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Intercultura
Religione
Benedetto XVI e le parole della polemica. Articolo di Elisabetta Ambrosi

Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma, Formazione permanente
Tipologia: Materiale di studio

Abstract:
Benedetto XVI e le
parole della polemica

Elisabetta Ambrosi


“Sono vivamente rammaricato per le reazioni suscitate da un breve passo del mio discorso nell’Università di Regensburg, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, mentre si trattava di una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale”. In un drammatico chiarimento del suo discorso pronunciato in Germania, Benedetto XVI compie un passo indietro, inedito per un pontefice, già anticipato dalla nota del segretario di Stato Bertone, secondo cui il papa avrebbe utilizzato la contestatissima citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo per svolgere “alcune riflessioni sul tema del rapporto tra religione e violenza in genere e concludere con un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza, da qualunque parte essa provenga”.

Sulla vicenda sono intervenute le firme più importanti dei quotidiani, a partire dai vaticanisti ed esperti del mondo arabo. Ma prima di tutto, è meglio ricordare brevemente i fatti. O meglio le parole, quelle del discorso pronunciato nell’Aula Magna tedesca. Interrogandosi sul rapporto tra fede e ragione, Benedetto XVI cita un dialogo tenutosi tra il 1391 tra il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un persiano colto su cristianesimo e islam. Il papa spiega come l’imperatore, riflettendo sul tema della jihad e pur sapendo che nella sura 2,256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede”, si rivolga al suo interlocutore dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. L’imperatore – dice il pontefice – si sofferma poi minuziosamente sulle ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole e in contrasto con la natura di Dio e dell’anima. Da questa analisi segue nel testo di Ratzinger una lunga riflessione sull’agire secondo ragione e sul rapporto tra ragione e fede, che sta al centro della dottrina cristiana, laddove, dice il papa riportando le parole dell’editore del dialogo, “per la dottrina musulmana Dio è assolutamente trascendente”. Il discorso prosegue ricordando le parole iniziali del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Logos”), che mettono in luce “la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia”. Benedetto XVI critica le stesse le tendenze teologiche cattoliche che nel corso dei secoli hanno teso a mettere in discussione questa sintesi (il volontarismo di Duns Scoto, la teologia liberale del XIX e del XX secolo, infine i tentativi di inculturazione non ellenistica del Nuovo Testamento) e conclude con un invito a tutti gli interlocutori della Chiesa, in particolare le altre religioni, ad aprirsi alla grandezza della ragione.

Questo in sintesi il nucleo teorico che ha provocato una vera e propria sommossa in numerosi paesi del mondo arabo e ha fatto sì che molti inviti alla ritrattazione venissero rivolti a Bendetto XVI, inviti poi accolti dalla Santa Sede vista la nota di Bertone e l’appello dell’Angelus. Ma ha davvero ragione il New York Times a scrivere che i musulmani sono stati insultati e che l’unica paura del papa è “la perdita di una identità cattolica monolitica, proprio l’esatto contrario di una piattaforma di partenza orientata al dialogo interreligioso e alla tolleranza”?

Il lusso dell’impoliticità

Dà torto al quotidiano americano, e difficilmente ci si sarebbe aspettati una posizione diversa, Il Foglio che, attraverso le parole di Michele Lenoci, nelle riflessioni di Benedetto XVI intravede la critica a un cristianesimo debole, relativo, irrazionale, concepito come un “grande abbrassons-nous”, e mette in discussione l’idea di una possibile “Onu delle religioni”.
Parla invece di “cieca ideologia dell'odio imperante tra i musulmani, che violenta la fede e ottenebra la mente”, il vice-direttore del Corriere Magdi Allam, che si chiede perché i musulmani moderati non si ribellino ai terroristi, invece di intraprendere una “sorta di ‘guerra santa’ islamica contro il capo della Chiesa cattolica che legittimamente esprime le sue valutazioni sull'islam, con rispetto ma altrettanta chiarezza della diversità che naturalmente esiste tra le due religioni”. Secondo Allam, i pretesti perché si scateni la furia islamista sono disparati, e vanno dalle vignette al discorso del papa, ma il problema è tutto interno a un islam estremista e ideologico. Anche per Adriano Sofri “Benedetto XVI a Regensburg si è comportato un po’ come il bambino che vede il re nudo” (cosa che “può succedere anche ai Papi e agli ottuagenari”). D’altro canto, si chiede Sofri, “Quante sono le autorità religiose o civili che abbiano voglia, o coraggio, per dire che certe convinzioni ‘religiose’, come quelle che fanno credere agli assassini suicidi che il paradiso li attenda, sono ridicole assurdità?”.

Tra gli editorialisti, tuttavia, prevalgono le voci critiche, o parzialmente tali, alla lezione del papa, considerata un errore teorico e politico. Diverse sono le accuse rivolte alle analisi del pontefice. La prima rimprovera a Benedetto XVI di aver misconosciuto o volutamente ignorato le inevitabili conseguenze politiche della sue parole: “Se uno oggi cita un imperatore bizantino che ha detto delle parole molto pesanti nei confronti dell’Islam si deve aspettare un certo tipo di reazione. Perché scegliere proprio quella fonte?”: così l’ex presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto. Di opinione simile il direttore del Riformista Paolo Franchi, secondo cui “in nessuna circostanza, e tanto più se il mondo è sull’orlo di uno scontro di civiltà, il papa di Roma può consentirsi il lusso dell’impoliticità. Nemmeno quando tiene, come ha fatto a Ratisbona, una lectio magistralis di altissimo livello”.

La grandezza di Wojtyla

Il secondo gruppo di critiche constata con tristezza la fine dell’ecumenismo reale di papa Wojtyla, cui vede subentrare una volontà di dialogo con le altre religioni unicamente teorica, ma incapace di tradursi in gesti reali e sempre subordinata alle preoccupazioni legate all’imperante secolarizzazione, all’invasione islamica in Europa, alla perdita di forza dell’identità cattolica. In una fine analisi comparsa su Repubblica, Guido Rampoldi nota come Ratzinger predichi “l’esistenza d’una ‘civiltà europea’ immutabile nel suo nucleo, un dna misteriosamente sottratto alla storia di cui il cristianesimo sarebbe il gene dominante”. E come, inseguendo questo “essenzialismo”, “la Chiesa sembri finire dentro il paradosso che la migliore stampa araba descrive così: da una parte cerca un dialogo a carte scoperte con i pensatori islamici, finalmente autentico e senza ipocrisie; dall’altra avalla un principio d’esclusione, la ‘civiltà cristiana’, applicabile nel modo più ipocrita e illiberale, per vessare immigrati musulmani o per estromettere la Turchia dall’Europa”.
Al contrario, scrive sempre Rampoldi, Wojtyla fu l’unico leader occidentale a convincere le opinioni pubbliche musulmane che la cristianità e l’Occidente potevano essere amichevoli. “Furono i gesti, non i dibattiti teologici, che resero Giovanni Paolo II il Papa più stimato (meglio: l’unico stimato) nelle terre dell’Islam. La sua discutibile opposizione alla prima guerra del Golfo, la solidarietà offerta ai musulmani di Bosnia, le autocritiche cui condusse una Chiesa non sempre convinta, quell’ammettere colpe storiche con il coraggio e la forza che in quel momento rendevano il cattolicesimo unico tra le fedi”.

Stessa linea quella del vaticanista Marco Politi, che parla di un vero e proprio “strappo” dalla politica di papa Giovanni Paolo II, peraltro tutt’altro che buonista o inconsapevole degli elementi di violenza della tradizione islamica. Eppure, dice Politi, l’agire ecumenico di Wojtyla, niente affatto retorico, era “la volontà di mettere insieme nel segno della fratellanza spirituale una piattaforma condivisa da cui partire per ripudiare la violenza religiosa”, volontà che lo ha fatto divenire un leader spirituale rispettato. Ora, invece, “in Vaticano una strategia verso l’Islam è tutta da ricostruire”, anche se ciò, ammette Politi, è dovuto non solo all’incidente di Regensburg: già la messa inaugurale del pontificato di Benedetto XVI, l’esilio dell’esperto islamista Michael Fitzgerald, il mancato interesse verso gli incontri di Assisi avevano posto le basi della crisi.

Anche Dali Boubakeur, presidente del Consiglio francese del culto musulmano, si definisce preoccupato perché vede spegnersi lo di Assisi e teme che la tradizione di ecumenismo del Vaticano sia “destinata a scomparire con questo pontificato”.
Una denuncia del tutto originale viene poi dall’editorialista di Repubblica Renzo Guolo, secondo cui il papa ha oltrepassato un confine inviolabile: “Parlando del Profeta Muhammad e di sure coraniche Benedetto XVI ha, infatti, violato un tabù consolidato: le religioni possono parlare tra loro di etica, pace, famiglia, o di quella stessa secolarizzazione contro cui vorrebbero far fronte comune, ma mai di dogmi o testi sacri altrui. In quel caso la comunicazione si spezza, perché scatta un immediato riflesso identitario”.

Oriente-Occidente, vecchi cliché

C’è infine, un ultimo insieme di ragionamenti, scaturiti dal dibattito intorno al discorso del papa che dal testo papale estrapolano analisi inedite e interessanti. Secondo Adriano Sofri, il fatto che la nostra fede sia e debba essere “ragionevole” fa sì che “il dialogo fra credenti e non credenti, eredi comuni del pensiero ebraico, greco, cristiano, illuminista, sia infinitamente più ricco e favorito che non la comunanza obiettiva fra i credenti delle grandi fedi monoteiste”. Non solo. Come nota l’editorialista della Stampa Enrico Rusconi, proprio il voler porre l’accento in maniera continuativa sui concetti-guida di logos, razionalità, ragionevolezza, e sulla centralità di una “ellenizzazione del cristianesimo”, fa sì che sull’islam si proietti specularmene l’ombra dell’irrazionalità. “Questo è il punto” scrive Rusconi: “La condanna alla ‘guerra santa’ islamica si colloca all'interno di un ragionamento basato sul contrasto tra il Dio-Logos greco-cristiano e il Dio-Arbitrio dell'Islam. Tra la razionalità occidentale e l'irrazionalismo orientale. Questa è la vera questione storica, filosofica e teologica che meriterebbe un dibattito ampio e forte”.
Ma l’ellenizzazione del cristianesimo ha anche un’altra conseguenza, paradossale e certamente non gradita allo stesso Pontefice, che farebbe bene a tenerla in considerazione. Se infatti, come ha scritto l’Avvenire, il testo del papa è “fondato sulla ragione universale e animato da un vero umanesimo”, allora, come il dibattito del XX secolo sulla secolarizzazione e sul legame tra cristianesimo e ateismo ha mostrato, proprio Ratzinger corre il rischio che il suo cristianesimo sia…solo un umanismo. Come ha scritto Eugenio Scalfari, Benedetto XVI mette in ombra la grande tradizione mistica, la testimonianza martirologica, la dottrina della grazia e della predestinazione, e con loro tutta la tradizione che va da Agostino a Kierkegaard passando per Pascal, per rivendicare un cristianesimo centrato su un Dio razionale come riflesso dell’uomo. Ma attenzione, scrive Scalfari, “da qui a concludere che Dio è una proiezione del pensiero dell’uomo il confine è sottilissimo”.



http://www.caffeeuropa.it/pensareeuropa/306ratzinger.html



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