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Storia
Filosofia
"Progresso e catastrofe" - In due parole tutto il Novecento Recensione al testo di Salvatore Natoli di UMBERTO GALIMBERTI

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Materiale di studio

Abstract: UMBERTO GALIMBERTI

In due parole tutto il Novecento
Recensione

Salvatore Natoli, "Progresso e catastrofe", Christian Marinotti edizioni, Milano, 1999, pagg. 252, lire 33.000


Troppi sono i presagi, gli auspici, le profezie alle soglie del terzo millennio, poche le riflessioni che ci indicano in che luogo ci troviamo ora che il tempo, almeno numericamente, ma io penso anche realmente, ricomincia da zero, per cui inevitabili sorgono le domande che chiedono: che cosa davvero finisce, da dove stiamo uscendo, e dove stiamo entrando. Sono domande che incalzanti percorrono il libro di Salvatore Natoli, Progresso e catastrofe (Christian Marinotti edizioni, Milano, 1999, pagg. 252, lire 33.000). Le due parole che compongono il titolo entrano subito tra loro in corto circuito. Progresso infatti è stata la bandiera della modernità che ha caratterizzato la seconda metà del millennio che ora si chiude, quando la speranza in una salvezza trascendente è stata abbandonata a vantaggio dell'autoaffermazione dell'uomo sulla terra. Catastrofe allude alla fine di questo progetto e quindi a un cambiamento di direzione, senza che questo debba comportare un eccessivo allarmismo. Come ci ricorda Natoli, infatti, "catastrofe" non è solo sinonimo di "disastro", etimologicamente infatti la parola significa "rovesciamento". In entrambi i casi una "fine", ma anche un "nuovo inizio", o per lo meno l'acquisizione di una diversa prospettiva sul mondo. Non più la prospettiva che ha percorso la seconda metà del secondo millennio, che era di poter dare una direzione alla storia sotto il segno del "progresso", ma quella più incerta, meno garantita, più imprecisa che chiede all'uomo di attrezzarsi per dominare il caso, quindi di portarsi all'altezza dell'imprevedibile, ora che siamo entrati nell'età della tecnica dove la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere. Ma tra pochi giorni non si chiude solo il secondo millennio, caratterizzato nella prima metà dal consolidamento e dalla massima diffusione della fede cristiana, e nella seconda metà dall'autoaffermazione dell'uomo sulla terra sotto il segno del "progresso", tra pochi giorni si chiude anche il nostro secolo, il Novecento, che più di ogni altro ha coniugato insieme "progresso" e "catastrofe" ponendo drammaticamente sul tavolo la questione se è ipotizzabile una ripresa del progresso oltre la catastrofe, o se la catastrofe ha definitivamente smascherato le illusioni del progresso, o svelato il progresso stesso come illusione. Il Novecento è stato il secolo di Auschwitz che ha chiuso bruscamente il progetto della modernità che si proponeva l'emancipazione dell'uomo. Dopo Auschwitz, il Novecento ha inaugurato una sperimentazione dell'uomo sull'uomo, come mai s'era visto nella storia precedente, per cui non è detto che Auschwitz sia il peggio. In fondo, da allora la guerra non è mai finita, se è vero che nella seconda metà del nostro secolo non abbiamo trovato parola migliore per nominare la pace se non chiamandola "guerra fredda". Questa "pace armata", sperimentata nell'emisfero nord-occidentale, non ha impedito alla guerra di proseguire in periferia in conflitti locali terribilmente atroci e per giunta divenuti endemici, per cui vien da chiedersi: che fine ha fatto il cosmopolitismo che l'età moderna aveva elevato a suo ideale e Kant indicato nella "pace perpetua"? Per "cosmopolitismo" non dobbiamo intendere la "globalizzazione", perché questa è solo l'avamposto del totalitarismo della tecnica, a proposito del quale il totalitarismo politico, scrive Günther Anders in Noi figli di Eichmann (editrice La Giuntina, Firenze): "È solo un fenomeno secondario, una prova in un teatro di provincia di quello che oggi tende a essere messo in scena nel mondo, senza neppure il bisogno di appoggiarsi a tramontate ideologie". Se il Novecento ha coniugato insieme progresso e catastrofe, Auschwitz e Welfare, quindi il massimo orrore e il massimo innalzamento delle condizioni di vita come mai nella storia si era assistito, la miglior riflessione che si può fare alle soglie del terzo millennio è quella di capire da dove veniamo: quindi qual è il senso del "progresso" che la modernità ha ideato e dove andiamo: quindi qual è il senso della "catastrofe" nel duplice senso di "disastro" della modernità e di "rovesciamento" delle prospettive, dopo che ci siamo congedati dall'idea di "progresso" per essere semplicemente travolti dalla corrente dello "sviluppo". La figura del "progresso" caratterizza la modernità rispetto al cristianesimo che la precede e contro cui nasce. Il processo a Galileo, in cui scienza e religione entrano in conflitto, non è tanto un errore che gli uomini di religione possono liquidare riconoscendolo o riconoscendosi colpevoli. Rubricarlo come "errore" significa non capire nulla della storia che nel secolo di Galileo prende congedo dalla visione cristiana del mondo, per inaugurare la visione moderna come possibilità di un illimitato progredire. Per il cristianesimo, infatti, il senso del mondo non sta nel suo progresso, bensì nell'ineluttabilità della sua fine. Come scrive incisivamente Natoli: "Per il cristianesimo la pienezza dei tempi coincide con la fine del mondo, non con il suo illimitato progredire. Qui scorgiamo una cesura non piccola che fa sì che il moderno si distingua nettamente dai secoli cristiani, per quanto ne resti per lungo tempo implicato". Analoga cesura, assistiamo nel nostro secolo tra il moderno e quel senza-nome che oggi inadeguatamente chiamiamo "post-moderno", e che più opportunamente Natoli chiama: "dinamica catastrofica", dovuta al fatto che l'avanzamento senza limiti, e a mio parere anche senza finalità, innesca processi autodistruttivi, contro-finalità non facilmente controllabili. È il caso della tecnica che non progetta alcun avvenire anche se di fatto lo prepara. Il moderno infatti ha ampliato molto la libertà di fare, ma ha ridotto anche molto l'autonomia del decidere e la possibilità di governare. E questo perché nell'età della tecnica il potere ha abbandonato la politica (che Platone definiva "tecnica regia" perché assegnava alle tecniche che "sanno fare" le finalità per cui era opportuno facessero quello che sapevano fare), per trasferirsi nell' ambito del sapere tecnico, realizzando così la profezia enunciata da Bacone all'alba della modernità: scientia est potentia. Oggi il vero potere è passato a quelli che sanno, ai competenti, per cui il potere s'è fatto anonimo, tanto pervasivo quanto invisibile. Ma se i competenti preparano l'avvenire non è di loro competenza governarlo. Ed è qui che il progresso si volge in catastrofe. Una catastrofe caratterizzata da un universo sovrabbondante di mezzi a nostra disposizione, senza la più pallida idea di una finalità, nei confronti della quale la tecnica si dichiara incompetente, perché non riconosce altra finalità che non sia il proprio potenziamento. Alle soglie del terzo millennio viviamo l'esperienza della fine della modernità come un'esperienza contraddittoria caratterizzata da due tonalità affettive che Natoli così descrive: 1. L'accelerazione, perfino banalmente trionfalistica, di fronte ai successi della tecnica; 2. L'accelerazione pessimistica per cui il meglio è passato, tutto è definalizzato, non resta che dispersione e mancanza di senso. Una tonalità affettiva fa da spalla all'altra, e reciprocamente si potenziano verso quello sfondo nichilistico per cui gli ottimisti vivono a vuoto nella rincorsa affannosa dei prodotti che il progresso tecnico quotidianamente fornisce, i pessimisti patiscono il vuoto del vivere che nessun nuovo prodotto tecnico satura. Qui scienza e tecnica, che la modernità aveva pensato come liberatrici per eccellenza, incominciano a suscitare quelle nuove paure che tutti noi avvertiamo come "sentimento di vigilia". Il progresso dell'umanità che la modernità, emancipandosi dalla fede cristiana, aveva ipotizzato, si è rivelato non un progresso dell'uomo, ma solo un progresso delle sue conoscenze, per il resto l'uomo non ha più alcun fine, la natura è ridotta a materia prima, il mondo appare come uno spietato campo di battaglia, la pietà ha abbandonato la terra. L'esatto contrario di quello che la modernità aveva immaginato. Il carattere afinalistico assunto dalla storia nel nostro tempo non impedisce agli uomini di eleggere dei fini, ma questi restano indefiniti e tra loro molto diversificati. Il mondo non è più sintetizzabile, e perciò l'uomo contemporaneo è chiamato a dominare il caso in un regime di incertezza. Ma per paradossale che possa sembrare, questa è proprio la condizione dello scienziato abituato a vivere con il dubbio e l'incertezza, lasciando aperta la porta all'ignoto, nella continua ammissione di non sapere esattamente come stanno le cose. La pratica tecnico-scientifica esprime dunque la verità del nostro tempo. Noi l'abbiamo mitizzata per i successi, invece dovremmo interiorizzare la condotta e la forma mentis dello scienziato che ha più familiarità con l'ignoto che con il noto, perché la mole dell'informazione è indomabile e la complessità, se ha il vantaggio di essere aperta, ha lo svantaggio di non essere sintetizzabile. Nasce da qui la proposta di Salvatore Natoli di un'"etica del finito" che sento molto vicina a quella che nel mio ultimo libro Psiche e Techne (Feltrinelli 1999) avevo indicato come "etica del viandante". Il concetto sotteso all'una e all'altra non è: "vivere alla giornata", ma: "dominare la contingenza", "fronteggiare il caso". Il futuro di oggi, infatti, non è più quello "lontano" della religione dove alla fine si realizza quello che all'inizio era stato annunciato, e neppure quello "utopico" della modernità alimentato da quell'idea di progresso che era insieme riscatto dell'umanità, ma è il futuro del giorno dopo, un futuro breve e indeterminato. Questo è il futuro del terzo millennio che, ci piaccia o no, è comunque necessario saper anticipare per poterlo abitare.

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/991224.htm



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