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Storia
Lager in Libia, una storia rimossa - Enzo Collotti - Recensione al testo di Eric Salerno (Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana)

Lingua: Italiana
Destinatari: Formazione post diploma, Alunni scuola media superiore, Formazione permanente
Tipologia: Documentazione
Abstract:
Lager in Libia, una storia rimossa
Enzo Collotti

Degli ebrei libici aveva parlato Renzo De Felice nei suoi studi sul fascismo e l'oriente mediterraneo, quando il fascismo pensava di sfruttare in funzione antiinglese l'influenza economica e commerciale delle colonie di ebrei italiani (specie quelli di Alessandria d'Egitto) insediate sulle rive del Mediterraneo. Un tentativo che naufragò ben presto con la svolta della guerra d'Africa, che fece rischiare lo scontro diretto con l'Inghilterra, e soprattutto con la svolta razzista della campagna contro gli ebrei a partire dal 1938. Personalmente mi sono imbattuto nella presenza degli ebrei libici (in parte cittadini inglesi, in parte cittadini italiani) nei campi di concentramento in Italia nel corso delle ricerche, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, effettuate dal gruppo di lavoro sugli ebrei in Toscana da me coordinato, che individuò tra gli internati dei campi di Villa Oliveto (a Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo) e di Bagno a Ripoli (in provincia di Firenze) numerosi ebrei provenienti dalla Libia.

Fonti scarse e frammentarie

L'episodio smentiva la vulgata dei razzisti nostrani secondo la quale gli italiani non avrebbero mai deportato nessuno, se prima di abbandonare la Libia e la Tunisia in seguito alla sconfitta militare erano stati in grado di trascinare in Italia un contingente non esiguo di ebrei libici. Al di là dell'indeterminatezza del loro numero, rimanevano da capire le ragioni di quel trasferimento coatto: l'ipotesi più plausibile era che si trattasse di ostaggi o di merce di scambio (siamo nella primavera del 1943 per eventuali trattative con gli inglesi).
Per quanto incerta rimanga, quell'ipotesi viene in parte convalidata dalla prima ricerca in qualche modo approfondita relativa alle conseguenze delle leggi razziali nella colonia libica che ci consegna ora Eric Salerno (Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana, Il Saggiatore 2008, pp. 238, euro 17). Eric Salerno non è nuovo a questo tipo di ricerche avendo fra l'altro all'attivo un libro sulle atrocità della conquista coloniale e della repressione italiana in Libia tra il 1911 e il 1931 (Genocidio in Libia, Manifestolibri 2005).

Abbiamo detto che questo nuovo libro è uno studio «in qualche modo approfondito» e non certo esauriente e tanto meno definitivo, come è consapevole per primo l'autore, per il semplice fatto che la scarsità e la frammentarietà delle fonti - pochissime le testimonianze reperibili oggi, altrettanto dispersa la documentazione tra archivi italiani, israeliani e libici in primo luogo - non consentono di andare al di là di una prima preziosa ricostruzione di un caso esemplare, la vicenda del campo di concentramento di Giado, centoottanta chilometri a sud di Tripoli nel deserto del Gebel, dove a partire dal maggio del 1942 furono rinchiusi 2527 ebrei libici, trasferiti in primo luogo dalla Cirenaica, ossia dall'area all'epoca più soggetta ai cambiamenti di fronte nel corso delle operazioni militari tra gli inglesi e le forze dell'Asse. Da lì almeno una parte fu poi trasferita in Italia per cadere dopo l'8 settembre del 1943 nelle mani dei tedeschi, che a loro volta li spedirono generalmente a Bergen Belsen, il lager speciale destinato fra l'altro a scambio di detenuti (ma di non pochi libici si sa che finirono ad Auschwitz).
Il trasporto degli ebrei libici in campo di concentramento fu la conclusione del tormentato rapporto fra il dominio italiano e la comunità ebraica della Libia. In particolare la convivenza degli ebrei tripolini con gli arabi e il loro ruolo nelle attività commerciali e artigiane non creò gravi conflitti con l'amministrazione fascista che sino all'entrata in vigore in Italia delle leggi sulla razza fu improntata a una moderazione suggerita dal governatore Balbo, salvo qualche episodio come la fustigazione dei negozianti ebrei che non volevano ottemperare all'ordine di tenere aperte le botteghe il sabato. Le disposizioni del 1938 per gli ebrei cittadini italiani furono ulteriormente inasprite per quelli residenti in Libia con norme legislative del 9 ottobre 1942, quando la presenza italiana in Libia vacillava sotto l'urto dell'offensiva inglese.
 
Una crudele repressione

Giado fu il principale di una serie di campi specificamente destinati agli ebrei. Salerno ne ha percorso la storia ricercando anche sul posto le tracce di ciò che rimane di questo luogo di detenzione tra le sabbie del deserto, «un pezzo - scrive - poco glorioso della storia coloniale italiana», perché qui si sommavano le nefandezze di una duplice infamia, quella coloniale e quella razzista antiebraica. Il vecchio ascaro che gli fa da guida alla visita dei resti gli addita il posto dove finivano le spoglie delle vittime: «La gente moriva nel campo e gli ebrei venivano sepolti qui». Perché la fame, gli stenti, i maltrattamenti, la calura, l'epidemia di tifo fecero strage dei detenuti di Giano: ne morirono più di cinquecento, ma di soli ottantasei morti si conoscono i nomi, uomini, donne, bambini, riportati nell'appendice del libro.
Un risultato che certo premiò gli sforzi di quei fanatici gerarchi che avevano invocato una «decisa politica razziale» anche nelle colonie dove a operare non erano i tedeschi ma gli italiani, a cominciare dalla Pai (la Polizia Africa italiana), dai militi fascisti e dalle unità militari; e qui, a detta dei pochi testimoni superstiti, «gli italiani fascisti (...) si comportavano come i tedeschi». Via via che la guerra in Nordafrica volgeva al peggio la repressione contro gli ebrei assumeva le forme più gratuite e crudeli: si moltiplicavano le accuse contro l'attività occulta e affaristica degli ebrei, secondo i più consumati stereotipi dell'antisemitismo, tornarono le esecuzioni capitali esemplari questa volta a carico degli ebrei, si praticò il lavoro forzato per gli ebrei in faticose opere stradali. Nell'andirivieni degli opposti eserciti in Cirenaica, si punirono come traditori gli ebrei che avevano accolto gli inglesi come liberatori. Nel febbraio del '42 Mussolini in persona, immemore dell'accoglienza che nel 1937 gli era stata tributata in Libia dalla comunità ebraica, diede disposizioni per la loro evacuazione dalla Cirenaica e dalla Tripolitania, prevedendo già l'«eventuale trasporto degli internati in Italia».
Sollevando il velo di oblio che copriva questa pagina poco nota Eric Salerno ci indica una ulteriore connessione nella ragnatela di implicazioni prodotte dalla persecuzione razziale, una via difficile da percorrere anche per studiosi provetti, e tuttavia suscettibile di fornire altri dettagli alla fenomenologia di questo particolare tipo di repressione in cui anche il più infimo gerarchetto si gonfiava il petto di arroganza razziale. Al di là del coinvolgimento diretto dalla Libia nell'area applicativa delle leggi razziali, l'autore richiama un episodio già ricostruito da Spartaco Capogreco nel suo libro su Ferramonti. Si tratta dell'arrivo a Bengasi nella primavera del '40 di trecento ebrei, per lo più tedeschi e austriaci profughi dai paesi della persecuzione nell'Europa centro-orientale, che dovevano fare sosta nel porto libico per proseguire presumibilmente verso l'emigrazione clandestina in Palestina. Ma dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno, i profughi furono arrestati e la prosecuzione verso la loro meta impedita. Furono rispediti con un piroscafo italiano che affrontò le insidie di un Mediterraneo in guerra e dopo altre peripezie sul suolo italiano alla fine di settembre arrivarono via terra a Ferramonti. La Libia dunque non era servita neppure come territorio di transito per facilitare la via di fuga a ebrei braccati da nazisti e fascisti.

Oltre il filo spinato

Dalle testimonianze raccolte da Eric Salerno risulta che a Giado vi fu forse anche qualche tedesco, «ma la maggioranza erano fascisti in camicia nera, carabinieri italiani, ascari libici», a guardia dei deportati rinchiusi dentro un reticolato di filo spinato. Il campo non era certo un istituto di beneficenza. «La polizia italiana era crudele» annota un testimone. Ancora non si sa bene come avvenne il trasporto degli ebrei libici dai campi di concentramento in Libia a quelli in Italia. Sappiamo solo che non fu un passaggio indolore se dopo l'8 settembre un numero cospicuo dei trasferiti in Italia (forse la maggioranza?) finì nelle mani dei tedeschi e per molti di loro la minaccia di essere uccisi, che li aveva accompagnati sin dall''internamento in Libia, divenne realtà quando, consegnati dagli italiani ai tedeschi, finirono i loro giorni a Auschwitz.

Un puntuale confronto dei nominativi raccolti da Salerno con i dati del Libro della memoria del Cdec ci darebbe la riprova di questo tragitto dalla Libia ad Auschwitz, davvero una «storia italiana», che Salerno ha fatto bene a riesumare perché non rimanga sepolta dal diniego di memoria di cui è capace questo nostro schizofrenico paese.



http://www.ilmanifesto.it/argomenti-settimana/articolo_7805f62797e1da82bd59edb188d91bea.html


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