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Pluridisciplinare
FEMMINILE, DETENZIONE - (la detenzione femminile vista dal Rapporto dell'Associazione Antigone)- di Laura Astarita

Lingua: Italiana
Destinatari: Insegnanti, Alunni scuola media superiore, Formazione post diploma
Tipologia: Documentazione
Abstract:
FEMMINILE, DETENZIONE
(la detenzione femminile vista dal Rapporto dell'Associazione
Antigone)
di Laura Astarita



I NUMERI DELLA DETENZIONE FEMMINILE

I dati relativi al 31 dicembre 2001 riportano che la percentuale di donne sulla popolazione detenuta è del 4,29%, per un numero complessivo di 2.369 detenute: 1.068 imputate, 1.229 condannate e 72 internate. Il totale delle donne entrate in carcere nel 2001 dallo stato di libertà è di 6.129: numero stabile rispetto al decennio precedente, tranne le più di 7.000 detenute del triennio caldo 1992-94, in cui gli ingressi in carcere hanno sfiorato le 100.000 unità.
Le donne straniere sono 1.002, il 42,29% rispetto al totale. Il 36,18% delle detenute possiede il diploma di scuola media inferiore, il 21,45% ha quello di scuola media superiore o titoli di formazione professionale, l’1,79 % è laureata; il 17,62 % ha la licenza elementare, l’11,44 % delle detenute è priva di titolo di studio, il 5,13 % è analfabeta.
Le detenute sono suddivise in 8 istituti (Trani, Pozzuoli, Arienzo-Caserta, Rebibbia-Roma, Perugia, Empoli, Pontedecimo-Genova e Giudecca-Venezia) e 52 sezioni femminili all’interno di carceri maschili. Come è facilmente intuibile, tale dispersione delle detenute in piccole sezioni loro destinate è uno dei principali problemi legati alle condizioni di detenzione femminile, anche se molto spesso l’esigenza della vicinanza della detenuta al proprio luogo di residenza rende l’esistenza delle sezioni un male minore. Il problema è spiegato chiaramente dagli operatori di Trapani, i quali osservano: "Si ritiene importante l’eliminazione di sezioni femminili in istituti maschili. Tali sezioni, infatti, numericamente inferiori, corrono il rischio di essere un po’ dimenticate. I piccoli numeri, per altro, non consentono la realizzazione di progetti relativi a corsi scolastici o professionali, o progetti comunque mirati a "specificità femminili".

I REATI DELLE DONNE

La tipologia dei reati commessi dalle donne è espressione chiara del percorso di marginalità che spesso segna le loro vite, riportandole in carcere per brevi e ripetute permanenze: la violazione della legge sulla droga e i reati contro il patrimonio costituiscono infatti il motivo della condanna per la stragrande maggioranza delle detenute.
Compare, come si vede, tra le tipologie dei reati, la voce prostituzione, pur non essendo incriminabile lo status di prostituta; si tratta di reati legati a tale condizione, come oltraggio, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, violazione del foglio di via, atti osceni, rissa e così via; solitamente ne sono incriminate le immigrate africane o dell’Europa dell’Est e dei paesi balcanici. Per reati connessi al vagabondaggio sono invece spesso incarcerate le donne rom. Negli ultimi anni inoltre si è aggiunto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
La condizione di emarginazione vissuta nella società è caratteristica comune della maggioranza della popolazione detenuta sia maschile che femminile, ma il dato che emerge in maniera forte in quest’ultimo caso è la mancanza dell’elemento "violenza", della pericolosità sociale nei reati delle donne.
Tendenzialmente la popolazione femminile detenuta è condannata a pene non molto lunghe: le condanne infatti si concentrano per lo più nella fascia inferiore ai 3 anni di detenzione.

DONNA, MADRE, DETENUTA

La legge
Tra gli ultimi atti della tredicesima legislatura, è stata approvata, faticosamente, nel febbraio 2001, la legge per le "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori", che è stata pubblicata, simbolicamente, l’8 marzo 2001. Il testo prevede, per le madri con figli di età inferiore ai dieci anni, l’applicazione di due tipi di provvedimenti: detenzione speciale domiciliare ed assistenza esterna dei figli minori.
Purtroppo i primi mesi di applicazione della nuova legge non hanno portato a risultati significativi. Sono infatti pochissime le detenute che ne hanno potuto usufruire. Dai dati che gli operatori ci hanno fornito, sappiamo che, dall’entrata in vigore della legge al dicembre 2001, su un totale nazionale di 959 detenute-madri, ad Avellino hanno beneficiato della nuova legge 6 detenute, a Rovigo 1, a Mantova 2, a Rebibbia 5 e a Livorno 3; a Pisa, Trapani, Forlì, Camerino, Torino, Udine, Nuoro, Belluno, Taranto, Ragusa, Empoli, Vercelli, Modena, Monza, Alessandria e Pesaro nessuna donna è stata riavvicinata ai figli grazie alla nuova legge. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che la legge in questione riguarda soltanto le donne che scontano una condanna definitiva, quindi appena la metà sul totale delle recluse.
Inoltre c’è il problema della casa: sono previsti infatti meccanismi di controllo sulla possibilità di instaurare una reale convivenza con i figli; ma sia le straniere che le nomadi, che rappresentano la maggioranza delle detenute madri, difficilmente hanno un posto dove andare. Ulteriori limiti sono inoltre previsti dall’eventuale pericolo di commettere nuovi reati, lasciando così al di fuori dalla possibilità di godere dei benefici della nuova legge proprio le tossicodipendenti, che presentano un alto tasso di recidiva. "La donna tossicodipendente con figli - come spiega Sandro Libianchi, medico responsabile del Servizio tossicodipendenze a Rebibbia, alla redazione di "Ristretti Orizzonti" - specialmente se priva di terapia sostitutiva specifica, rappresenta un rilevante quesito terapeutico, sia per quanto riguarda se stessa al momento dell’arresto - per le crisi di astinenza cui è soggetta - e il bambino, sia per ogni ipotesi di piano terapeutico personalizzato. Ancora molto rare e disomogeneamente distribuite sul territorio sono le comunità terapeutiche che accolgono madri con bimbi e non sempre sono disponibili all’accoglienza per la mancanza di posti a disposizione. Una ipotizzabile sistemazione detentiva migliore - continua Libianchi - laddove non fosse applicabile la pena alternativa, è presso le Custodie Attenuate; ma ad oggi nessuna di queste strutture è attrezzata per accogliere bimbi".
Quindi, come gli operatori di Empoli - fanno notare, uno dei limiti è che non è stata prevista contemporaneamente un’adeguata attivazione di servizi esterni, che supporti la donna e il bambino: "spesso - affermano gli operatori per le donne con figli, è preferibile il carcere a situazioni esterne degradanti".

Madri e figli dentro
Nella Raccomandazione n. 1469 del 2000, l’Assemblea parlamentare del Comitato per gli Affari Sociali, la Salute e la Famiglia, del Consiglio d’Europa, riguardante "Madri e bambini in carcere" ricorda che nonostante l’invito, fatto nella precedente Raccomandazione del 1995 sulle condizioni di detenzione negli Stati membri, ad un ricorso più limitato a sentenze di incarcerazioni, il numero di donne condannate alla pena detentiva sta aumentando in molti paesi e che la stragrande maggioranza di donne detenute sono accusate, o condannate, per reati relativamente minori e non rappresentano un pericolo per la comunità.
Non si è a conoscenza, continua la Raccomandazione, del numero di bambini e di ragazzi separati dalle loro madri detenute. Ci sono circa 100.000 donne in carcere nei paesi europei, e la "Howard League for Penal Reform "associazione britannica non governativa, ha stimato che ciò significa che circa 10.000 bambini sotto i 2 anni vivono questa condizione". Considerati i provati effetti nocivi che la detenzione delle madri causa ai figli, l’Assemblea parlamentare raccomanda gli Stati membri "di sviluppare ed usare pene alternative al carcere per le donne con figli piccoli, di riconoscere che la detenzione di donne incinte o con figli piccoli dovrebbe essere usata soltanto come ultima risorsa per coloro le quali sono accusate di gravi reati e che rappresentano un pericolo per la comunità, di sviluppare delle linee-guida per i giudici affinché si attengano a tale invito".
L’Assemblea riporta un dato molto importante: circa il 70% delle donne in carcere in attesa di giudizio, non vengono successivamente condannate alla pena detentiva. La gran parte delle detenute sconta, inoltre, un periodo di detenzione inferiore ai 6 mesi. Ciò indica che la maggior parte delle donne potrebbe usufruire delle misure alternative, invece di andare in carcere. Il principio dovrebbe essere quindi quello di riconoscere che la custodia penale per le madri e per i figli dovrebbe essere nella maggior parte dei casi evitata e che il benessere della famiglia e dei bambini trarrebbe beneficio da tale riforma mentre, nello stesso tempo, sarebbero soddisfatti i bisogni della comunità. Infine la sicurezza pubblica, sostiene l’Assemblea, non verrebbe messa in pericolo in alcun modo.
Per quanto riguarda l’Italia, da alcuni anni sono in media 50 i bambini rinchiusi in carcere con la propria madre. Non sono al momento disponibili dati istituzionali successivi all’approvazione della nuova legge, ma dai dati fornitici direttamente dagli Istituti che hanno risposto al nostro questionario, sappiamo che Rebibbia ospita al momento 16 bambini, Avellino e Torino 6, Vercelli 3. In quest’ultimo carcere, nonostante la presenza di bambini, manca l’asilo nido; non si tratta certamente di un caso isolato, anzi capita spesso che, nonostante la struttura ci sia, non sia disponibile un numero sufficiente di agenti di polizia per tenerla aperta e poterne usufruire.
La struttura edilizia degli asili è molto variabile: da un unico stanzone-camerata a diverse celle singole con due letti; in ogni caso gli standard di igiene sono molto bassi e la privacy è del tutto assente.
Sono molti, come è facilmente intuibile, gli effetti patologici che l’ambiente del carcere provoca sui bambini: questi sono infatti soggetti a un’irrequietezza, che può essere anche molto pronunciata, a crisi di pianto frequenti e immotivate; hanno molto spesso problemi ad addormentarsi e a dormire in quanto subiscono risvegli bruschi durante il sonno; inappetenza e significative variazioni di peso, sia in eccesso che in difetto, sono frequenti; è ovviamente difficile valutare l’entità del danno emozionale e relazionale.
Il rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del giugno 2000, fa notare che un lungo studio sulle condizioni dei bambini in carcere ha rilevato un graduale peggioramento del loro sviluppo motorio e cognitivo. È stato dimostrato che ciò accade perché l’ambiente del carcere limita l’esercizio e l’esplorazione: una volta che i bambini imparano a stare in piedi, ad andare a quattro zampe e a camminare, hanno poche possibilità di esplorare, trascorrendo al contrario molto tempo sui seggioloni.
Le detenute di San Vittore raccontano che una di loro si è convinta a mandare a passeggio il proprio figlio con una operatrice volontaria, dopo essersi resa conto che a 2 anni e mezzo il bambino non era ancora capace di camminare sull’erba.

Madri dentro e figli fuori
Sono oltre quarantamila, grandi e piccoli, i figli che hanno un genitore dietro le sbarre. Dati che, comparati a quelli riguardanti i bambini dentro, evidenziano il grande numero di figli con la madre in carcere, che non risentono quindi degli effetti nocivi della detenzione sul proprio sviluppo psicofisico, ma che subiscono la privazione della figura materna.
Mentre le donne con i figli in carcere soffrono per la costrizione e i traumi che i propri bambini subiscono senza aver commesso alcun reato, le madri con i figli fuori si tormentano per la terribile sensazione di averli abbandonati: "Le detenute- spiega Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze del carcere di San Vittore a Milano - soffrono più degli uomini per la lontananza, soprattutto le straniere, che spesso hanno lasciato i figli nel proprio paese di origine e che non hanno quindi quasi più nessun contatto con loro, se non al telefono...". Telefonate anch’esse limitate, senza tempo e modo di colmare il vuoto. Una detenuta scrive su "Ristretti Orizzonti": "...mio figlio mi dice al telefono "Devo scrivere un tema sul tipo di lavoro della mia mamma", io penso che sono carcerata, ma non glielo dico, e dico invece "Scrivi che lavoro in una fabbrica"... poi la bambina più grande scoppia in un pianto che non avevo mai sentito, non parlava più, piangeva solo... comincio a tremare, sudare, ho perso la voce, ma ripeto forte il suo nome "Dai, non preoccuparti, scrivimi, dimmi cos’hai"... poi sento l’agente che dice "Saluta, il tempo è scaduto!", abbasso il telefono e rimango lì a fissarlo...".
Secondo gli operatori, la detenuta soffre del suo essere mancante per coloro che lascia fuori: al senso di colpa per aver "abbandonato" i propri figli, si aggiunge la concreta preoccupazione per ciò che ne è di loro o degli altri suoi cari, senza la propria presenza; preoccupazione che i detenuti sentono in maniera minore, sapendo il più delle volte i figli accuditi dalla propria compagna o moglie, o madre. Donatella Zoia, parlando di come il carcere sia separazione violenta dalla propria realtà sociale, precisa: "...le donne ne sono colpite più violentemente degli uomini perché, nella società, sono solitamente loro, le donne, a portare il maggior peso di responsabilità affettiva: quando una donna entra in carcere ci sono sempre, fuori, i figli, una madre, un padre e, a volte, anche un marito che contavano su di lei, che hanno bisogno di lei e che restano "abbandonati" e senza sostegni. E così la donna detenuta oltre al peso della carcerazione, vive lo star male della colpa. Si sente colpevole per averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere".

LA DONNA E LA VITA IN CARCERE

Donne e salute: nessun tempo in nessuno spazio
Il tempo... chissà addirittura se possiamo parlare di "tempo" relativamente al carcere, relativamente ad un’istituzione che per sua stessa natura lo congela, lo ferma al momento del reato, momento per il quale si paga per anni un debito e una colpa. Il tempo, che per un certo numero di anni - e chi può dire se un solo anno sia poco - viene scandito, si riavvolge su se stesso, si ripete e si ripete, si allunga ripetendosi fino ad annullarsi completamente. Sia per gli uomini che per le donne, una volta entrati in carcere, la vita, quella quotidiana e materiale, cambia completamente, viene stravolta, anzi la vita vera e propria viene allontanata e con essa gli affetti, il contatto con le persone care e con la gente, i propri momenti, il proprio tempo. In "Asylums" Goffman scrive: "…è molto diffusa fra gli internati la sensazione che il tempo passato nell’istituzione sia sprecato, inutile, o derubato alla propria vita; si tratta di un tempo che deve essere cancellato; di qualcosa che deve essere "passato" o "segnato" o "accelerato" o "ritardato".
Nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici un modo generale di giudicare il livello di adattamento dell’internato all’istituto, può essere espresso in termini di come passa il tempo, se bene o male. Si tratta di un tempo messo tra parentesi, da coloro che lo hanno vissuto, con un intendimento costante e consapevole…come risultato, l’internato tende a sentire che per la durata del suo internamento egli è stato completamente esiliato dalla vita". I detenuti parlano spesso di come sia difficile far passare il tempo in carcere, di come sia difficile darsi da fare per impegnarlo in qualche modo e non lasciarlo andare via per sempre, di come sia infinito e di come comunque, non sia un proprio tempo e di come quindi sia difficile da gestire.
Nel volume "Donne in carcere", V. Giordano riporta una considerazione che Andrei Sinjavsij ha fatto durante l’esperienza del lager: "Forse qui dentro il tempo viene concepito come spazio - è questo l’enigma. È come camminare attraverso il tempo, ma la cosa più strana è che invece rimani fermo dove sei, senza muoverti, con le gambe legate, e ti senti trascinato indietro, nel passato, così che, tornando in te, ti stupisci che sia già trascorso un anno e sia di nuovo autunno". Tempo che diventa spazio e spazio che manca. Tempo che amplifica la prigionia del corpo; corpo da sempre centro della punizione, del dolore, dell’espiazione che, spogliato, in ogni senso, denudato della propria capacità di espressione e frustrato nei propri bisogni, diventa allo stesso tempo, indifeso e sensibile, attento ai cambiamenti, testimone degli eventi. "Nell’antico sistema, il corpo del condannato diveniva cosa del re, sulla quale il sovrano imprimeva il proprio marchio e abbatteva gli effetti del proprio potere. Ora diverrà piuttosto un bene sociale, oggetto di una appropriazione collettiva e utile". Appropriazione collettiva sì, ma per essere immediatamente relegato alla cella e dimenticato.
La questione tempo e la reclusione del corpo sono per la donna un problema centrale della detenzione. La donna fuori dal carcere vive il tempo sul proprio corpo, con le mestruazioni, con la maternità, con l’invecchiamento, con la menopausa.
Ma quanto durano 28 giorni in carcere?
"Le detenute intervistate - racconta V. Giordano - hanno di volta in volta sottolineato come l’essere recluse inneschi una serie di reazioni a catena che riguardano innanzitutto il corpo e l’equilibrio determinato dal suo maggiore o minore stato di salute. Un corpo che, per lo più, tende ad "ammalarsi" anche in presenza di una certa sollecitudine da parte dell’istituzione nella "cura". Un corpo che necessariamente risente di tutte le difficoltà che il tempo della pena produce nel breve e nel lungo periodo. Un corpo che, costretto al silenzio, all’immobilità e alla solitudine, fa del sintomo il suo portavoce". "Non a caso afferma Donatella Zoia nel numero speciale sulle donne di "Ristretti Orizzonti" - i disturbi del ciclo mestruale sono il primo "sintomo" che la maggior parte delle donne detenute subisce nel primo periodo di detenzione: è come se le donne detenute vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini), ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità". Ecco allora che la sofferenza relativa allo sconvolgimento del tempo, diventa fondamentale per il benessere fisico e psichico della donna e si inserisce nelle problematiche della salute della detenuta.
Gli operatori sono tutti concordi nell’affermare che i nemici peggiori delle detenute sono ansia e depressione. Il ricorso al medico è infatti costante, quotidiano, quando possibile. Si riscontra come una particolare insofferenza alla detenzione da parte della detenuta, insofferenza che viene accentuata dal distacco dalla famiglia, ma che colpisce la donna in quanto tale. "E c’è chi riempie il buco del cuore con il cibo o si lascia consumare dall’esaurimento nervoso", spiega Teresa, detenuta alla Giudecca. I questionari che ci sono pervenuti parlano infatti di disturbi fisici e malattie tutti prevalentemente di carattere psicosomatico, amenorrea e disturbi mestruali in genere, cefalea, irritabilità, stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, depressione, stati d’ansia. Le detenute raccontano spesso di "concelline" che a questa angoscia non riescono a reagire, passando le loro giornate a letto "a deprimersi ed esaurirsi". La lontananza dagli affetti inoltre ed il senso di colpa per aver "abbandonato" i figli si traducono in disturbi della respirazione, in crisi d’ansia, crisi di angoscia, che insorgono la sera, dopo la chiusura delle celle e che passano con la somministrazione di sedativi e ansiolitici: farmaci che sedano, appunto, questo dolore, questa lacerazione affettiva insostenibile.
Il tempo carcerario lascia in sospeso anche i rapporti che la donna ha con chi ha lasciato fuori. Una detenuta del carcere di Rebibbia scrive: "Rimozione dolorosa quella dell’affettività, ma necessaria per la sopravvivenza e per resistere al tempo. Tempo che non conosce momenti in cui abbracciarsi, ritrovarsi con le proprie emozioni [...] Neutralizzare l’assenza di reciprocità dei sentimenti, automatismi di un tempo concreto e irreale nello stesso momento".
Sul corpo che non può esprimersi in cella grava anche il divieto alla sessualità e della possibilità di scelta della maternità. Scrive una detenuta: "...altro aspetto non considerato è il divieto oggettivo di potere avere possibilità di concepire in carcere un figlio, specialmente per chi ha pene lunghe da scontare, che corrisponde ad una negazione totale ed irreversibile della maternità quando la detenuta è prossima al limite del periodo a rischio. E questo vale anche per la negazione della paternità, è un arbitrio e una violenza sul detenuto/a che non ha pari e forse da nessuna parte è scritto che debba essere così ed è un’ulteriore offesa alle donne, anche se prigioniere".

Piccoli gesti e intimità: il sesso, il corpo, la cella
In questo piccolo universo chiuso e sospeso la donna riempie il vuoto e la mancanza di affetto attraverso piccoli gesti rivolti a persone e cose.
L’omosessualità è molto diffusa tra le detenute; per di più è "stranamente" vissuta in maniera molto aperta. "Stranamente" perché, a differenza degli uomini detenuti, le donne non nascondono i legami particolari che si instaurano tra di loro, si abbracciano, si scambiano tenerezze, litigano, si difendono senza preoccuparsi di nasconderlo e spesso chiedono di esser messe nella cella delle proprie compagne. Gli operatori affermano che, a differenza dell’omosessualità maschile, quella femminile manca di violenza, è più espressione di tenerezza e di bisogno di affetto, di contatto fisico, di punti di riferimento, di complicità.
Possiamo aggiungere che l’omosessualità soddisfa un bisogno importante per la donna che è quello di sentirsi oggetto del desiderio dell’altro, capace di dare e ricevere amore, cure, attenzioni. Capita, a volte, che provvedimenti disciplinari separino detenute che desiderano invece rimanere nella stessa cella, ma questo avviene perché la cella è un luogo pubblico e in base a ciò la lamentela di una sola persona innesca un meccanismo che costringe al mantenimento della regola: tuttavia, in linea di massima, l’omosessualità femminile in carcere è abbastanza tollerata.
Anche l’attenzione al proprio corpo è una costante che caratterizza la vita della donna in carcere, causa questa di meraviglia per molti operatori. Eppure, nonostante le obiettive difficoltà, come quella di andare dal parrucchiere, le donne non rinunciano alla cura del proprio aspetto fisico, attaccandosi alla propria femminilità, rimarcandola.
Inoltre, le celle delle detenute, sono completamente diverse da quelle dei detenuti. Come testimonia Donatella Zoia su "Ristretti Orizzonti": rispetto a quelle maschili, le celle sono più ordinate e pulite, più colorate, tenute meglio. I rumori più attenuati, anche se sempre violenti, riesci a sentire voci e parole, canzoni e musica. Non è facile risalire alle radici di questo meccanismo. Molti anni fa, alcune donne avevano letto questa situazione come un meccanismo di autoalienazione delle donne, che riproducevano, nella loro cella, il loro piccolo carcere familiare e riducevano le loro attività a quelle di pulizia per avere una "casa" che gli altri giudicassero "bella". Sicuramente alcuni gesti rappresentano la ripetitività coatta con cui ciascuno reagisce alla situazione di prigionia: ciascuno ripete, innumerevoli volte, nelle ore in cui resta chiuso in cella, i gesti che gli sono familiari. E alle donne i gesti del "riordinare", del "pulire" e del "cucinare" sono sicuramente molto familiari. Il carcere non è certo il luogo dove si può provare a uscire dal proprio ruolo, quindi ti porti addosso comunque il ruolo sociale che già ti era imposto.
La cura delle proprie cose, della cella, del proprio lettino, del proprio corpo risponde ad una necessità della donna che emerge in maniera lampante: il bisogno di intimità. Bisogno che è necessità di ritrovare un proprio spazio, una propria identità attraverso le proprie cose e la pulizia di esse, attraverso la pulizia e la cura, l’abbellimento del corpo; un "ritrovarsi" nella confusione e nella spersonalizzazione che il carcere crea. Forse è anche in questo che rientra la non accettazione delle regole da parte delle donne, di cui spesso gli operatori parlano: la forza con cui si oppongono ad un annullamento della propria persona e della propria femminilità da parte di un’istituzione più forte e maschile.

Essere donna in una istituzione maschile
O forse la questione è proprio questa: la donna detenuta si trova a vivere in un contesto maschile, in un’istituzione fatta dagli uomini per gli uomini. Come spiega Donatella Zoia nel numero citato di "Ristretti Orizzonti"; "Il carcere è una struttura assolutamente maschile. Di questo ci si rende conto non appena si entra in qualunque carcere indipendentemente dalla "causa" che ci porta dentro. Non si tratta di una semplice sensazione. È la realtà del carcere, che si esprime nella struttura, nelle modalità di rapporto, nei colori, nelle regole e te ne rendi conto sia che ci entri come detenuta, che come operatore, che come volontario. Sei in un ambiente maschile, con modalità relazionali maschili, basate sul potere".
È evidente infatti che la detenzione per la donna è carica di una sofferenza diversa da quella maschile, una sofferenza legata all’essere donna, che si aggiunge poi a condizioni specifiche difficili da gestire, come l’essere madre, tossicomane, prostituta. Tale differenza e sofferenza nel vivere la detenzione è però tanto intuibile, quanto difficilmente esplicabile.
Abbiamo pensato di chiedere agli operatori quale sia, in base alla loro esperienza, la differenza tra la detenzione vissuta da un uomo e quella vissuta da una donna. Riportiamo alcune risposte: "La donna vive il carcere con un sentimento di maggiore sofferenza" (Pisa); "dalle donne il carcere è vissuto con maggiore angoscia e con vera disperazione" (Avellino); "la donna vive la detenzione, o meglio, esprime in modo drammatico l’affettività e il disagio del vivere coatto" (Rovigo); "la detenzione femminile porta con sé sentimenti di forte sofferenza, dolore e sensi di colpa per il distacco dei figli e la perdita di un ruolo determinante nella cultura di appartenenza" (Trapani); "la donna risente di più della lontananza dagli affetti familiari; è più incline alla depressione" (Castiglione delle Stiviere); "apparentemente la donna richiede l’espressione visibile di maggiore affettività. Anche l’emotività è meno controllata e, di conseguenza, le risposte a stimoli interni/esterni sono molto più appariscenti" (Camerino); "particolare intolleranza delle donne al regime detentivo; si rileva inoltre una minore motivazione verso l’impegno costruttivo del tempo, con tendenza all’apatia" (Mantova); "la donna tende ad esasperare di più rispetto all’uomo la condizione detentiva, alla quale si adatta con maggiore difficoltà; nella donna c’ è forse maggiore aggressività; la sensazione è che la donna tenda a chiudersi di più in se stessa" (Udine); "la donna vive la detenzione con maggiore ansia e problematicità anche perché sente molto di più la responsabilità verso i figli; la donna continua ad avere, durante la detenzione, una grande attenzione per il proprio corpo, con un conseguente aumento di problemi fisici di natura psicosomatica" (Rebibbia); "la detenzione femminile richiede maggiori esigenze di intimità e viene vissuta con maggior ansia e aggressività" (Nuoro); "la donna si sente strappata dagli affetti dei propri figli e familiari, il che la rende particolarmente vulnerabile" (Monza).
Un particolare interessante è che la fragilità derivante dal distacco dagli affetti è intesa spesso anche come perdita di punti di riferimento, senza i quali la donna sembra sentirsi perduta, condizione che non viene in luce tra le problematiche della detenzione maschile.
La sensazione è che l’essere donna non sia conciliabile con un’istituzione creata per porre un limite ed un rimedio a violenza e pericolosità sociale, caratteristiche che - come abbiamo visto alla luce del basso numero di presenze di donne in carcere e della tipologia dei reati commessi - nella donna si riscontrano molto raramente.
Quella che gli operatori chiamano "particolare insofferenza delle donne verso il carcere", non è forse mera insofferenza, ma il sintomo di una difficoltà a rispettare regole non proprie, regole maschili. Immaginiamo un gruppo di donne, nella società, a cui venga imposta una vita "maschile", cioè che segua codici e modelli di comportamento maschili e che soddisfi aspettative maschili. Quale sarebbe la reazione di queste donne? È così incomprensibile la reazione della donne in carcere? La questione non sta semplicemente nel fatto che le donne in carcere non rispettano dei codici di comportamento, ma che tentano di attuarne altri, diversi, propri. L’omosessualità può essere un buon esempio di ciò, quale risposta della donna al proprio bisogno primario, quello di dare e ricevere attenzioni, cure, amore, quello di essere desiderata, quello di avere un complice ed un punto di riferimento forte: una forma di adattamento "al femminile" al carcere.
Anche i rapporti che le detenute instaurano fra di loro esprimono un modo diverso di relazionarsi all’altro, mentre i detenuti tendono ad essere generalmente "uniti" in grandi gruppi mantenendo allo stesso tempo un forte individualismo, le donne in carcere, come fuori, non vanno tutte d’accordo tra di loro, ma tendono a creare dei piccoli gruppi, anche di due - tre persone, molto uniti, con dei legami molto forti.
Come gli operatori confermano, anche i rapporti tra le detenute e le agenti di polizia sono diversi nel mondo femminile, molto spesso basati sul dialogo e sulle confidenze. Un diverso linguaggio quindi, inteso come modo d’essere.
Per finire, è importante soffermarsi, a questo proposito, sul fatto che le donne che in carcere invece hanno trovato il loro luogo di lavoro, si trovano a vivere anch’esse, certamente in maniera meno costrittiva, il peso dell’istituzione maschile. Donatella Zoia fa notare: "... le agenti donne si trovano a dover esercitare un ruolo pensato e realizzato da uomini, sottoposte comunque al giudizio continuo dei loro colleghi. Sono quindi costrette tra due modalità: da una parte devono adeguarsi al ruolo imposto assumendolo come proprio ed esercitandolo copiando o riproducendo modelli maschili (e rischiando di trasformarsi così in caricature di ruoli prive di identità propria) e, dall’altra, poiché si trovano ad agire in una specificità totalmente femminile, vengono costrette ad utilizzare modalità di relazione e di rapporti tipicamente femminili e quindi non basate sulla contrapposizione di ruoli (agenti/detenute etc.), ma sulla comunicazione e sulla mediazione. Forse è per questo che nelle carceri gira sempre la battuta che è molto più difficile gestire una sezione con cento donne che una con mille uomini: probabilmente, quello che sta dietro queste parole è la consapevolezza che i meccanismi con cui si mantengono le regole sono diversi nell’universo carcerario femminile rispetto a quello maschile".



http://www.alternativebo.org/doc/doc.php?d=d0000105


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