Lettera a Napolitano - Nessuno ricorda lo sterminio dei Rom e dei Sinti di Dijana Pavlovic
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lunedì 2 febbraio 2009
Lettera a Napolitano
Nessuno ricorda lo sterminio dei Rom e dei Sinti


 
«Dalle baracche vedevamo gli ebrei
 colonne incamminate diventare colonne verticali, di fumo.
Erano lievi, andavano a gonfiare gli occhi del loro dio affacciato.
Noi non fummo leggeri, la cenere degli zingari non riusciva ad alzarsi in cielo.
Ci tratteneva in basso la musica suonata e stracantata intorno ai fuochi degli accampamenti.
Noi, zingari d'Europa, da nesun dio presi a sua testimonianza,
bruciammo senza l'odore della santità,
bruciammo tutti interi,
chitarre con le corda di budella».

 

 

Illustrissimo signor Presidente, nella Giornata della Memoria le massime autorità dello Stato hanno ricordato la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il 27 gennaio di quest'anno per noi, Rom e Sinti d'Italia, nessun riconoscimento istituzionale per i nostri morti (più di un milione di cui, oltre 500.000 nei campi di concentramento nazisti). Come se non fosse successo, come se non fosse stato anche per loro, come per gli ebrei, la più grande vergogna della storia dell'uomo: lo sterminio su base razziale.

Una vergogna che riguarda anche l'Italia. Nella circolare del ministero degli Interni dell'11 settembre 1940 è scritto: «est indispensabile che tutti zingari nazionalità italiana certa aut presunta, siano controllati et rastrellati più breve tempo possibile et concentrati sotto rigorosa vigilanza in località meglio adatte ciascuna provincia».

Cominciarono retate e deportazioni negli oltre 50 campi di concentramento italiani, tra cui: Perdasdefogu in Sardegna, Bojano e il convento di San Bernardino ad Agnone, Gonars, provincia di Udine, Tossicìa, provincia di Teramo. E ancora: Viterbo, Montopoli Sabina, provincia di Rieti, Collefiorito provincia di Roma, le isole Tremiti, Ferramonti di Tarsia provincia di Cosenza, poi Gries a Bolzano, detta anche «l'anticamera di Auschwitz» dove sono morti oltre 20.000 Rom e Sinti.

Lo sterminio i rom lo chiamano Porrajmos: divoramento, distruzione. Un ricordo carico di paura e di dolore, ma anche qualcosa di più perché non ce lo riconoscono, perché ignorandolo è più facile aggirare la spinosa questione di tanti "piccoli porrajmos" quotidiani nella segregazione dei "campi nomadi", con le persone discriminate, aggredite con le bombe molotov, linciate sui mezzi pubblici, buttate in strada in pieno inverno con i loro bambini, accusate, come succedeva nel ’38 di essere «delinquenti antropologici» ‑ tutti criminali. Ricordarlo vorrebbe dire fare in modo che non si ripeta mai neanche una minima parte di questi orrori.

Per questo ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente, certi della Sua sensibilità e attenzione, per un gesto di riconoscimento.

 

di Dijana Pavlovic

 

 

 



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