Un'esperienza di lavoro in Togo:L’AIDS, il volontariato e il sorriso d’Africa
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Un'esperienza di lavoro in Togo:


Immagine:Flag of Togo.svg

L’AIDS, il volontariato e il sorriso d’Africa


11 Agosto 2007


Togo, Africa Occidentale


 


Sono le sei del mattino qui a Lomè, capitale di un piccolo stato dell’Africa Occidentale. Il sole è già alto in cielo ed emana un caldo tremendo e umido che ti incolla i vestiti alla pelle. Il primo impatto è devastante, ma ci si abitua in fretta, così come a tutto il resto. Tento invano di liberarmi dalla rete della zanzariera che pende floscia dai cavi della corrente appesi al soffitto. Un’arte che si apprende con la pratica giornaliera e l’aiuto paziente dell’abile amico africano.


È il mio primo giorno di questo meraviglioso viaggio a stretto contatto con il popolo togolese. L’idea nasce da un progetto di laurea sull’analisi dell’impatto dell’Aids in una delle molteplici realtà del continente nero. Poter vedere con i miei occhi ciò di cui avrei parlato nella mia tesi, provarlo sulla mia pelle, sentirne l’odore, vederne i colori, gustarne il sapore. E così sono partita per un campo di lavoro in un piccolo villaggio del Togo. In Italia mi sono appoggiata alla branca locale del Servizio Civile Internazionale che collabora con ASTOVOT, una Ong togolese nata dal lavoro di giovani volontari in lotta contro i disagi del loro piccolo paese. Sono loro i responsabili di tutti i volontari espatriati e, per tutta la durata del campo, si prendono cura di noi con l’amore e la pazienza di fratelli maggiori.


L’Africa, si sa, è sinonimo d’imprevisto. Inutile programmare le giornate con orologio alla mano nel tipico stile occidentale, inutile prendersela per ritardi o infinite attese. La cultura locale chiede di sapersi adattare a improvvisi cambiamenti e a quelle che per noi sono stupide perdite di tempo, ma che, in realtà, ci spaventano per l’incapacità di affrontare il tempo libero senza l’ausilio di svaghi come la televisione o il computer. Io mi sono dovuta adattare, ho mandato giù la cancellazione del campo a cui mi ero iscritta e ho sorriso lo stesso quando ci è stato proposto di unire due gruppi e lavorare su due progetti contemporaneamente: sostegno scolastico per i bambini dall’asilo alle scuole medie e sensibilizzazione di contatto sulle problematiche dell’Aids e delle malattie sessualmente trasmissibili. Il doppio lavoro è stato sicuramente più impegnativo, ma anche molto più interessante.


Il 14 agosto partiamo per dare inizio al campo Asto 14, siamo trenta volontari provenienti da ogni parte del mondo e la nostra bizzarra suddivisione di genere lascia trasparire il maschilismo di cui è ancora impregnata la società togolese: donne bianche e uomini neri. Lasciamo la sede dell’Astovot a Kpalimè ammassati su due furgoncini gialli strabordanti di provviste, rudimentali utensili da cucina e ogni sorta di strumento musicale con i tetti carichi dei nostri zaini e qualche valigia. La strada è in buone condizioni e in breve raggiungiamo la nostra meta, Agome Tomegbe, un grosso villaggio di circa 1200 abitanti situato nella prefettura di Kloto, nei pressi del confine con il Ghana.


Il nostro arrivo viene annunciato allo chef du village, un uomo giovane avvolto in un panno di cotone colorato e circondato dai suoi notables, i suoi portavoce. La riunione si svolge nel modo consueto alle tradizioni togolesi, con saluti e presentazioni estremamente formali seguiti dall’esposizione del motivo della presenza dei volontari. Il rito finale comporta il versamento di un sorso di Togo Gin (il gin locale) agli spiriti della terra, offerto dal Capo del villaggio come ringraziamento all’associazione e condiviso, in seguito, con tutti i presenti. Erano le otto del mattino.


Lo stile di vita del campo è molto duro, non ricorda minimamente le comodità delle nostre accoglienti case italiane, ma ai veterani del campeggio sembrerà una passeggiata. La risorsa primaria d’acqua potabile, per i togolesi, è rappresentata da una fonte sotterranea che viene portata in superficie grazie all’azione di una pompa d’acqua. La si utilizza per cucinare, per bere e per lavare piatti e stoviglie (aggiungendo qualche goccia di Amuchina per noi occidentali), mentre per la doccia e il bucato viene raccolta l’acqua fluviale e quella pluviale per mezzo di grossi secchi, bacinelle o cisterne da trasportare tenendoli in bilico sulla testa. Un lavoro faticoso che ci impegna a turni ogni giorno dalle sei del mattino mettendo a dura prova la forza di braccia e schiena. Esiste anche l’acqua in bottiglia ma, al costo di 350 CFA (0.53 euro) per un litro e mezzo, resta inaccessibile alla maggioranza, che soffre spesso di vermi intestinali. L’alloggio consiste in un casolare totalmente privo di mobilio circondato da una fitta vegetazione tropicale e, per la notte, ci sistemano per terra su delle sottili stuoie di paglia. Le zanzariere decorano la stanza creando un bizzarro disegno nello spazio e delimitando quel piccolo spazio privato di ciascuno.


Le variazioni climatiche scandiscono i tempi in cui vengono suddivise le attività nell’arco della giornata. La sveglia suona sempre all’alba così da poter sfruttare pienamente le ore di luce e per avere anche il tempo di accendere il fuoco e scaldare l’acqua, operazioni che richiedono anche più di un’ora A partire dalle otto, l’intera mattinata è dedicata al sostegno scolastico, cinque ore di lezioni alle scuole primaires con classi di venti/trenta bambini, e al collège con classi di sei/otto ragazzi suddivise per materie, dalla matematica alla fisica, il francese e l’inglese. Il livello scolastico è piuttosto basso e la presenza di questi giovani dalla pelle così bianca rende il compito più difficile. Gli alunni sono affascinati dai nostri capelli biondi, ci toccano continuamente per capire di cosa siamo fatti, sono curiosi e allegri, ma perdono spesso la concentrazione e il nostro impegno diventa più faticoso.


Nel pomeriggio, dopo un lauto pranzo tipicamente africano a base di farina di manioca e carne di capra (uccisa e cucinata mezz’ora prima…), iniziano le attività di sensibilizzazione di prossimità. Prima di cominciare, i volontari seguono un corso di formazione sull’Aids tenuto da un ginecologo che esercita nell’ospedale pubblico di Kpalimé. Il corso ha l’obiettivo di indicare ai volontari quali sono le linee guida da seguire così da effettuare una corretta sensibilizzazione che tenga conto della diversità culturale degli interlocutori.


Ci si organizza con il lavoro dei gruppi di cinque/sei volontari misti gestiti da un capo gruppo ai quali è assegnata la copertura di diverse aree del villaggio. Ad ogni gruppo sono distribuiti i materiali utili alla sensibilizzazione: matite, penne, quaderni, preservativi maschili e femminili, dépliant informativi e un membro di legno per la dimostrazione di un corretto utilizzo del preservativo.


La tecnica della sensibilizzazione di prossimità consiste nell’andare di casa in casa, o nel soffermarsi per strada, al mercato, sotto un albero, insomma, dovunque capita, per parlare direttamente con gli abitanti delle problematiche in questione. Dopo le presentazioni, la parola è lasciata a una delle espatriate che affronta il problema dell’Aids in lingua francese e viene tradotta in dialetto éwé da un volontario togolese.


Questo tipo di lavoro sul campo mi ha permesso di osservare il Togo e il suo popolo più da vicino, di entrare in casa dei togolesi e ascoltare le loro opinioni, le loro percezioni e le loro storie. Partecipare all’attività di ASTOVOT mi ha offerto un osservatorio privilegiato in quanto l’Ong partecipa all’animazione delle nicchie sociali svantaggiate ormai da decenni. Questa attività sfocia su un efficace approccio partecipativo delle collettività coinvolte. L’obiettivo è di fare in modo che le popolazioni interessate si assumano le proprie responsabilità di fronte alle trasformazioni necessarie in ambito socio-educativo, socio-culturale, socio-economico e socio-sanitario. In questo modo, gli individui diventano « des sujets et des acteurs de leur propre marche en avant ». Così come « le coton devient pagne », l’organizzazione gestita e sostenuta dall’ASTOVOT permette a coloro che prendono delle iniziative alla base di divenire i creatori di una dinamica sociale. Ciò che ASTOVOT ama definire «la vitalité créatrice d’une collectivité».


Per quanto riguarda la sensibilizzazione, il lavoro dei volontari è stato certamente utile, ha raggiunto un  buon  target e, in generale, l’impatto è stato molto positivo e, ciò che conta maggiormente in questi casi, è riuscire a far parlare le persone di questa malattia, far sentire che l’Aids esiste e può colpire chiunque. La consapevolezza dell’esistenza della malattia è piuttosto diffusa, ma non del tutto accettata. Il singolo individuo rifiuta di credere che l’HIV lo possa contagiare, per una supposta immunità, che spesso si radica tra pregiudizi e ignoranza. Ciò che colpisce, sono gli approcci alla malattia in prospettiva generazionale. Emergono numerose differenze tra diverse generazioni, dove gli anziani restano rigidi nelle loro convinzioni e pongono domande superficiali e che denotano la presenza di stigma sociale: quali sono le origini della malattia, come riconoscere un malato per evitarlo, se è possibile infettarsi se si cura una persona sieropositiva che si ferisce, e via dicendo. I giovani sono più attenti e aperti mentalmente, è più facile far arrivare loro il messaggio sull’importanza della prevenzione e dei test d’individuazione della malattia.


Nonostante un bilancio finale piuttosto positivo, nel mio cuore resta un gusto amaro e un dubbio: chi ha detto che l’africano ha bisogno di noi? Quando guardo gli occhi dell’africano che ho di fronte, leggo indifferenza e perplessità, quasi si chiedesse: ma qual è il reale scopo dell’uomo bianco? Cosa vuole realmente dal popolo africano questo ex-colonizzatore che oggi insegna a proteggersi da una malattia la cui origine viene attribuita proprio a lui? Forse, il togolese non vuole l’aiuto del bianco o, forse, vorrebbe un aiuto diversamente strutturato, che si basi su quell’approccio partecipativo intrapreso da ASTOVOT. Forse, solo interpellando direttamente la popolazione interessata, i progetti di sostegno ai paesi del terzo mondo possono avere un reale successo.


 


Benedetta Badino


Dott.ssa in Lingue e Culture per la Comunicazione Internazionale


 


 


 


 

Benedetta Badino
email: benedetta.badino@fastwebnet.i t


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