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Educazione linguistica Italiano
Filosofia
MARIA BETTETINI Buon Pinocchio non mente - Il povero burattino è in realtà un dilettante della menzogna.


Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore
Tipologia: Ipermedia

Abstract: Buon Pinocchio non mente

Il povero burattino è in realtà un dilettante della menzogna. I professionisti sono ben altri: Amleto per esempio

Pubblichiamo uno stralcio dal volume Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio di Maria Bettetini che uscirà nei prossimi giorni per l'editore Cortina (Milano, pagg. 200, L. 20.000). A fianco un testo di Umberto Eco inedito per l'Italia, tratto dal saggio "The Force of Falsity" contenuto nel volume Serendipities edito da Harcourt Brace.

Come la follia di Erasmo, la bugia potrebbe presentarsi e tessere di sé un dotto elogio, ma anche lamentare pregiudizi e maltrattamenti. La bugia (o menzogna, la differenza è solo etimologica) è stata proibita, lodata, creduta. La bugia ha scandalizzato, consolato, divertito. Ha fatto se non tutta la storia, almeno molta di quella che noi chiamiamo storia della civiltà. Una forma di bugia è alla base di ogni diritto, un'intesa sulla bugia è a fondamento di ogni arte. Grandi menzogne sono state le grandi ipotesi scientifiche, e probabilmente lo sono tuttora; grandi menzogne vengono propinate durante le campagne elettorali, ma sono in fondo richieste dagli stessi elettori, che al politico chiedono di mentire per permettere loro di sognare. Come al giornalista viene chiesto di ingannare perché ciò di cui deve dare testimonianza sia un po' meno brutto, oppure bruttissimo, tanto da scuotere gli animi e da risparmiare sul cinema e sugli antidepressivi.

Sinceramente non serve una storia della bugia, e neanche una sua apologia. Piuttosto un incontro con una figura che accompagna ogni aspetto del vivere sociale (perché per mentire si deve essere almeno in due, mentire a se stessi non è più mentire: ci si convince del falso e si perde l'intenzione di mentire, quindi, come spiegherà il primo capitolo, viene a mancare la sostanza della bugia). Si troveranno definizioni della bugia: classiche, autorevoli, in fondo mai smentite. Ma si incontreranno anche assertori della sua inesistenza: non è possibile mentire in un mondo dove la verità delle cose è evidente, come recita l'Etica di Spinoza: "chi ha un'idea sa, contemporaneamente, di averla e non può dubitare della verità della cosa", la nostra mente è parte dell'intelletto di Dio, perciò "è necessario che le idee chiare e distinte della mente umana siano vere", e la volontà non potrà farle passare per false, perché "la volontà e l'intelletto sono una stessa cosa" (Etica dimostrata con metodo geometrico). Parere simile a quello degli Stoici, che di fronte all'inevitabilità dell'assenso del saggio alla rappresentazione vera, intendono la menzogna solo come un errore dell'insipiente, che si lascia ingannare dalle apparenze o dallo stesso saggio, forse bugiardo, ma solo in apparenza.

Simili visioni del mondo giungono un poco estranee a chi dopo la modernità è abituato a muoversi tra diversi livelli di realtà e a trattenere con fermezza il suo assenso: siamo diventati abilissimi nel "sospendere la credulità", a causa delle continue richieste di sospensione dell'incredulità. I confini sembravano chiari: sei a teatro, credi senza reticenza di ascoltare i lamenti di Clitennestra anche se a lamentarsi è un uomo dagli alti sandali e dalla maschera che ben poco ricorda della regina che dovrebbe rappresentare. Ascolti un mito, e ti piace pensare che la ninfa Aretusa sia fuggita fino al mare e lì abbia dato origine a quella magica polla d'acqua dolce sulle rive del Mediterraneo. Leggi un romanzo, e sei complice dell'autore, dal quale ti lasci guidare nel cuore e nelle vicende di personaggi fittizi.

Poi le cose si complicano: apri un giornale, e garantisce i fatti e soltanto i fatti, niente più personaggi, storie, presenza dichiarata di un autore padre e guida. Accendi la televisione e ti rendi conto di non sfuggire al banale, ridicolo, credulone, fideistico riferimento al fatto che saranno pur cose vere, se le ha dette quell'ente mistico che è "la televisione". Vai in rete, ti puoi disfare della tua identità (che comunque la polizia saprebbe poi rintracciare, è un finto nascondersi, non facciamoci ingannare) e intrattenere rapporti tele-intimi con altre identità disfatte e ricostruite. Banalità quotidiane, che costringono però, per autodifesa, a sospendere ogni forma di assenso incondizionato. Troppe volte mi è stato chiesto di credere, ho diritto di non credere più.

Peccato, è così bello farsi ingannare. Ma, allora, la menzogna è davvero morta, dopo la decadenza lamentata da Oscar Wilde? Eppure il figlio imbroglia sull'orario di rientro, il fidanzato tentenna sugli impegni serali, io stessa invento abilmente impegni di lavoro inesistenti... Cose da dilettanti. Tanto è ingenuo, o superbo, chi garantisce di non mentire mai, tanto è candido chi pensando alle bugie pone mente solo alle parole che nascondono fatti che nascosti si vuole che restino.

Se la menzogna è connotata dalla voluntas fallendi, dalla volontà di ingannare, e forse anche si deve aggiungere dalla volutas nocendi, ossia dall'intenzione di fare del male, indipendentemente dalla veridicità di ciò che si afferma, ma usando le parole come arma per far credere "altro" rispetto a ciò che il parlante ritiene vero, allora non occorre la banale ed esplicita bugia per raggiungere lo scopo. Aiuteranno di più i gesti, le insinuazioni, le battute apparentemente innocenti, le affermazioni veridiche, ma usate ad arte.

Caro bugiardo, come scriveva Patrick Campbell a Bernard Shaw, e come Jerome Kilty ha intitolato la piece a loro dedicata, caro bugiardo che sei in ciascuno di noi, non credere di essere un bravo bugiardo solo perché non arrossisci quando dici che sei rimasto ancora senza benzina, o di essere sincero solo perché le tue parole sono veridiche. Che tu menta per necessità o per gioco, per compassione o per professione; che tu sia astuto come Ulisse, che tu sia ingenuo come Pinocchio (il povero Pinocchio, che in realtà, in tutto il romanzo di Collodi, mente solo due volte), scoprirai di essere solo un dilettante.

Ma come si comporta invece un professionista? Prendiamo il caso di Amleto. Colui che per scherzo, per fingersi pazzo, scrive all'amata versi d'amore ineguagliati, non rinuncia a mostrarsi anche in quell'occasione per quello ch'egli è davvero, un mentitore che mente dentro la menzogna della rappresentazione teatrale. Questi i versi: Doubt thou the stars are fire,/ Doubt that the sun doth move,/ Doubt truth to be a liar,/ But never doubt I love (Amleto, II,2), così tradotti da Montale: "Dubita che di fuoco sian le stelle,/ e che il sole si muova,/ dubita che anche il vero sia bugiardo,/ ma del mio amor non dubitare, o bella". Tra le assurde ipotesi che rendono iperbolica la dichiarazione, che le stelle non siano di fuoco, che il sole non si muova, addirittura che la verità (truth!) sia bugiarda! Detta per assurdo, ma detta, affermata come impossibile possibilità. Che importava ad Amleto della consistenza delle stelle e del movimento del sole? Ma molto, molto teneva a poter dire, se non provare, che anche la verità può mentire, perché questo sembra il vero scopo del suo agire. Si è già detto del suo incarnare il villain, il personaggio negativo a tutto tondo, ma altro ora si può aggiungere: Amleto recita durante tutta la tragedia a lui dedicata, conscio di recitare. Le maschere sono moltiplicate, ma mai nascoste: è del primo atto la palese dichiarazione di mostrare altro rispetto a quello che il "personaggio" Amleto ha in cuore. Ma se già ciò che mostra è lutto e tristezza, cosa alberga nel suo animo? Il principe di Danimarca non si finge contento delle nozze della madre, non nasconde il lutto per il padre e l'astio per lo zio, la malinconia e la tristezza: cosa nasconde, se tutto questo, compresi suoi abiti neri e i "profondi sospiri" sono solo "cose che sembrano, perché si possono recitare" (I,2).

Sembra rinascere solo in compagnia degli attori, esseri spregevoli e banditi dalle città per bene (Shakespeare aveva dovuto soffrire per trovare mecenati e protettori), ma è anche questo un segno di quell'obbligo alla doppiezza che contraddistingue Amleto. Le famose pagine in cui il principe di Danimarca illustra ai commedianti il senso del loro lavoro (III,2), a ragione considerate l'eredità teorica lasciata da Shakespeare sul far teatro, partono dal presupposto che fine della recitazione sia "regger lo specchio alla natura". L'unico modo per comprendere il vero (quel vero che potrebbe essere bugiardo!) è osservarlo nello specchio della menzogna di un teatro che lo imita, ma a esso si avvicina più della vita. Difficile? No, "facile come mentire", risponderebbe Amleto, che così sbeffeggia il falso amico Guildestern invitandolo a suonare il piffero, e gli potrebbe mostrare, se Guildestern fosse in grado di capire, che ha colto l'inganno dei due inviati dal re-zio. Facile mentire, e solo attraverso un gioco a incastro di menzogne Amleto sembra riuscire a vendicare il padre, fino alla conclusione che vede morire tutti i protagonisti e scendere il silenzio sulla messa in scena che mentre è messa in scena mette in scena una finzione via l'altra, nella convinzione che se perfino la verità potrebbe essere bugiarda, allora meglio mentire, ché la menzogna, come si diceva in principio, si governa meglio.

Ma non diversamente si comporta il dilettante Dylan Dog, l'"indagatore dell'incubo" creato da Tiziano Sclavi: posto che la domanda fondamentale della vita è "dove vado?" (cfr. Accadde domani, del 1990), Dylan ha molta meno difficoltà ad affrontare tutto ciò che emerge da incubi dove poi tornerà (forse), piuttosto che a decidere come occupare una serata dopo esser stato scaricato dalla ragazza del giorno. Alieni, morti che tornano in vita per decomporsi all'improvviso, uomini neri che mangiano i bambini, niente è così sconcertante come affrontare i pagamenti delle bollette o il più grave dei problemi, superare una serata in solitudine, senza donne e senza incubi. Neanche il fascinoso Dylan sa quanto i suoi casi siano frutto della malata fantasia delle vittime, della sua, di quella collettiva: ma sono "casi", c'è un cattivo (zombi, marziano, demonio di varia specie), e ci sono dei buoni da proteggere, e Dylan in linea di massima riesce a farlo. Perché poi quella tremenda fatica per convincerla a uscire a cena o quei fastidiosi problemi economici? Non è più facile tornare nell'incubo a indagare, lottare, e, quasi sicuramente, vincere?



http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010513c.htm



I giudizi degli utenti

giulana tortorici
molto buono, quasi niente mattone didatticamente sicuramente proficuo

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