Il Ténéré o il miraggio di una vita migliore - Viaggio ai margini della paura con i clandestini del Sahel
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Il Ténéré o il miraggio di una vita migliore
Viaggio ai margini della paura con i clandestini del Sahel





La cattura di oltre ottocento migranti sulle coste delle Canarie e dell'Andalusia, nella sola settimana tra il 13 e il 19 agosto, ha provocato una crisi tra il governo spagnolo e quello marocchino, accusato di non controllare le proprie frontiere. Dal nord del Niger, in condizioni spaventose, altre decine di migliaia di clandestini del Sahel e dell'Africa nera attraversano ogni anno il deserto per raggiungere la Libia o l'Algeria, e passare in Occidente. Nel maggio 2001 centoquaranta di loro vi hanno perso la vita. Una tragedia che non ha nulla di eccezionale.


dal nostro inviato speciale ALI BENSAAD*
Dirkou (nord del Niger), 26 febbraio 2001. Un camion parte diretto in Libia. Per evitare il posto di frontiera di Tidjeri, si perde, insieme ai suoi passeggeri. Tre persone riescono a dare l'allarme.
Le ricerche effettuate dall'esercito libico permettono di recuperare quaranta superstiti; la gendarmeria nigerina parla di ventitré morti; un autista dice di aver visto seppellire ventisette corpi. Impossibile sapere quanti fossero i passeggeri all'inizio del viaggio, anche se in questi casi raramente sono meno di un centinaio.
È difficile fare la macabra cronaca dei viaggi senza ritorno dei clandestini del Sahel, morti anonime e nascoste di cui nessuno aveva mai parlato fino all'incidente di maggio - centoquaranta cadaveri ritrovati in un camion (1). Non se ne parla in Niger, paese che gli emigranti attraversano e che è diventato l'epicentro di questo traffico, legale per le autorità e, soprattutto, vitale per uno dei paesi più poveri del mondo, né in Libia, ricca vicina, che si adatta perfettamente all'ambiguità di questa immigrazione tollerata, sollecitata, ma non legalizzata. Un'immigrazione necessaria all'ambizioso progetto del colonnello Muammar Gheddafi di «rinverdire il deserto», ma che si vorrebbe limitare alle province sahariane del sud, dove ci sono da effettuare lavori di valorizzazione in condizioni particolarmente difficili. Ma non se ne parla neppure in Algeria dove, nonostante la severità della repressione, si dirige una parte consistente di questa immigrazione, con l'intenzione di raggiungere, attraverso il Marocco e lo stretto di Gibilterra, l'Europa (2). Né tantomeno in Occidente, che scopre occasionalmente la disperazione di quei giovani che muoiono alle sue porte su fragili zattere.
Per molti migranti il viaggio comincia al di là del deserto del Ténéré, ad Agadez, nel cuore del Niger. La città è diventata il nuovo crocevia migratorio verso il quale convergono quasi tutti i flussi migratori dell'Africa occidentale, compresi quelli di paesi anglofoni come la Nigeria e il Ghana (3). All'ospedale, dove sono accolti i sopravvissuti, si fa fatica ad accettare la situazione: «Gli emigranti, che arrivano sempre più numerosi dal sud, non hanno alcuna idea del deserto e dei suoi pericoli».
È dalla stazione ferroviaria che partono, sotto gli occhi di tutti e davanti alla polizia, i camion con oltre cento persone a bordo.
Viaggi organizzati da sedicenti «agenzie di viaggio», presenti nel paese e regolarmente registrate per trasportare emigranti nei vari paesi del Maghreb, compresa la pericolosa Algeria. Non a caso infatti i viaggi per questo paese non si fanno su camion ma su Toyota pick-up che permettono di sfuggire meglio ai controlli. Anche se cariche come sono, con 25-30 persone costrette a incredibili esercizi di equilibrio, non vanno molto più veloci.
Per il Niger, paese povero, il transito di questi emigranti rappresenta una fonte di redditi e un incentivo per la sua economia tanto più apprezzabile in quanto riguarda la regione a nord, la più povera, teatro della rivolta tuareg che proprio nella miseria ha una delle sue principali spiegazioni. In due anni, dal ritorno della pace nella regione (4), sono nate e fanno fortuna cinque «agenzie di viaggio» specializzate nei viaggi in Libia. I trasportatori pirati proliferano e realizzano grandi guadagni. Ma anche i commercianti non vogliono lasciarsi sfuggire l'occasione e sopra le merci trasportano emigranti per ammortizzare le spese.
Adam, l'autista del nostro camion, un tuareg nero che lavora per conto di un nigerino arabo, racconta come per 15 anni il suo «cassone» ha trasportato miglio a Bilma e a Dirkou, riportando indietro del sale. Dagli anni '90 però il suo padrone, come molti altri, si è riconvertito al commercio con la Libia e al trasporto di emigranti.
«In 15 anni - assicura Adam - ho trasportato sul mio camion più uomini che granelli di sale».
Questi flussi hanno avuto l'effetto di sviluppare tutta una serie di attività specializzate, dalle riparazioni meccaniche all'assistenza ai viaggiatori. Vi si dedicano interi quartieri della città di Agadez, che si tratti del quartiere della stazione dei pullman, della strada di Arlit (la città dell'uranio, ultimo centro abitato sulla pista in direzione dell'algerina Tamanrasset) o dello stesso centro città che, nel pieno cuore del mercato, si dedica quasi esclusivamente al commercio con i candidati al viaggio.
Accanto agli abitanti di Agadez con le loro «agenzie di viaggio», ai camion da trasporto e ai negozi di alimentari per le provviste necessarie alla traversata, si aggira tutta una moltitudine di emigranti.
Forti della loro esperienza, gli abitanti della città si sono riconvertiti nell'offerta di servizi ai loro compatrioti e gestiscono locande, pensioni, negozi di accessori (taniche per l'acqua, torce elettriche, coperte, ecc.) e parrucchieri.
Per le autorità nigerine questa attività «informale» non ha nulla di anormale. La risposta data dal prefetto non è diversa da quella fornita dai responsabili della polizia o della gendarmeria: «È tutto perfettamente legale. Si tratta di cittadini africani che hanno il diritto di transitare per il Niger. Il resto non ci riguarda». Nessuna emigrazione clandestina quindi! Anche se una volta nel sud della Libia gli immigrati, versando un «bakshish» ai funzionari locali possono tutt'al più ottenere un «libretto sanitario», documento obbligatorio per lavorare. Alcuni si fanno fare una carta consolare, la cui utilità è solo quella di poter disporre di un documento che trascrive la loro identità in lingua araba. Hamidou, giovane nigerino di 29 anni, entrato 4 anni fa in Libia con un visto, è un privilegiato. Lavora come domestico presso un alto funzionario libico che, secondo lui, lo «tratta come un figlio». Ma come migliaia di altri africani, entrati con o senza visto, non ha un permesso di soggiorno. Senza la protezione diretta del suo datore di lavoro può essere espulso, come qualunque altro immigrato africano.
Espulsioni dall'Europa L'aspetto precario di questa immigrazione è volutamente mantenuto per garantirne la reversibilità. La Libia ha sempre alternato periodi di apertura a fasi di chiusura; sollecitazioni e poi repressione.
Seguendo il carattere ciclico di tale politica, i controlli della polizia servono a tenere nel sud gli immigrati o a cacciarli in massa, come avviene attualmente.
Kofi, che troneggia nell'ufficio dell'albergo Sahara, ad Agadez, ha lavorato tre anni in Libia. «I più brutti anni della mia vita.
Il razzismo era il nostro pane quotidiano. Un nero non ha nome: è sempre chiamato schiavo, anche dai bambini». Ha conosciuto le retate, la detenzione nei campi ma anche la corruzione per sfuggire alla repressione. Dopo tre anni in cui ha unito il lavoro come bracciante agricolo al commercio al nero di vestiti, ha raccolto abbastanza denaro per lanciarsi nell'avventura europea. Per la maggior parte dei nigeriani, questa meta rimane un sogno proibito.
Kofi è andato di nascosto a Tunisi, dove per 1.500 dollari (1.694,34 euro) si è imbarcato clandestinamente per l'Italia con settanta altre persone. Ma il suo soggiorno europeo è durato solo pochi mesi. Arrestato a Bruxelles, è stato subito rispedito a Lagos. «Un nigeriano su cinque finisce per andare in Europa, soprattutto la gente del sud che ha buoni contatti e non ha nulla da perdere», dice Kofi. Le espulsioni e la repressione violenta da parte libica, con i drammi che ne derivano, non possono nulla contro un flusso migratorio che continua ad aumentare, sotto una pressione che richiama gente sempre più lontana, sempre più a sud. «È impossibile fare fortuna in Africa», ammette Kofi.
«È tutto marcio e non si riesce a fare nulla».
Un brivido scuote Agadez e si somma all'abituale frenesia. Tutti hanno seguito con attenzione il vertice africano di Sirte (il 1° e il 2 marzo 2001) e soprattutto il discorso del colonnello Gheddafi.
La notizia si diffonde in un battibaleno: è stata proclamata l'Unione africana (5). A partire da questo annuncio si sono sviluppate le voci più ottimistiche («Gheddafi ha lanciato un appello al ritorno degli africani espulsi»), riprese e amplificate dai vari «procacciatori», spesso ex emigrati che, in cambio di una commissione, indirizzano i nuovi arrivati alle varie agenzie. Così, a distanza di una o due settimane dal vertice di Sirte, il flusso migratorio, mai esaurito, ricomincia a crescere, soprattutto grazie agli emigrati espulsi dalla Libia o che erano fuggiti di fronte alle violenze. E gli affari riprendono.
Ibrahim, il proprietario di un'agenzia di viaggio, non riesce più a trovare camion disponibili, noleggiati a volte al doppio del prezzo - l'equivalente di circa 4 milioni e mezzo di lire - dai trafficanti di sigarette (la cui prosperità si spiegherebbe con il coinvolgimento di elementi vicini al colonnello Gheddafi). Alla fine Ibrahim riesce a trovarmi un posto su un «camion clandestino», cioè su un veicolo che non appartiene ad alcuna compagnia autorizzata ma a un commerciante tebu (molti dei membri di questa etnia, che gode di grandi facilità di circolazione in Libia, hanno preso la nazionalità libica). Gli emigranti sono caricati sopra le merci, per rendere più redditizio il viaggio. Ci saranno quindi «solo» ottanta passeggeri: dovendo sbrigarsi il commerciante non vuole correre rischi sovraccaricando troppo il camion.
L'imbarco dà sempre luogo a discussioni e dura ore. Domina l'angoscia di non poter salire a bordo, ma anche quella del posto da occupare in questi «camion cattedrali» sovraccarichi di merci e di uomini.
Per quanto «clandestino», il nostro imbarco si fa comunque alla presenza della polizia, più per riscuotere la tangente che per mantenere l'ordine.
Sebbene l'agenzia registri i viaggiatori e paghi una tassa per ognuno di loro, la polizia moltiplica i blocchi dove, con il pretesto dei controlli, gli stranieri sono costretti a pagare. La somma varia tra i mille e i duemila franchi Cfa (tra 1,53 e 3,05 euro). Solo per uscire da Agadez passiamo quattro «blocchi».
Esasperato dall'ennesimo e nuovo posto di blocco, l'autista prende una pista insolita. Ma ben presto siamo raggiunti da poliziotti infuriati, che in particolare fanno scendere i nigeriani e aprono i loro bagagli gridando «droga». Mostrando banconote per far capire che bisogna pagare, un poliziotto passa in mezzo ai passeggeri - rilasciati via via che mettono mano al portafoglio. Io intercedo per un giovane nigeriano che i poliziotti non vogliono far risalire perché può dare solo 500 franchi Cfa (0,76 euro). «Facciamo questo per spirito umanitario», mi dice un poliziotto. «Sappiamo che hanno tutti documenti falsi, ma non vogliamo bloccarli. Perciò, se vogliono passare devono pagare».
L'atteggiamento della popolazione è molto diverso. Quando il nostro camion lascia Agadez è salutato dai molti abitanti che si trovano per strada nel tardo pomeriggio, il momento abituale delle partenze.
La cittadina guarda i suoi emigranti con molta simpatia. È grazie a loro che ha potuto ritrovare quel ruolo di crocevia che aveva un tempo (intorno al Cinquecento), quando era una città prestigiosa di 50mila abitanti e occupava un posto centrale negli scambi trans-sahariani, punto di incontro delle grandi piste carovaniere che collegano il Mediterraneo ai paesi haussa e il Mali all'Egitto. Ironia della storia: oltre all'oro, il traffico riguardava soprattutto la tratta di schiavi.
E in proporzione si portavano allora in Libia e in Algeria tanti schiavi quanti emigranti si trasportano oggi (6). È questo passato di città carovaniera, dove hanno convissuto varie comunità, che spiega un atteggiamento così cordiale? Non si vede praticamente alcuna traccia di intolleranza. Eppure molti emigranti, a corto di denaro, devono prolungare il loro soggiorno ad Agadez e arrangiarsi per cercare di raccogliere la somma necessaria. Per finanziare la continuazione del viaggio molte donne si prostituiscono. Le case chiuse, numerose in questa città di transito, hanno tante straniere quante donne locali.
Così, tra le grida di giubilo della folla, il nostro camion lascia Agadez molleggiandosi dolcemente sotto il peso dei passeggeri appollaiati in equilibrio precario sulle merci. La carrozzeria del veicolo è costellata da una moltitudine di latte di plastica ricoperte di tela di juta che trasportano la riserva di acqua dei passeggeri, largamente superiore a quella necessaria per i quattro giorni normalmente previsti per raggiungere Dirkou, a testimonianza della difficoltà della traversata.
Ma nessuno sembra preoccuparsene. Qui la parola d'ordine è una sola: «fortuna». Si fa appello a essa per il viaggio e per quello che succederà all'arrivo.
Molti però non sono alla loro prima esperienza. Tra di noi c'è Seydou, il miracolato. La sua storia è conosciuta da tutti. Di ritorno dalla Libia nel 1996 con altri 16 emigrati, il camion su cui viaggiava si rompe a 300 chilometri da Agadez. Seydou e un altro targui prendono la decisione di continuare a piedi; conoscono molte storie in cui l'attesa ha avuto conseguenze tragiche. In due giorni fanno quasi 90 chilometri prima di essere raccolti da una pattuglia militare nei dintorni del pozzo dell'Albero del Ténéré, uno dei pochi punti di rifornimento d'acqua in questo immenso deserto. Gli altri moriranno disidratati. «È stato un bene vedere la morte in faccia. Mi ha fatto capire che la Libia aveva fatto di me un morto vivente. In Libia non ero niente, ero uno schiavo, come dicono loro». Seydou non vuole più sentir parlare di questo paese. Non andrà oltre Dirkou dove, approfittando dell'eccezionale sviluppo del traffico, ha aperto un negozio di pezzi di ricambio.
Campi di detenzione libici Anche se hanno rischiato di morire, Khodjo il ghaneano e Rabie il nigerino ripartono per la Libia. La morte l'hanno vista da vicino, ma non nel deserto, bensì a Tripoli e nei suoi dintorni, verso Ezzaouia, dove vive una consistente comunità africana. Hanno già dovuto sopportare tanti soprusi quotidiani, ma «il razzismo non è rappresentato solo dalle prepotenze dei datori di lavoro e dei poliziotti». Nel settembre e nell'ottobre 2000 alcuni libici, in un accesso di xenofobia, hanno massacrato tra 100 e 500 africani (7). Rabie dormiva con una quarantina di suoi compatrioti in quello che chiama un «ghetto» (un casa dormitorio dove si ammucchiano africani di una stessa nazionalità), quando alle tre del mattino una ventina di libici, armati di spranghe di ferro e di pietre, sfondano la porta. Rabie sarà colpito alla testa e porta ancora oggi una ferita ben visibile. Nella fuga lascerà dietro di sé le sue cose, i suoi risparmi (500mila franchi Cfa, 7.200 euro) e l'immagine di un compagno di stanza riverso per terra in una pozza di sangue. Il giorno dopo anche l'ambasciata del Niger, dove si era rifugiato con 150 connazionali, sarà attaccata e bruciata. Ci vorranno ventiquattro ore e altri morti prima che intervenga la polizia portando gli occupanti in pullman in un campo militare, dove Rabie rimarrà quaranta giorni.
Khodjo invece lavorava con un connazionale sulla strada per l'aeroporto, in un cantiere di una casa privata. È lo stesso proprietario che li porta nella sua camionetta, nascosti sotto dei pacchi, in uno dei campi militari. Arrivano così in un campo dove si trovano 6.000 ghaneani e 8.000 nigerini. Lo stesso presidente del Ghana Jerry John Rawlings vi compie una visita furtiva riuscendo a rimpatriare più di cento persone. Khodjo invece dovrà aspettare tre settimane e tornerà con un secondo aereo insieme a 450 connazionali.
Tutti i racconti concordano sull'orrore e sulla violenza degli attacchi, che hanno preso il carattere di veri e propri pogrom con sevizie e linciaggi di ogni genere. Ma le testimonianze sulla vita quotidiana si rivelano altrettanto poco edificanti. Intolleranza e xenofobia si concentrano soprattutto sulle donne, portatrici di una duplice diversità che disturba l'austerità libica. «Per loro quando si è donne e africane si è necessariamente prostitute».
La «caccia alle prostitute», le «portatrici di Aids» è condotta con una tale assiduità da creare un clima di molestie generalizzato.
Rappresentando tra il 15 il 20% del flusso migratorio, le donne sono ancora più «clandestine» degli uomini. Se nubili, come spesso è il caso, le donne falsificano i documenti e si dichiarano sposate. Il minimo, per proteggersi dall'accusa di «prostituzione».
Le testimonianze più sconcertanti riguardano l'esistenza di numerosi campi di detenzione nel sud della Libia. Ne abbiamo raccolte diverse e risalgono addirittura al 1996, ben prima quindi dei massacri del settembre 2000. Più recente è il racconto di quattro giovani nigeriani arrivati il 27 marzo 2001 a Dirkou. Affermano di essere evasi da un campo militare chiamato «Kara» che si trova a 80 chilometri a sud di Gatrone, dove erano detenuti da quattro mesi insieme a migliaia di altri africani. Diversi nomi di campi e di ufficiali ritornano nei racconti di questi testimoni. Il numero delle testimonianze, la loro coerenza e concordanza tendono a confermare l'esistenza di questi campi. Le affermazioni sono in ogni caso numerose sulle sevizie, sulle condizioni carcerarie, sui detenuti che muoiono per le cattive condizioni di vita, sui «dimenticati» e su quelli che sarebbero stati giustiziati per aver cercato di evadere o ribellarsi.
Paradossalmente la Libia, che aspira alla leadership africana, è considerata da tutti gli emigranti dell'Africa nera come un paese «razzista», se non addirittura «schiavista»! Eppure molti, come Rabie e Khodjo, cercano di tornarvi nonostante gli orrori vissuti. «Quando si è già fatto il viaggio una volta non si ha più paura». Del resto, che fare quando tutte le altre possibilità sono precluse?
Un altro passeggero, Boubaker, ce ne fornisce una duplice conferma.
Prima di tutto è diplomato. Gli emigranti che dispongono di un buon livello di istruzione sono sempre più numerosi (un quinto delle persone con cui abbiamo parlato). E poi Boubaker non ha mai avuto l'intenzione di emigrare in Libia. Arrivato nei pressi di Parigi, non ha in mente altro che farvi ritorno. Nonostante la sorpresa non ha esitato un momento, non appena rispedito indietro dall'aeroporto di Charles De Gaulle-Roissy, a riprendere la strada, questa volta seguendo un altro percorso. Gli ci vorrà un po' più di un mese per raccogliere la somma (più modesta questa volta) per rimettersi in cammino.
Agli antipodi di Parigi, in direzione del Fezzan libico, la situazione è molto cambiata: Boubaker è appollaiato sul nostro camion dove si ammucchiano decine di altri passeggeri. Non è ancora riuscito a mandare giù l'espulsione. Era il 20 febbraio. Era in regola, con un visto perfettamente in ordine. Oltre ai turisti europei e ai commercianti africani in transito per Dubai, c'erano anche dodici maliani e tre nigerini su quel volo dell'Air Algerie proveniente da Niamey via Bamako. Saranno tutti espulsi, a eccezione di un nigerino che ha potuto beneficiare dell'intervento personale del console del suo paese. Il motivo: Boubaker non aveva una prenotazione d'albergo.
L'unico posto dove poter raccogliere la somma per tornare è la Libia, l'obiettivo finale non è cambiato: l'Europa, ma questa volta clandestinamente e via mare.
Stesso obiettivo per il senegalese Abdullah, anche lui espulso, ma in questo caso dall'Algeria. Era riuscito ad arrivare clandestinamente fino al nord del Sahara, a Ghardaia. Nascosto con altri compatrioti in attesa di raggiungere Maghnia e il Rif marocchino, è stato catturato in una retata e portato di prigione in prigione fino a Tamanrasset, da dove sarà espulso in direzione di Assamaka, il posto di frontiera nigerino. Tuttavia, l'itinerario dove Abdullah ha fallito, sta diventando una delle vie di passaggio più utilizzate. Nello stesso momento della sua cattura, la stampa algerina rivelava che le reti pakistane che facevano transitare i loro candidati all'emigrazione clandestina in Europa attraverso i paesi dell'est, cominciano a utilizzare il territorio algerino, via Agadez, per sfuggire alla sorveglianza del loro precedente itinerario, ormai troppo conosciuto e sorvegliato (8).
Cinque giorni per arrivare a Dirkou, insieme a tre guasti, alle scottature del sole e, ancora più insopportabile, al freddo pungente della notte che solo la promiscuità aiuta ad attenuare. Lungo le sue strade ortogonali, tutte dedite al commercio, una forte densità di giovani affolla Dirkou.
Simile a quelle città minerarie nate come funghi nel deserto, Dirkou si è estesa, soprattutto negli ultimi cinque anni, proporzionalmente allo sviluppo del filone migratorio.
Ma qui non vi è traccia di quell'euforia che ad Agadez trasmettevano i procacciatori delle «agenzie di viaggio». Gli emigranti si affollano numerosi. A quelli che aspettano di passare, si aggiungono quelli intercettati o espulsi. Da questo momento in poi, sono per lo più dei trasportatori libici ad occuparsi degli emigranti. Sono più rari e hanno raddoppiato le loro tariffe. Il numero di passeggeri per camion non scende più sotto i 160 e si moltiplicano i giri per sfuggire ai controlli.
«Dobbiamo passare» I posti più ricercati sono quelli sulle Toyota degli ex militari di origine ciadiana delle legioni islamiche9 che hanno ottenuto la nazionalità libica. La loro conoscenza del territorio e le complicità di cui godono tra i militari libici ne fanno i trasportatori preferiti.
Ma ma oggi neanche loro vengono. In questo periodo i controlli libici sono particolarmente rigidi. Neanche i camion di sigarette, di solito poco disturbati dai controlli, riescono a passare. Tutta l'«alta società» di Dirkou, i gendarmi, i commercianti e i trasportatori, parlano della notizia del furto di armi in un campo militare libico.
Un gendarme mi conferma che per la loro guida - un ex ribelle tebu integrato nelle strutture miste incaricate della sicurezza nelle zone delle ribellioni tuareg e tebu nel nord del Niger - le Toyota dei ladri si sarebbero dirette verso il Ciad. Si tratterebbe dell'opposizione armata ciadiana. In Libia l'allarme è ai massimi livelli, tanto più che in Ciad sono in corso le elezioni (10). Ma agli emigranti questi problemi non interessano: «Anche se ci fosse la terza guerra mondiale, dobbiamo passare».



note:

* Professore incaricato presso l'Istituto di geografia dell'università di Aix-Marsiglia I, ricercatore presso l'Istituto di ricerca e di studio del mondo arabo e musulmano (Irenam). Le fotografie sono dell'autore.

(1) Le Monde, 20-21 maggio 2001.

(2) Si legga Maurice Lemoine, «Pourquoi les «Pateras» du desespoir? Les naufragés de la migration vers le Nord», Le Monde diplomatique, dicembre 1992.

(3) Nel primo trimestre del 2001 la polizia ha registrato 2.600 passaggi, di cui l'80% verso la Libia. Gli abitanti della Nigeria rappresentano il il 50% circa degli emigranti, quelli del Ghana il 30% e quelli del Niger il 15%. Si valuta intorno a 50mila il numero degli emigranti che cercano di attraversare il deserto del Ténéré per andare in Libia.
Il numero è triplicato rispetto al 1999.

(4) Si legga Philippe Leymarie, «L'Africa occidentale nell'occhio del ciclone», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo 2001.

(5) Si legga Bruno Callies de Salies, «Il ritorno spettacolare della Libia», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2001.

(6) Si legga Aboubacar Adamou, «Agadez et sa région. Contribution à l'étude du Sahel et du Sahara nigériens», Etudes Nigériennes, n.
44, Niamey, 1979; Emmanuel Grégoire, Touaregs du Niger, le destin d'un mythe, Parigi, Khartala, 1999.

(7) Afp (Lagos) 9 ottobre e Afp (Parigi) 13 ottobre 2000; Jeune Afrique, Parigi, 10 ottobre e 26 ottobre 2000.

(8) El Watan, Algeri, 31 marzo 2001.

(9) I ciadiani furono arruolati, spesso con la forza, in queste strutture militari dall'esercito libico durante l'occupazione del Ciad.

(10) Si legga Pierre Conesa, «Le Tchad des crise à répétition», Le Monde diplomatique, maggio 2001.
(Traduzione di A. D. R)


http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm16.01.html


vedi la versione francese:


https://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=756



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