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"Le Manifestazioni della paura"  - "Si può credere che la paura sia solo un vissuto sgradevole o angosciante che colpisce individualmente le persone: ogni essere umano ha provato sensazioni di spavento e di allarme come fattori puramente personali. Tuttavia è possibile che ogni forma sociale o collettiva abbia al proprio interno alcuni tratti comuni a tutti i soggetti che vi appartengono"



Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:
"Si può credere che la paura sia solo un vissuto sgradevole o angosciante che colpisce individualmente le persone: ogni essere umano ha provato sensazioni di spavento e di allarme come fattori puramente personali. Tuttavia è possibile che ogni forma sociale o collettiva abbia al proprio interno alcuni tratti comuni a tutti i soggetti che vi appartengono"

 

a) Motivi comuni della paura collettiva

Ogni civiltà potrebbe essere contraddistinta dal tipo di pericoli che teme e da cui tenta di difendersi. Si pensi, ad esempio, alle caratteristiche territoriali di uno stato. Se la presenza di un deserto, oppure di una catena montuosa, o l'abbondanza delle acque, costituiscono un tratto notevole del territorio occupato da una comunità umana, sarà facile capire quali abitudini e quali precauzioni indicano il modo migliore di sopravvivere in quel territorio.
Se nella città di Marrakesh, nel mese di agosto la temperatura raggiungesse i 50°, o se nella pianura del Gange i monsoni producessero una pioggia calda continua per mesi, oppure se la luminosità solare a Helsinki durante la stagione invernale durasse poche ore al giorno, tutti questi fenomeni potrebbero apparire normali nei territori specificati ma sembrerebbero condizioni estremamente inconsuete in altre zone geografiche.
Le caratteristiche territoriali indicano quello che potremmo definire l'identità comune di una zona. Si possono conoscere e utilizzare le risorse che costituiscono l'identità comune (questo è uno dei motivi del valore della cultura), ma anche le paure che possono insorgere vanno considerate come un aspetto del patrimonio comune. Ogni volta che si presenta un fenomeno nuovo o inatteso può sembrare che l'identità territoriale sia minacciata. Basti pensare a un fenomeno meteorologico inatteso. Un'alluvione può alterare completamente un territorio, distruggendo case, scuole, ospedali, campi coltivati, animali, ecc.. Ciò che prima appariva come un luogo protetto, diviene allora un luogo infido. Si pensi che in Piemonte esiste un paesino vicino agli argini del fiume Po che, dopo essere stato fortemente colpito da un'alluvione, è stato ricostruito su un appezzamento di terreno vicino ma più protetto; al paese è stato dato il nuovo nome: Alluvioni Cambiò!

La cultura ha un aspetto che potremmo definire conservatore: ciò che si intende come patrimonio comune non può essere alterato e solo l'accettazione collettiva o "ufficiale" di un cambiamento diviene a sua volta una nozione appresa da conservare (si pensi ad una carta geografica: la segnalazione di una strada, l'altezza di una montagna, ecc., indicano a chiunque un dato da tenere per vero!).

Finché si parla di mari, di venti o di boschi, ci sembra abbastanza comprensibile che esistano paure comuni: un tuono o un lampo, l'alta marea o il mare agitato, una slavina o un temporale nel bosco, un animale selvatico che si insinua in un luogo abitato, e basta un po' di attenzione per allungare indefinitamente la lista... Ma quando proviamo a pensare in termini un po' meno materiali, ci sembra molto più difficile stabilire dei motivi comuni della paura.

Uno dei metodi utilizzati per spiegare comportamenti umani non collegabili solo a eventi naturali e territoriali è l'antropologia (il termine deriva dal greco: "anthropos"= uomo e "logos"= parola, ragione) che cerca di individuare dei criteri razionali e di decifrare la logica dei comportamenti apparentemente inspiegabili dell'uomo, soprattutto nei suoi rapporti collettivi.
Si sono studiate popolazioni che ai nostri occhi appaiono "primitive", per capire strani rituali. Ad esempio, il fatto che gli adolescenti maschi tenuti in isolamento dalla comunità vengano spaventati prima che si compiano le prove di passaggio allo stato adulto indica, agli occhi della comunità, un passaggio sottolineato come superamento della paura, equivalente al superamento di una pericolosa difficoltà. Le femmine che hanno il ciclo mestruale in corso vengono tenute lontane dalla comunità e si offre loro il cibo con un vassoio sostenuto da un lungo bastone, perché non ci possa essere un contatto fisico. Ciò sottolinea la paura di una contaminazione dovuta alla presenza del flusso sanguigno. Questi esempi evidenziano che alcuni cambiamenti corporei naturali vengono ritenuti segnali significativi dal gruppo sociale a cui si appartiene. Anche in gruppi sociali più civili e più recenti si osservano dei comportamenti non immediatamente comprensibili. In Sardegna, ad esempio, il furto di ovini era un fenomeno piuttosto frequente. Il furto avveniva di notte ed era segnalato dal ladro in modo molto particolare: al derubato dovevano essere lasciati dei sassi in cambio delle pecore che erano state sottratte. E' evidente che questo rito significa uno scambio, sicuramente svantaggioso sul piano pratico, ma molto significativo sul piano simbolico (vedi V.Loriga : "L'angelo e l'animale", R.Cortina, Milano,1990). Lasciare qualche cosa in cambio segnala una specie di mediazione con l'altro: si pensi, banalmente, al significato del dono. Anche dal punto di vista psicologico entrano in gioco ragioni e teorie non sempre evidenti. Osserviamo il problema della paura secondo una prospettiva sociale.

Il gruppo si definisce come un insieme omogeneo i cui membri condividono alcuni tratti salienti. Rispetto alle caratteristiche dei singoli individui, il gruppo può rappresentare in modo abbastanza forte una posizione ideale, o un potere decisionale, o una solida difesa, ecc.. La divisa di un gruppo può indicare le potenzialità di un soggetto che vi appartiene (nel caso di uno sport, per esempio, il fatto di indossare un modello di scarpe o uno judogi, segnala la potenza legata all'uso degli arti inferiori, oppure una certa disciplina nel combattimento corpo a corpo). Il gruppo può avere l'effetto di mostrare in pubblico una presunta identità comune, può rappresentare un canone difensivo, può indicare un elemento progettuale, può essere un segnale di conservazione o anche di trasgressione. In ogni caso, finché si presenta come un insieme compatto, può costituire un'armatura di difesa contro un oggetto che genera paura. Ma anche un modo per condividere la paura e renderla cosa pubblica.
Anche chi appartiene al gruppo, però, è raro che vi si rispecchi pienamente. Per esempio, può provare incertezza sulla propria appartenenza, oppure la gerarchia gli può sembrare molto autoritaria (o poco autorevole), oppure sente il bisogno di nascondere le proprie differenze agli occhi dell'insieme della collettività di riferimento. A scuola, nel gruppo-classe, una votazione alta può fare in modo che l'alunno si senta molto valutato dall'insegnante ma molto lontano dal livello comune dei suoi compagni. Dunque diviene diverso. Il che ha significati specifici per un compagno di classe, per un insegnante, per un genitore. In altre parole, il vissuto dell'individuo può differenziarsi a seconda dei gruppi di riferimento cui appartiene.

Secondo un'ottica evolutiva del soggetto, le paure dell'individuo seguono un ritmo legato allo sviluppo fisico e psicologico. Per questo le età sono valutate come una scala che va dalla nascita all'età adulta, come se fosse possibile tracciare una linea di continuità. In realtà la linea è molto complessa. Ricordiamo semplicemente un testo classico di René A.Spitz, "Il primo anno di vita del bambino" (Giunti & Barbèra, Firenze,1962). Questo evidenzia che la paura dell'estraneo o i primi segnali di angoscia sono fattori costitutivi comuni dello sviluppo fin dalla prima infanzia. Queste paure indicano che il bambino sta attraversando un passaggio dallo stato di confusione con la figura materna a un altro, intuito o fantasticato come "pericolosamente diverso" da "noi". Per questo il piccolo sembra aggrapparsi al genitore come se questo fosse il suo difensore.
Le considerazioni di carattere psicanalitico saranno affrontate nelle sezioni più specifiche. Per ora, basti ricordare alcune idee interessanti sul senso del collettivo: secondo la teoria di Freud il collettivo comprende sia un carattere di istituzione e di legge che un carattere infantile e di trasgressione. Ci sarebbe, inoltre, una stretta relazione fra famiglia e gruppo sociale (vedi, ad esempio, "Totem e Tabù", "Psicologia delle masse e analisi dell'Io", "Il disagio della civiltà", ecc.). Secondo Jacques Lacan l'elemento collettivo più importante è il linguaggio, strumento di scambio e veicolo della legge.
Per Melanie Klein la struttura portante del soggetto è già presente, prima ancora che ci possa essere coscienza. Ma tutto il dispositivo familiare che ritroviamo nel sociale rispecchierebbe un rapporto tra contenitore e contenuto.
Anche gli studi di Franco Fornari portarono a considerare la struttura della psiche da un punto di vista collettivo: Corpo, Madre, Padre, Bambino, Sesso, Vita, Morte, ecc., sarebbero le lettere di un alfabeto affettivo, gli ingredienti comuni a tutti gli esseri umani, incrociati fra di loro secondo combinazioni di stato e di età diversi.
La ricerca junghiana ha un carattere culturale collettivo molto approfondito sulla ricerca del senso di ogni produzione umana: ogni produzione culturale non sarebbe che una produzione di una psiche complessa.

Rimaniamo per ora a questi presupposti di carattere generale:
· la paura non è un elemento che si possa definire "patologico"
· la paura può essere condivisa come fattore comune ad altri
· l'evitare il pericolo è un modo di guardare all'esterno con cautela
· la conoscenza è un elemento costruttivo in stretta relazione con la paura
· la nominazione della paura la rende limitata.

 

b) I principi morali come mezzi per controllare la paura

Quando una comunità si è data una stabilità territoriale e possiede una serie d'attività costanti, inizia a tramandare le proprie conoscenze da una generazione all'altra. Allora diviene necessario stabilire dei codici di comunicazione. Gli elementi di base sono soprattutto opposizioni: bene-male, consentito-proibito, giusto-sbagliato, vero-falso, ecc.
Così, per esempio, può essere considerato giusto non alimentarsi con carne suina, può essere una buona scelta avere due mogli, può essere considerato giusto non esporsi allo sguardo di estranei, può essere proibito rappresentare il volto umano, anche tramite la fotografia.
Tutto questo appare strano, ingiusto e sbagliato, agli occhi di un gruppo sociale che utilizza opposizioni di tipo diverso. In sostanza tutti i codici di comportamento e di comunicazione riflettono giudizi e abitudini che tengono conto di fattori molto limitati.
Se ci riferiamo a culture e a società molto diverse dalla nostra è abbastanza facile che si sia portati a pensare che il nostro comportamento è corretto, mentre quello di altri è sbagliato, primitivo, incivile, ingiusto, crudele, antieconomico… Il trattamento delle donne nei paesi integralisti islamici è completamente immorale e inaccettabile, alla luce di un ideale democratico dei diritti umani nel nostro secolo. La povertà che dilaga nei paesi sudamericani sviluppa vari tipi di mercificazione (dalla prostituzione di ogni tipo al commercio degli organi da trapianto, ecc.) e la desertificazione di vaste zone dell'Africa rende la sopravvivenza di molte migliaia di persone quasi impossibile. La sovrappopolazione in India o in Cina hanno posto, invece, problemi di contenimento del numero di gravidanze e diffusione delle pratiche anticoncezionali e di sterilizzazione.
Curiosamente, noi occidentali, apparentemente molto laici e scientifici, abbiamo dimostrato un certo imbarazzo morale rispetto a questi problemi. Ciò significa che ci è molto facile indicare ciò che è giusto o sbagliato, consentito o proibito, vero o falso, secondo i principi comuni che chiamiamo la nostra morale (il termine deriva dal latino "mos, moris" che significa costume, abitudine). I ragionamenti e le idee che consideriamo principi di giustizia o criteri scientifici, invece, non sono né giusti, né propriamente scientifici: infatti, la giustizia ha un campo fortemente influenzato dalla morale, così come le scienze hanno oggetti di studio e linguaggi che ci sono quasi completamente oscuri. Ci è facile condannare un furto o un omicidio, ma, come occidentali, non consideriamo la pena di morte come accettabile. Tuttavia alcuni occidentali la applicano. Ci sembra di poter affermare che la "depressione" è il male psicologico del secolo, ma non c'è chiaro il funzionamento dei neurotrasmettitori cerebrali.
Parlare di famiglia, di figli, di lavoro, di giustizia, di scienza, d'arte, di pensiero, d'erotismo, di sentimenti, sembra che ci possa dare una coscienza definitiva di come stanno le cose. La morale contemporanea appare come una struttura complessa che dà molte soluzioni apparentemente definitive.
 

 

c) Religione e superstizione come contenitori della paura

Fra le idee umane ineliminabili sta l'idea della potenza sovrumana. Se consideriamo l'arte rupestre distribuita su tutta la terra, osserviamo soprattutto la forte presenza degli animali nelle grotte.
Da una sporgenza all'interno della caverna può scaturire il capo branco di una mandria selvaggia. Immergersi in questo scenario immaginario costituisce una suggestione meravigliosa, perché non si può resistere alla potenza della rappresentazione di questo "altro" che ci scuote. Eppure è l'essere umano ad averlo tracciato e dipinto. E' come sostenere che l'arte esiste da almeno 40.000 anni (vedi il catalogo della mostra "40.000 anni d'arte contemporanea - materiali per un'esposizione sull'arte preistorica d'Europa", settembre-ottobre 2000).
Ma, oltre alle figure d'animali, osserviamo anche piccoli gruppi organizzati per la caccia, immagini d'utensili per l'agricoltura e figure umane tridimensionali di donne gravide, le "Veneri". Si ha l'impressione che le donne siano le prime rappresentazioni evolute del divino; mostrano grandi ventri e grandi seni come segnali chiari che nel corpo sta avvenendo una trasformazione. La gravidanza è il primo grande evento magico che testimonia la prima importante differenza di genere fra maschio e femmina. La nascita e l'accudimento del bambino, la crescita e i cambiamenti del suo corpo lo condurranno all'evoluzione verso l'identità adulta. E' la madre l'essere magico che produce tale evento!

 

Sia fra i reperti preistorici, sia nelle prime civiltà antiche, sia nelle opere espressive degli aborigeni è possibile trovare rappresentazioni di un elemento naturale come se fosse una divinità. Si pensi alle rappresentazioni del sole, della luna, delle acque, ecc., come punti di definizione del territorio e come elementi ordinatori delle attività umane.
In questo senso potremmo dire che la superpotenza divina è rappresentata prima di tutto dalla natura. Gli elementi - terra, aria, acqua, fuoco, metallo - diventeranno poi dei modi per catalogare il mondo.

La grande geometria e l'astrologia hanno lasciato tracce nel Rajastan indiano o sulle coste sabbiose d'Egitto. La sacralità del Nilo non è meno intensa della sacralità del Gange, i monasteri buddisti si trovano sulle sommità dei monti del Tibet, i più alti del mondo. Sono gli stessi elementi della natura a diventare per la mente umana la dimensione che si scrive con la lettera maiuscola. Nella Natura l'uomo può intervenire piuttosto limitatamente, tanto che gli è difficile comprendere quanto essa sia buona o cattiva.
Per le religioni giudaico-cristiane il corpo - che è l'aspetto più evidentemente naturale dell'uomo - viene considerato come un elemento da sminuire o da castigare; il tutto a favore di un'organizzazione sociale, militare o commerciale. Il corpo è il luogo principale della mancanza o del "peccato", la nascita è un dono divino, la conversione è una riparazione dell'errore. La verità si collocherebbe in uno stato interiore di difficile conquista, oppure in un "dono" che è chiamato fede.
Per le religioni induiste, invece, la divinità - il Brahaman - è un'unità con tre aspetti (ciò che noi chiamiamo trinità), Brahama, Shiva e Višnu che rappresentano la creazione, la conservazione e la distruzione. In questo senso c'è un modo di concepire tutti gli eventi in un'unità che va oltre la morale umana. Ricordo che un indovino induista, più di vent'anni fa, guardandomi la fronte e le mani, mi chiese come mai non avevo un dio. Mi fece notare che la mia testa aveva pensato troppo e che sarebbe stato meglio scegliere un dio; me ne elencò molti, fra questi anche il Buddha e Gesù Cristo, invitandomi a sceglierne qualcuno. Fui stupito dell'assoluta tranquillità con cui quest'uomo mi "fotografò l'anima" e della grande capacità di darmi dei consigli dopo quella che io chiamerei oggi una "psicodiagnosi". Colsi la sua totale mancanza di paura nell'affrontare la coscienza dei limiti umani, né mi parve che facesse minimamente cenno a quei fattori magici o irrazionali che noi chiamiamo superstizioni.
Certo la nostra religione invita a un grande intimismo con la divinità. Per noi è il rapporto con Dio a sintetizzare il senso della vita. In verità, è spesso difficile non farsi assalire dall'orrore della mancanza di senso e affidarsi a un modo di sentire intimo e collettivo che comporti un superamento dei nostri limiti. Forse queste difficoltà possono aiutarci a capire il senso di aiuto che può derivare quello strano fenomeno che è la superstizione. Attribuiamo ad alcuni oggetti un senso di protezione o di auspicio. In alcuni casi siamo tranquillizzati dal fatto di compiere dei gesti o dei rituali di riparazione o di prevenzione. Nel complesso, possiamo provare un sollievo dalle minacce che formano le nostre paure di base (vita, morte, erotismo, denaro, lavoro, studio, ecc.), grazie al fatto che la nostra ansia irrazionale viene spostata su "esercizi" di ordine pratico e materiale che non avrebbero in sé alcun significato: fare un certo numero di salti, gettare il sale alle proprie spalle, non passare sotto una scala a pioli, portarsi in tasca degli amuleti, non partire in certi giorni della settimana e … chi più ne ha più ne metta.

Sommario

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

d) Gradi di paura e gerarchia delle paure

Se esistesse un essere umano adulto completamente privo di paura, lo potremmo ritenere in grado di giudicare la scala delle paure, dalla più terribile e implacabile, alla più tenue e sopportabile. In realtà, non c'è uomo privo di paura. Anzi, dovremmo provare a considerare la paura come un ingrediente importante nella struttura dell'essere umano. Tuttavia è d'uso comune pronunciare la parola "fobia" per dare un'etichetta diagnostica alla paura ingiustificata. Come se si ritenesse che ci sono alcune paure comprensibili ed altre assolutamente non condivisibili.
Secondo il senso comune, chi ha attraversato delle difficoltà e ha potuto costatare che gli eventi si ripetono con una certa regolarità e sono perciò prevedibili, tende a vedere la paura dell'altro come un fenomeno normale. I processi di crescita, per esempio, possono essere considerati dei momenti di trasformazione difficili per gli interessati ma vengono visti come normali dagli estranei. Lo sviluppo di un adolescente implica un cambiamento netto delle proporzioni corporee, un aumento delle dimensioni dei genitali, la comparsa dei peli, la crescita del seno e l'inizio delle mestruazioni per una ragazza; tutto ciò è accompagnato da manifestazioni evidentemente antiestetiche: si pensi alle sproporzioni della struttura corporea, all'alterazione della voce, agli odori del corpo, all'acne diffusa, nonché all'instabilità dell'umore e alla conflittualità con le figure familiari. Se siamo cresciuti a sufficienza, ci potrà far sorridere il fatto che un giovane cerchi di darsi un tono di voce adulto, mentre un acuto stridulo rovina la sua messa in scena; ci farà tenerezza vedere una ragazza che sembra un po' gobba o che porta dei maglioni di tre taglie più grandi per nascondere un seno che le sembra ingombrante.
Si può dire che ciascuno di noi tende a vedere la paura del proprio simile con più facilità, se si pone un po' come un superman senza paura. Stranamente, è più facile stare in questa posizione quando i ruoli sono molto chiari e definiti. Se, ad esempio, sono il padre di un figlio in crescita, mi risulterà semplice intendere il suo malumore o la sua aggressività come un momento di passaggio a una posizione più adulta che implica dei momenti difficili. Se fossi trattato in modo altrettanto aggressivo da uno sconosciuto della mia età, questo potrebbe muovermi in modo molto diverso: potrei rispondere altrettanto aggressivamente, potrei pensare che è molto più forte di me e mi potrebbe fare male, potrei pensare che l'ho offeso o infastidito per qualche cosa di cui non mi rendo neanche conto, potrei pensare che è una persona molto autorevole che mi sta movendo un rimprovero, oppure che è un poveraccio …Se la paura che esprime un bambino è la paura del buio o la paura del personaggio di una favola, un fantasma o un mutante, il pensiero che interviene più comunemente in un adulto è del tipo: "Sono le paure di un bambino". Da psicoanalista interpreto questo pensiero traducendolo con queste parole: "Non ci capisco niente ma so che gli passerà. Io non ho queste paure, non sono così". Solo che l'adulto è stupito e, a volte, preoccupato, perché sembra che la ragione non basti a rendere conto di ogni fenomeno psichico!
Suggerirei allora di considerare i gradi di paura come una rete generica di collocazione di alcune notizie possibili. L'età dell'individuo, la sua provenienza familiare, il suo status sociale, il rapporto con l'esterno, il successo e/o l'insuccesso nelle proprie prestazioni, l'originalità e/o la banalità delle espressioni personali rivolte all'esterno. Direi che ognuna di queste catalogazioni deve essere vista come un modo molto relativo di inquadrare il problema, perché, dal punto di vista metodologico - anche se abbiamo la pretesa di fare un'operazione scientifica - non possiamo trascurare che l'osservatore è in una posizione non completamente oggettiva.
Se, infatti, ci domandiamo le stesse cose che la scala delle paure domanda agli altri, scopriremmo che c'è un salto fra le cose descritte e le emozioni vissute. Può darsi che il grado di cultura dei miei genitori, il loro status economico, la mia altezza e il mio peso, il numero dei fratelli o i pregiudizi provinciali che mi caratterizzano, non mi diano alcun lume sull'angoscia che mi sta percorrendo il respiro … 
 

 

e) Lo spazio e la paura

Lo spazio rappresenta il contenitore fondamentale dell'essere umano.
E' spazio il luogo che ha contenuto il feto, è spazio il corpo materno che accoglie il neonato, è spazio il luogo che accoglie la coppia madre bambino. Ogni percorso di crescita rappresenta un allargamento dello spazio.
La relazione del corpo con lo spazio mette il soggetto in contatto stretto con il proprio limite: il confronto con un altro è posto in termini di altezza, velocità, potenza, manualità, prima ancora che di intelligenza, sentimento, intuito …
Dal punto di vista psicologico, per poter costruire la nostra visione del mondo, dobbiamo dimenticare lo spazio infinitamente grande o lo spazio infinitamente piccolo. Infatti la perdita di una dimensione di riferimento corporeo ci fa sprofondare in una delle paure fondamentali (sono paure riferite all'annientamento e alla perdita dell'identità).
Se cerchiamo di ricostruire il percorso di crescita che ci ha caratterizzato - cosa che sarà possibile intravedere nelle sezioni successive - dobbiamo provare a dar retta ai suggerimenti di Winnicott. Egli usa la metafora dei cerchi concentrici, quelli che possiamo vedere quando lanciamo un sasso nell'acqua stagnante. I cerchi si allargano sempre più, individuando man mano il nuovo spazio che si è creato (vedi "Sviluppo affettivo e ambiente", A.Armando editore e "Sulla natura umana",R.Cortina editore, di D.W. Winnicott).
A conclusione di questa lezione che si è occupata della dimensione collettiva che ha molte relazioni con la definizione della paura, propongo la lettura di una favola che ho scritto più di vent'anni fa per illustrare la metafora corporea-affettiva della paura.

RICORDO
Viveva nel tempo indefinito una bambina dai grandi occhi colore della terra. Vagava, talvolta, al limitare di un bosco secolare, senza mai spingersi al suo interno: si tratteneva sui prati morbidi e lasciava che il suo sguardo si perdesse nell'aria rarefatta e tersa.
Capitava spesso che le apparissero all'improvviso alberi e fiori, insetti, animaletti del bosco, come se le immagini prendessero corpo e assumessero a poco a poco un'esistenza nel suo mondo.
Trascorsero così i lunghi giorni di una calda stagione, finché giunse il mago del freddo a spargere dal suo ampio mantello gocce di pioggia sottile e persistente. Dalla pipa cesellata esalavano fumi di nebbia che si insinuavano fra gli alberi creando strane luci soffuse che alteravano un poco il paesaggio, fino ad avvolgerlo, lasciando qua e là spazi vuoti e indefiniti. La bambina era rapita da questo spettacolo naturale che la assorbiva lentamente e la riempiva la vita. Ormai le erano familiari gli alberi dalle cortecce variopinte, le sfumature dell'erba che si copriva di foglie, il profumo della terra bagnata. Ma da tempo era calato il silenzio nel bosco. Solo il vento intonava arie solenni che forse coprivano i trilli degli insetti e i fruscii degli animali del bosco.
Tutto poteva vedere ma non sentiva che suoni ovattati. Una cosa che da poco era apparsa alla sua vista la nebbia le aveva occultato: la montagna.
La bambina non aveva memoria del passato - per questo non facciamo il suo nome - e solo un profondo affetto per le cose del bosco le faceva da guida.
Assorta levò lo sguardo verso la montagna, si stropicciò gli occhi, si sfregò le mani e si batté le spalle per il freddo, si alzò in piedi e cominciò a camminare intorno senza trovare una direzione, alla ricerca della grande montagna. Il mago, dalla cima, vedeva ogni sua mossa e si dispiacque di aver sparso tanta nebbia nel bosco, perché si era abituato alla compagnia della bambina dagli occhi color della terra.
La bambina, sgomenta, cercava la montagna scomparsa e mentre si inoltrava nel bosco frugava qua e là con lo sguardo per ritrovare la vetta lucente. Di tanto in tanto si fermava: come per un abbaglio le sembrava di aver trovato la sua montagna. Spuntoni di roccia coperti dai muschi morbidi occhieggiavano fra gli aloni di luce e le davano l'impressione che quella fosse la sua montagna. Il mago si accorse che la bambina stava cercando, che aveva imparato a cercare, e si intristì ancor più, perché sapeva che per lei sarebbe iniziato il dolore. Dai suoi occhi colore del bosco d'autunno sgorgarono calde lacrime e al suo interno si diffuse una melodia malinconica, così triste e profonda che tutti gli animali del bosco si unirono al suo pianto silenzioso. Il vento, insensibile e goffo, svolazzò con più foga del solito e le lacrime del bosco divennero neve.
Tutto era coperto dalla soffice coltre; sotto, si era mantenuto un tepore intenso, perché i corpi degli alberi, degli animali, della bambina e del mago avevano obbedito all'incantesimo della vita. Il mondo del bosco sembrava un mondo sotterraneo: gli alberi fitti sostenevano la neve formando una cupola di bianco dove il sole tentava di penetrare come attraverso le vetrate d'onice delle grandi cattedrali.
Sulla vetta il mago non sentiva neanche il freddo. Il dolore lo aveva ferito nell'anima e gli pareva ora di essere vivo, ora di essere morto. Sedeva incauto sull'apice del monte e lo teneva in vita la memoria dell'amore. Nel sonno vide il fantasma dell'inverno che gli portò il terrore e il consiglio.
Aveva preparato la morte del bosco con il suo avvento il primo giorno d'autunno ed ora si disperava perché, come la bambina, si era perso a guardare lo spettacolo della natura senza accorgersi di esserne avvolto. Troppo tardi aveva scorto qualcosa che non doveva morire.
Scoprì allora, con il consiglio dell'inverno, che da poco anche lui aveva imparato a cercare. Ma avrebbe dovuto abbandonare i suoi abiti di freddo per non esserne sepolto.
Da mago qual era volle compiere allora un incantesimo. Rischiò la sua vita per il sortilegio che si doveva compiere. Si perse in un lungo sonno buio e senza immagini senza sentire nulla se non il battito del suo cuore, il pulsare del sangue, il soffio del suo respiro. Perse il tempo che doveva, dimenticò di attendere invano e si fece portare nelle lontane regioni del sottosuolo. La terra era umida, fredda, compatta. Non gli facilitava il cammino, ma il mago dovette persistere. Imparò a cercare il calore della terra quando i suoi piedi scalzi affondavano nelle zolle o quando si stendeva stanco abbracciando il suolo. La bambina si era costruita un rifugio e passava le ore di luce a studiare nuove vie per la montagna. Stabiliva tracce e percorsi di ogni tipo ma tutti partivano dalla sua casupola e lì riconducevano. Il bosco era così grande che non si poteva accorgere di aver tracciato solo dei grandi cerchi, sempre più ampi, intorno a sé. Ma ogni cerchio ingrandiva i confini: oltre il bordo era l'ignoto, oltre il bordo doveva essere la sua grande montagna.
Nel tempo aveva visto mille cose ma la fantasia creava, più grande di tutte, la montagna.
Aveva sviluppato molte abilità nel cercare ma un dolore sordo la invadeva quando, al calar della luce, vedeva le tracce scure del suo labirinto che non portavano mai alla montagna.
Intanto il mago continuava il suo cammino: a volte lo assaliva la nostalgia, a volte era preso dagli umori della natura, a volte ancora si immergeva nei suoi calcoli complessi e, quando trovava una coincidenza fra la sua ricerca e ciò che stava fuori nel mondo, si riempiva di vitalità e di gioia.Ma non dimenticava mai l'amore. Troppo gli era costato quel sonno buio e solitario! Non poteva dimenticare il suo cammino. Il sortilegio doveva compiersi a patto che egli portasse fino in fondo il suo cammino. Non doveva consentire all'oblio di offuscargli la memoria altrimenti, senza tracce evidenti, si sarebbe perso nell'Eterno Presente.
Mentre così compreso entrava e usciva dalle viscere della terra, si accorse di un piccolo seme che stava rinunciando al proprio involucro coriaceo per espandersi nella terra. Capì che il sortilegio si stava compiendo. La bambina si sentì crescere uno stano sentimento nel cuore. Ormai era rassegnata a non raggiungere la montagna. Aveva affinato però la conoscenza del bosco. Qualche volta lasciava i sentieri del suo labirinto per poi ritrovarli e far ritorno al rifugio.
Si era fatta più grande, forte e robusta. Spinta dalla nuova forza, superò l'ultimo confine che aveva tracciato, attratta dal tepore dei raggi del sole che avevano aperto un varco nella grande cupola di neve. Vide, fuori dal buco uno specchio d'acqua, vi si affacciò e sentì risuonare poche parole di una voce suadente e profonda che ascoltò con molta partecipazione: "Volta nel tuo volto, ti perdi: nell'eterno o nel nulla".
Sentì che quello era il tempo di proseguire verso la sua meta, sentì che la montagna sarebbe stata vicina se l'avesse cercata con sufficiente attenzione: Non avrebbe dovuto guardare soltanto per terra per tutto quel tempo.
Alzò finalmente lo sguardo e fu presa da grande sgomento incontrando gli occhi verdi infossati del mago che, per compiere l'estremo sortilegio, aveva rinunciato alla sua preziosa magia. Disse parole tenere e dolci che le sgorgarono dalle labbra come se muovessero dal bel corpo flessuoso.
Il mago le sorrise e la prese per mano con un caldo vigore. Lei gli si fece più vicina fino a stringersi forte al suo tronco in un solido abbraccio. Non ci furono parole. In quell'unico istante si vide brillare la montagna al sole. Non la videro l'uomo e la donna che ci stavano sopra, perché dall'alto vedevano una buona parte del mondo e ne furono così intensamente catturati da volercisi inoltrare.
Così, dal mondo, scoprirono dove si trovava la montagna dalla quale erano sapientemente discesi. E cosa ne sia di loro non lo sappiamo ancora. 
 

 



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Steineriane
Le ''scuole nuove'' della pedagogia steineriana, contrassegnate dal paradosso di un’accettazione pratica e di un’ignoranza teorica da parte degli stessi utenti e degli operatori della scuola pubblica, tra ''fedeltà karmica'', incarnazioni di individualità che ritornano sulla terra, bambini indaco e apparente buon senso pedagogico.

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