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Dal discorso pronunciato da Mario Luzi durante il convegno “Quante guerre, quale pace”, tenutosi a Firenze, nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, il 6 maggio 2004



Lingua: Italiana
Destinatari: Alunni scuola media superiore
Tipologia: Documentazione
Abstract:

Dal discorso pronunciato da Mario Luzi durante il convegno “Quante guerre, quale pace”, tenutosi a Firenze, nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, il 6 maggio 2004

 

 

  “….. confesso di parlare dal fondo di un’esiziale delusione, di un atroce disinganno, che hanno come unico conforto la certezza di essere amplissimamente condivisi in tutto il pianeta.

   Negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, proprio contestualmente ai negoziati tra vincitori e sconfitti, si fece strada l’esigenza di dotarsi di istituti internazionali di mediazione per ogni controversia, oltre che di studio e di elaborazione dei problemi generali del mondo. La Società delle Nazioni, nata dopo il primo conflitto, non aveva fatto buona prova, le dittature l’avevano sbeffeggiata, ma nel 1945 c’era diffusa una disposizione al rifiuto della guerra, l’orrore di quella appena terminata, insieme alla constatazione dei disastri che aveva prodotto in ogni campo, che eccitarono l’inventiva politica a realizzare alcuni organismi di salvaguardia. Nacquero le Nazioni Unite, l’Unesco, la Fao; nacque, è vero, anche la Nato, ma con intenzioni esclusivamente difensive. Si enunciarono in una solenne Charta i diritti umani. Si celebrarono con enfasi gli anniversari della nascita di queste istituzioni, a proposito delle quali, bisogna dire, abbiamo fatto più chiasso per i casi vistosi e scandalosi di violazione che per il lento difficile cammino del loro affermarsi. Amnesty International ha avuto certo molto lavoro, ma ritenevamo il suo zelo proficuo e produttivo, e non influiva molto sulla fiducia riposta nelle nuove istituzioni qualche mezza notizia che filtrava sui massacri africani.

   Precedettero il primo conflitto del Golfo lunghissime trattative, durante le quali mi resi conto, mi divenne chiaro, quanta disparità divideva chi quelle trattative le voleva davvero e le riteneva necessarie a dirimere lo scontro, e chi invece era impaziente e pronto a menare le mani. Tralascio ogni altra considerazione, ma voglio sottolineare come emergevano due attitudini contraddittorie, una adeguata allo spirito, diciamo così, civile del dialogo e del confronto, un’altra fedele alla dottrina di Clausewitz e alla pratica delle cannoniere. Il prevalere di questa seconda e del suo anacronismo offese profondamente la coscienza di molti.

Otto anni dopo, in occasione della guerra alla Jugoslavia, anche per esortazione di amici e confratelli  stilai una dichiarazione-manifesto nella quale accusavo l’evidenza e il cinismo di quella palese regressione della civiltà che credevamo evoluta.

Sono qui per essere sincero, a costo di apparire poco avveduto. Ebbene, quell’appello-dichiarazione fu sottoscritto da duecento persone, di qualche rilievo nella cultura e nella vita pubblica nazionale e internazionale. La stampa italiana, perfino quella a cui ero solito collaborare, ne dette minima notizia e non ne pubblicò il testo. Solo “Il Manifesto” lo riportò per intero. Nei giornalisti, che erano stati in larga misura critici riguardo all’operazione in fieri, si era operata la prevedibile mutazione in nome dell’opportunità, del sì, ma… ed erano passati all’ammissione e poi all’assenso dell’intervento militare. Ciò che mi ha procurato di angoscia e di indignazione questa nuova caduta del processo civile l’ho detto, credo, abbastanza forte in varie occasioni. Ma devo riconoscere che lo spettacolo dell’allineamento dei maitres à penser e dei giornalisti di seconda linea non si è ripetuto. Ormai le manifestazioni popolari in vaste zone del pianeta significano che la guerra non solo è temuta come evento terribile e deprecata come evenienza, riprovata come fatto, ma ha finito per essere concettualmente inammissibile, fuori della comune logica umana. L’anacronismo della guerra come prosecuzione della politica è divenuto clamoroso, plateale. Solo una larga parte della classe politica e di governo è schiacciata dalla potenza inerziale di quell’antico principio. Sono detti pacifisti – e c’è una certa commiserazione del termine, analoga a quella, certo più offensiva e derisoria, che i fascisti mettevano nella parola “pantofolai” – tutti coloro che riflettono su questi temi. I pacifisti non sono una setta né una tribù. Di questo passo, con questi luoghi comuni, non si va lontano, non si resta neppure sul posto, si torna indietro di un bel po’ nel cammino civile del mondo”.

 




http://www.forumdelmovimentocontrolaguerra.net/forumguerra/documentazione/Luzi/Luzi


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