SAMI: DAL CPT REGINA PACIS A CITTADINO ITALIANO. NONOSTANTE LA BOSSI-FINI
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Amore senza confini


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SAMI: DAL CPT REGINA PACIS A CITTADINO ITALIANO. NONOSTANTE LA BOSSI-FINI


Una storia dal lieto fine: non è facile trovarla quando devi scrivere dei migranti e delle  loro vite, spesso rinchiuse nei recinti della cronaca, tra racconti di tragici sbarchi e inchieste che smascherano le nuove schiavitù nel moderno e democratico occidente. Anche dalle pagine di questo giornale sono emerse storie di ordinaria violenza e sfruttamento: dai tunisini rinchiusi nel Cpt alle badanti presenti nel Salento e strette in un’autentica organizzazione che programma e sfrutta il loro lavoro. Vi abbiamo raccontato del processo al Regina Pacis e delle condanne poi comminate ai colpevoli di tanta crudeltà e violenza: una sentenza che ha reso giustizia e che ha riconsegnato una piccola speranza di vita ad un gruppo di migranti. Quella speranza che non ha mai abbandonato Zarzug, 27 anni, tunisino, clandestino per quattro anni in Italia, ma oggi finalmente cittadino libero, grazie al matrimonio con una ragazza salentina.


L’arrivo in Italia a bordo di un barcone, insieme ad altri 64 connazionali; l’approdo sulle coste siciliane dopo tre giorni di stentata navigazione e un motore completamente in avaria. A Lampedusa il primo contatto con il suolo italiano e subito trasferimento nel Cpt di Agrigento: giusto il tempo per una sommaria identificazione e poi la partenza, destinazione San Foca, Centro Regina Pacis.   La notte tra il 21 e il 22 novembre del 2002, dopo un mese di autentica prigionia,  Zarzug decide di tentare la fuga dal Cpt, insieme ad altri migranti: scappano in quaranta, saltando giù da un balconcino alto tre metri e divincolandosi tra grate e militari.Qualcuno riesce a scappare e a confondersi tra la vegetazione che costeggia la strada provinciale che da Roca porta a San Foca. Qualcun altro, meno fortunato, viene immediatamente ripreso dalle forze dell’ordine e ricondotto nel Centro. Zarzug, dopo due giorni trascorsi nelle campagne, viene individuato da una pattuglia di militari e riportato nel Cpt.

 

Di questi fatti accaduti nel Regina Pacis si ha conoscenza solo dopo qualche giorno: il 30 novembre, in occasione di una manifestazione di protesta contro la legge Bossi-Fini e i Cpt convocata dal Lecce Social Forum.
I migranti, affacciandosi dalle grate del centro, riescono a comunicare con i manifestanti e a denunciare quanto accaduto qualche giorno prima. “Ci trattano come animali, ci fanno mangiare il maiale per forza”, e giù gli indumenti per mostrare le ferite riportate in occasione della fuga e nei momenti di colluttazione con i carabinieri dell’undicesimo battaglione Puglia, di stanza a San Foca.


“E’ stata la Polizia, quando noi abbiamo tentato di scappare”: primo grido di denuncia, raccolto poi da una delegazione che ha fatto ingresso nel Cpt.

Tutto sembrava potesse perdersi nel buio, specie quando una sera Zarzug e gli migranti vengono stranamente liberati, messi su un pulmino e accompagnati alla stazione di Lecce: fortuitamente avviene l’incontro con alcuni militanti del social forum che li riconoscono e li convincono a restare per il prosieguo dell’attività giudiziaria.
Undici maghrebini decidono di restare a Lecce, a disposizione dell’autorità giudiziaria per l’avvio del processo. Zarzug è tra loro.


Le accuse sono impietose per una storia che racconta la faccia più malvagia e più perversa dell’accoglienza made in salento: violenza, abuso dei mezzi di correzione, falso, lesioni personali, crudeltà di agire.


Il 13 maggio 2004 si apre il primo processo in Italia ai gestori di un Cpt (diciotto imputati): un processo durato un anno e che, dopo nove udienze, ha prodotto una sentenza storica: Don Cesare Lodeserto è colpevole non solo di non aver impedito, pur avendone l’onere giuridico, che alcuni operatori del centro usassero violenza nei confronti degli immigrati, ma di aver lui stesso picchiato i migranti: la condanna ammonta a un anno e quattro mesi di reclusione. Condannati anche tutti gli operatori del Regina Pacis imputati nel processo, sette dei dodici carabinieri coinvolti nella vicenda e i due medici accusati di aver redatto falsi certificati.


Zarzug e gli altri partecipano al processo come parti lese a cui viene riconosciuto un risarcimento per i danni subiti: la Questura di Lecce rilascia loro un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, rinnovabile ogni tre mesi. Un documento che non consente di trovare un lavoro regolare, perché la Bossi-Fini ha previsto tale permesso per chi, in un processo, è coinvolto da colpevole e non da parte lesa. Quattro anni in Italia, lontano dalla propria famiglia e dalla propria terra, sempre alla ricerca di una casa, senza un lavoro, ma con tanti desideri, e altrettante speranze.
Eppure Zarzug non molla: al lavoro nei campi, dalle sei del mattino alle sei del pomeriggio per recuperare qualche euro e ridare fiato alla passione di dj, poi in un camping a lavorare nella ristorazione. Sono tanti gli amici che ha conosciuto in questi anni: suoi connazionali, ma anche molti salentini: tra questi Ilaria, quella che sarà sin da subito la sua guida, la sua spalla, la sua ragione di vita. E’ vero amore, lo dice spesso Zarzug: racconta del suo desiderio di condividere una vita con Ilaria, regalandole una vera famiglia.
Un desiderio che presto diventa realtà: “Ci sposiamo”.  Zarzug chiede di tenere il massimo riserbo per una notizia che lo riempie di gioia, e lo si vede dai suoi occhi brillanti e spalancati come un bimbo alle sue prime emozioni al contatto con la vita.
Zarzug è felice: ha trovato una nuova famiglia, i genitori di Ilaria sono delle persone splendide e lui ha tutte le motivazioni per ricambiarli di tanto affetto.

Il Regina Pacis è ormai alle spalle, un brutto ricordo dal quale liberarsi quanto prima.


Tutto pronto, o quasi: Zarzug vorrebbe tanto che i suoi genitori partecipassero al matrimonio e che suo fratello maggiore gli facesse da testimone. Le condizioni di salute della madre e gli impegni sopraggiunti al fratello rendono impossibile un loro ricongiungimento.
Arriva così il 5 giugno: nella sala cerimonie del palazzo comunale di Villa Castelli (paese natìo della sposa), di fronte a pochi intimi e in un’atmosfera surreale, Zarzug e Ilaria si promettono amore e fedeltà per tutta la vita, di fronte ad un Sindaco piuttosto coinvolto.
Sono bellissimi: lei emozionantissima e raggiante di felicità; lui tutto d’un pezzo, stretto in un gessato nero, elegantissimo come non era mai stato.
Sono felici e finalmente liberi di potersi dire insieme, di costruirsi un futuro: liberi di vivere.
Sami Abdelledi oggi è un uomo libero.


Sami, non più Zarzug, perché è finita la clandestinità. Non serve più una falsa identità; non serve più il permesso di soggiorno per motivi di giustizia; non serve più fare le code all’Ufficio stranieri; non serve più nascondersi.


Sami ha incontrato una nuova famiglia; lavora in una piccola azienda e sta per avere, finalmente, i suoi documenti: ciò che consentirà al ragazzino venuto dalla Tunisia di poter fare rientro in patria e rivedere i suoi cari e raccontare loro della sua nuova vita.


Il Regina Pacis è storia passata, almeno per Sami.

 



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