibili, sono anche ragioni «irriducibili», nel senso che nessuna legge impedirà mai ad una persona di provare a realizzare questi progetti.

Ciò è tanto più vero in un mondo dove la consapevolezza che esistono disuguaglianze notevoli quanto inaccettabili e differenze enormi nell'accesso alle risorse è ormai comune. Tutto questo mi spinge a pensare che, anche quando «clandestina», l'emigrazione non dovrebbe essere trattata alla stregua di un reato, e che sia urgente giungere ad una profonda riformulazione della legislazione europea.

Anche se è difficile da dimostrare, visto che il controllo in uscita delle informazioni dai cpt è strettissimo, diverse testimonianze raccontano di un abuso di psicofarmaci all'interno dei cpt. La cosa la stupisce?

Come ho precisato all'inizio, non ho informazioni di prima mano, ma da quanto detto sino ad ora, non mi sorprenderebbe che, considerato il grado elevato di ansie, di angoscia, di incertezza, di tensione che possono caratterizzare la vita delle persone, si possa anche far uso di psicofarmaci. Anche laddove si riconoscesse che sono gli stessi immigrati a farne esplicita richiesta, il problema non sarebbe per questo risolto: bisognerebbe piuttosto interrogarsi sulle ragioni che determinano l'insorgenza o la riproduzione di questi sintomi - se sono state subite violenze nel paese d'origine, ad esempio, un contesto che non garantisce diritti potrebbe «ripetere» quelle esperienze e generare nuove ansie - e bisognerebbe allo stesso modo interrogare la domanda stessa di psicofarmaci: per evitare il rischio di far coincidere la cura della sofferenza con il suo occultamento.



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