L'ultima eclissi del quinto sole - Il Guggenheim di New York espone quattrocentotrentacinque artefatti della antica civiltà azteca
di MARCO D'ERAMO
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L'ultima eclissi del quinto sole


Il Guggenheim di New York espone quattrocentotrentacinque artefatti della antica civiltà azteca, i cui protagonisti aspiravano a una morte eroica per avere il diritto di trasformarsi in colibrì. Il percorso a spirale della mostra vuole evocare Quetzalcoatl, dio serpente piumato, creatore del mondo insieme a Tezcatlipoca. Molte di queste opere provengono dagli scavi del Tempio Mayor, situato al centro di Tenochtitlán, che Hernan Cortés, prima di distruggerla, descrisse come la città più bella della terra: di lì passava l'asse del mondo





MARCO D'ERAMO


A 2.195 metri sul livello del mare, nella valle del Messico, un complesso di laghi salati si estendeva su un'area grande come tutta la metropoli di Londra. Questo insieme di bacini era noto collettivamente come il Lago della Luna. Nel corso del tempo gli abitanti avevano fatto emergere dalle acque un'isola grande come l'intera Manhattan, su cui sorgeva una delle città più grandi del mondo: nel 1500, con una popolazione stimata tra i 250.000 e i 350.000 abitanti, superava tutte le metropoli europee. E, secondo Hernan Cortés, l'europeo che la distrusse, era di gran lunga la città più bella della terra. Il suo nome era Tenochtitlán ed era collegata alle terre circostanti da tre larghe strade che s'incuneavano tra le acque per più di nove chilometri. Ogni giorno circa 200.000 imbarcazioni incrociavano sul Lago della Luna. E sull'isola si ergevano quasi 60.000 case di stucco chiaro, alcune a un solo piano, altre a più piani: «tutte queste case hanno camere belle e spaziose e incantevoli giardini con varietà di fiori ai piani inferiori e a quelli superiori» (Cortés). La pulizia dei viali spaziosi sbalordiva gli europei: «C'erano anche addetti alla pulizia!» scrisse un osservatore. Di Tenochtitlán - descritta da David Stannard nel suo Olocausto americano. La conquista del Nuovo mondo (Bollati Boringhieri, 2001) - oltre a qualche rudere, rimane solo la testimonianza dei primi e unici europei che la videro e la rasero al suolo nel 1521: appena Hernan Cortés la conquistò, distrusse il palazzo reale e con le pietre degli antichi templi costruì chiese nel segno della croce. Da allora i laghi sono stati interrati e su questa terra sorge la più caotica e inquinata metropoli del pianeta: Città del Messico.




La civiltà che eresse questo tesoro urbanistico subì lo stesso destino della sua capitale: si inabissò in Mictlan, il regno dei morti. È come se non fosse mai esistita, se quei patrimoni di conoscenze, credenze, visioni del mondo, fossero tornati nel nulla da cui un popolo li aveva fatti emergere. Quella azteca è quindi sì una «civiltà sepolta», ma non dal tempo e dalla stratificazione geologica delle civiltà, come nel classico libro di C. W. Ceram dall'omonimo titolo. È stata estinta dagli europei.

Ma è regola che i conquistatori, dopo avere sterminato e annientato i loro predecessori, si dedichino secoli dopo a conservare con cura le poche tracce sfuggite alle distruzioni e ai saccheggi. È il processo per cui i cimeli delle vittime diventano «tesori d'arte». Come quelli esposti fino al 13 febbraio nelle sale del museo Guggenheim di New York, dove 435 artefatti di questa civiltà sono mostrati al pubblico lungo un percorso a spirale che si innalza dal piano terra fino al soffitto nell'ampia rotonda centrale a suo tempo disegnata da Frank Lloyd Wright. La spirale del percorso vuole evocare Quetzalcoatl, dio serpente piumato, creatore del mondo insieme a Tezcatlipoca.



  


Molti artefatti provengono dagli scavi del Tempio Mayor, che si trovava al centro non solo di Tenochtitlán, ma dell'universo, perché era situato all'incrocio dei quattro grandi assi cosmici orizzontali e per esso passava l'Asse del mondo, là dove Tlaticpac, il mondo dei viventi, si intersecava con i tredici piani del mondo celeste e con i nove livelli sottostanti degli inferi: «Tra i templi ce n'è uno, la cui grandezza e magnificenza nessuna lingua umana può descrivere, perché è così enorme che all'interno delle sue mura potrebbe essere costruita un'intera città. Tutto attorno al muro ci sono quartieri elegantissimi con stanze ampie e corridoi dove vivono i preti. Ci sono almeno quaranta torri, tutte tanto alte che, per le più grandi tra esse, scalinate di cinquanta gradini portano alla porzione principale e la più importante di queste torri è più alta della cattedrale di Siviglia» (Cortés).

Il tempio era dedicato principalmente a Huitzilopochtli, signore della guerra e Tlaloc, dio della pioggia, ma come si vede dalla mostra, erano presenti statue e immagini di molte altre divinità.

Già queste sonorità - Tenochtitlán, Tlaticpac, Quetzalcoatl, Tezcatlipoca, Huitzilopochtli, Tlaloc - dovrebbero insinuarci un sospetto su di noi e sul nostro sguardo su questa mostra. Come le sonorità ci sono aliene, così non possiamo prescindere dal curioso destino postumo degli aztechi che (con gli incas) sono diventati a loro insaputa il prototipo da cui nel `900 i romanzieri di fantascienza hanno attinto a piene mani per immaginare civiltà «di un altro mondo», culture extraterrestri.

     


Perciò visitiamo la mostra come guardando i resti di una specie estinta. Su ogni statua, pittura, terracotta, spilla dorata incombe una doppia dimensione metafisica. In primo luogo quella della futilità delle civiltà umane: che intere civiltà scompaiano come se non fossero mai esistite è molto più insopportabile della morte di un singolo individuo, perché nell'edificazione di una civiltà serpeggia un'illusione d'immortalità collettiva. E, in seconda battuta, la dimensione metafisica dell'altro da sé. Non a caso il problema stesso dell'altro fu formulato quando gli europei scoprirono a sé l'America, come racconta quello straordinario libro di Tzvetan Todorov che è appunto La conquista dell'America. Il problema dell'«altro». (Einaudi, 1997).

Per esempio, l'alienità ti viene sbattuta in faccia da dove meno te l'aspetti, dalle vetrinette con stupendi gioielli, opere di oreficeria raffinata, monili d'oro a forma di uccelli dal becco lungo o uno a forma di serpente con la lingua biforcuta di fuori, grandi fino a 10-12 centimetri, esempi di sofisticata lavorazione dei metalli. Poi guardi la didascalia e capisci che quei monili sono delle spille da labbra, ovvero protesi da agganciare alla bocca in modo che sporgessero dalle labbra; altri, come una levissima farfalla aurea, sono gioie da infilare nel naso, e allora cerchi d'immaginare come dovessero apparire i visi dei nobili aztechi con labbra e nasi ornati da quei gioielli (il «volgo» non poteva portare monili minerali).

Ma là dove l'altro azteco diventa davvero un problema è nella rappresentazione delle figure umane. Quando i volti sono parti di tazze, di lumi, bracieri, coppe, quando decorano altri oggetti, i tratti sono rappresentati con realismo, le guance sono arrotondate, le sopracciglia risaltano sopra le palpebre e sotto fronti spaziose, le labbra sono carnose e arcuate. Lo stesso avviene negli ibridi, come il bellissimo Guerriero Aquila il cui volto è racchiuso nel becco che gli fa anche da elmo (le sue gambe hanno speroni ad artiglio): e il viso è bello, è smussato. Persino il demoniaco Mictalantehutli, il signore di Mictlan, il regno dei morti, rappresentato con il torace aperto e il cuore che gli pende all'esterno, è un mostro realistico.

     


Quando invece si passa alle statue vere e proprie, la lavorazione appare più primitiva, nel senso del primitivismo del Novecento. Le divinità e le figure umane hanno nasi grossolani, visi sbozzati in ruvidi parallelepipedi. Ti puoi dire che forse sapevano lavorare la pietra meno bene della creta, ma subito vieni smentito dalle affascinanti statue in pietra di animali. Ecco scimmie assai scimmiesche, cani che sembrano guaire chiedendo cibo o carezze, serpenti voluttuosamente spiraleggianti, aquile impettite, giaguari gattoni pigracci, coyote a bocca aperta, persino cavallette e grilli giganti assi espressivi.

Ti viene da pensare che a quella civiltà gli animali stessero più simpatici degli umani. E non solo e non tanto a causa dei sacrifici umani in cui sul techcatl, la tavola dell'altare, alla vittima immolata veniva con un coltello rituale strappato il cuore che era poi conservato nel cuauhxicalli con il sangue, ambedue cibi sacri degli dei (al Guggenheim sono esposti bacini, coltelli e altari).

Quando nel 1487 fu consacrato il Tempi Mayor, nei quattro giorni di cerimonie furono immolati almeno diecimila prigionieri. E offrire questo sangue e questi cuori era per gli aztechi una questione di assoluta necessità da cui dipendeva la sopravvivenza stessa dell'universo. Infatti gli aztechi credevano di star vivendo nel quinto e ultimo ciclo dell'universo, il cosiddetto Quinto Sole. Alla fine di questo ciclo tutto sarebbe stato inghiottito dalla tenebra eterna e non ci sarebbe stato un Sesto Sole. La distruzione finale dell'universo era perciò ineluttabile, ma poteva essere rinviata: gli aztechi vedevano il sole come un guerriero che combatte una battaglia quotidiana contro le forze delle tenebre. Perciò nutrire il sole con il suo cibo preferito gli permetteva di combattere più a lungo e con più successo l'eterna notte.

Ma non è l'irrilevanza della vita umana a innalzare lo status cosmologico delle bestie. No, che gli animali posseggano qualcosa di superiore agli umani è iscritto ben più in fondo alle credenze azteche, nelle stesso oltretomba. A differenza dell'induismo, dell'islam e del cristianesimo, in cui il destino dopo la morte (reincarnazioni, paradiso, inferno) dipende da come si è vissuto, presso gli aztechi, tranne che per i re che erano dei, il destino ultraterreno di ognuno dipendeva dal come e dal quando la persona era morta.

Il destino più infelice era quello di chi moriva di vecchiaia o per malattia: la sua anima precipitava nel nono e più basso livello degli inferi, nel buio e polveroso Mictlan, dove sarebbe restata fino alla fine dei tempi. Chi invece moriva annegato o fulminato da un lampo andava a Tlalocan, regno del dio della pioggia Tlaloc, dove avrebbe vissuto tra cibo lauto e copiose ricchezze. Le donne che morivano partorendo, cioè dando alla luce futuri guerrieri, si congiungevano al sole per quattro anni, ma poi diventavano terrificanti spiriti che di notte avrebbero per sempre vagato per il mondo. Infine i guerrieri uccisi in battaglia e le vittime immolate in sacrificio si univano agli aiutanti del sole nella sua battaglia quotidiana contro le tenebre. Ma dopo quattro anni si sarebbero trasformati in colibrì o in farfalle.

E oggi che tutta la civiltà azteca è sprofondata in Mictlan, ancora ci chiediamo che razza di popolo fosse quello la cui massima soddisfazione dopo una morte eroica era diventare un colibrì.


http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/05-Gennaio-2005/art88.html



La mostra su: http://www.guggenheim.org/exhibitions/aztecs/index.html



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