Le tecnologie informatiche in mano al Sud del mondo
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Le tecnologie informatiche in mano al Sud del mondo

 

Dai dati delle Nazioni Unite emerge che beni e servizi per la comunicazione non si producono più in Europa

 

Unità:11-02-2008

di Pietro Greco


Il mondo sta cambiando. Nel 1995 solo il 4% dei servizi informatici esportati in tutto il mondo prevenivano da paesi in via di sviluppo. Dieci anni dopo, nel 2005, la percentuale è salita al 28%. L’India è, ormai, il maggior esportatore al mondo di servizi nel settore delle «information and communication technologies» (ICT). E la Cina è ormai il maggior esportatore al mondo di beni nel settore ICT.

Non c’è dubbio, la produzione delle tecnologie associate alla comunicazione e all’informazione - dai telefoni a internet - si sta rapidamente spostando dal Nord al Sud del mondo. E la dimostrazione è nei dati resi pubblici la settimana scorsa dalla Conferenza delle nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTD) con la distribuzione dell’«Information Economy Report 2007/2008». Non si tratta di dati marginali. Basta pensare che nel 2005 i soli servizi basati sulle tecnologie informatiche e della comunicazione hanno fatto registrare un giro di affari di oltre 1.100 miliardi di dollari: il 50% dello scambio internazionale totale di servizi.


D’altra parte è noto che le tecnologie informatiche e della comunicazione sono uno dei settori di punta dell’high tech, ovvero dei prodotti ad alta intensità di conoscenza aggiunta. La Cina, l’India e una estesa costellazione di stati localizzati soprattutto (ma non solo) nell’Asia continentale del Sud-Est stanno rapidamente passando da un economia che gli economisti chiamano «labour intensive» a un’economia «knowledge intensive», ovvero da un economia che produce beni di bassa e media tecnologia e che richiede un alto numero di lavoratori (poco pagati), a un’economia che produce beni e servizi ad alta tecnologia fondata sulla conoscenza che richiede pochi lavoratori, ma sempre più qualificati (e sempre meglio pagati).
D’altra parte, sostiene il rapporto, c’è una diretta relazione tra la capacità di produrre (e di usare) le nuove tecnologie informatiche e la vocazione alla ricerca scientifica di questi paesi. Cosicché diventa davvero significativo il dato che già nel 2002 nei paesi in via di sviluppo viveva il 29% dei ricercatori di tutto il mondo e che in Asia viveva la maggioranza relativa (il 36,8%) degli uomini di scienza del pianeta.

Non stiamo assistendo a una manifestazione di colonialismo economico in salsa moderna. Non solo, almeno. Il Sud, infatti, non si limita a produrre a basso costo beni e servizi utilizzati dal Nord. Nel 2004 le esportazioni di beni e servizi ICT dal Sud al Sud del mondo, infatti, ammontavano a 410 miliardi di dollari, poco meno delle esportazione Nord-Nord (450 miliardi di dollari).

Certo, restano profonde differenze nell’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche. Nel primo mondo praticamente ogni famiglia è in grado di comunicare via telefono e quasi tutte hanno accesso a Internet. Nei paesi che una volta si chiamavano in via di sviluppo e che oggi dobbiamo definire a economia emergente la penetrazione delle comunicazioni telefoniche non va oltre il 50% e l’accesso a internet non va oltre il 25. Ma il «digital divide», le differenze di accesso alle nuove tecnologie ICT che sono parte decisiva delle nuove e crescenti disuguaglianze nel mondo, è sempre più un problema interno ai singoli paesi e sempre meno un problema tra i paesi.

L’«Information Economy Report 2007/2008» ci pone, dunque, di fonte ad almeno due problemi. Uno riguarda il mondo intero e viene sottolineato dagli esperti delle Nazioni Unite: come cogliere le enormi opportunità offerte dall’economia dell’informazione e delle conoscenza e come evitare che questa economia diventi un fattore di esclusione sociale.


Il secondo è molto più locale. A differenza degli esperti delle Nazioni Unite, l’Europa, come sostiene Jean Pisani-Ferry - l’economista francese che dirige la Fondazione Bruegel (presieduta da Mario Monti) - non si è accorta che il mondo sta cambiando. Da quasi dieci anni l’obiettivo di Lisbona - puntare sull’economia della conoscenza - resta, appunto, un obiettivo e l’unica pietra di paragone resta il Nord America. Sempre più paesi e regioni stanno realizzando il processo di Lisbona e il mondo della conoscenza sta diventando sempre più multipolare. Se non acquisisce consapevolezza piena di questo processo l’Europa, come sostiene l’inglese Christopher Patten, è destinata a perdere definitivamente la sua antica centralità e a incamminarsi lungo la strada del declino.



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