Fatima e Itena, mediatrici culturali: "Aiutiamo l'incontro tra culture"
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Fatima e Itena, mediatrici culturali: "Aiutiamo l'incontro tra culture"


di Chiara Vergano


BOLOGNA - Hanno un ruolo cruciale nel rapporto tra gli immigrati, le istituzioni e i servizi. Grazie a loro, spesso, cadono barriere e tabù. Sempre grazie a loro un dialogo apparentemente impossibile si snoda tra persone provenienti da mondi diversi. Sono i mediatori culturali, figure profesisonali ormai indispensabili per l’incontro tra culture e linguaggi. Fatima Bouabid, 36 anni, da dieci in Italia, originaria dell’Algeria – “sono berbera” sottolinea con una punta d’orgoglio -, così come la collega Itena Ndroqi, 27 anni, albanese, arrivata in Italia come studentessa. “Lavoro con l’associazione di mediatrici culturali Amiss, nel settore sanitario – racconta Fatima – . Lavoro anche con il Comune di Bologna, per l’area sociale, e nella Casa circondariale per adulti di Bologna, sempre in campo socio-sanitario”. I primi tempi, in Italia? “Non sono stati semplicissimi, come capita a tutti gli stranieri che arrivano, ma mio marito era già qua, e questo mi ha facilitato molto”.


La difficile arte della mediazione
Ma cosa vuol dire “mediare”? “Ci sono due parti che vogliono capirsi, non solo a livello di lingua – dice Fatima – . Ci sono culture diverse, una di fronte all’altra: il nostro ruolo è facilitare la relazione tra cittadini stranieri e cittadini italiani. Far capire agli stranieri come funzionano i servizi, le strutture, non è semplice. Perché? In Algeria, per esempio, il medico di base non esiste. E le persone che arrivano dal Nord Africa si stupiscono quando io parlo di un medico ‘personale’: per loro è un’enorme novità, fanno fatica a crederci”.

La salute femminile
Un ambito molto delicato è quello della salute femminile: “Alcune donne mi chiedono esplicitamente di non essere visitate da un ginecologo uomo, per cui fissiamo per loro un appuntamento con delle ginecologhe. In questo modo, però, si allungano i tempi dell’attesa”. Un altro nodo su cui non sempre è facile intendersi è l’alimentazione: “I musulmani, quando vengono ricoverati in ospedale, non solo non mangiano il maiale, che è rigorosamente vietato, ma non vogliono carne in generale. Come noto, il credente può mangiare carne solo se gli animali consentiti sono stati sgozzati quando erano ancora vivi e a condizione che il sangue fuoriesca completamente. Abbiamo affrontato la questione con il personale medico e adesso, all’ospedale Maggiore di Bologna, stanno organizzando un menu che tenga conto di queste esigenze, e al tempo stesso delle condizioni fisiche e di salute del paziente”.

La lingua, per superare le diffidenze
Fatima opera come mediatrice anche all’interno del carcere bolognese della Dozza: “Interveniamo soprattutto con persone giovani, per la maggior parte uomini, che finiscono in carcere spesso per spaccio di sostanze stupefacenti. Alcuni di loro non parlano ancora bene l’italiano o hanno difficoltà di comprensione. E’ un ruolo delicato, dobbiamo spiegare come funziona la vita all’interno della struttura, l’andamento della giornata, i loro diritti e doveri. Quando entrano nella Dozza gli viene fatto un check up completo, con tutta una serie di analisi, per verificare lo stato di salute. Li seguiamo in questi controlli affiancando i medici. Una persona che parla la loro stessa lingua, l’arabo, che viene da un mondo a loro familiare è importante: aiuta a superare diffidenze, timori. Tanto più all’interno di un carcere”.

Fatima e Itena sono state coinvolte nel progetto PA-BO, sperimentazione interregionale che ha avuto come centri Palermo e Bologna, per combattere le disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, soprattutto per i cittadini stranieri. “In Albania c’è un modo di curarsi diverso – spiega Itena – : si va dal medico solo quando si sta male, la prevenzione praticamente non esiste”. Gli aspetti positivi del lavoro di mediatrice? “Si crea un contatto umano – dice Fatima – . Le persone che vengono da me, mediatrice culturale di lingua araba, si fanno vive una prima volta, poi una seconda, una terza. Nasce un rapporto, un’amicizia. Mi vedono per caso per strada ed ecco che si precipitano, mi salutano, mi chiedono come sto io, come sta mio marito: dopo qualche incontro, per loro non sono più una figura istituzionale”. “Certe volte mi capita di sentirmi impotente, perché non riesco a risolvere il problema che mi viene posto – conclude Itena – , ma la gente ringrazia ugualmente, si crea un rapporto di fiducia…” (29 marzo 2005 - ore 10.11)


http://www.ilpassaporto.kataweb.it/dettaglio.jsp?id=25949&s=0



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