Tenere in piedi la baracca - Inchiesta di Massimo Acanfora
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Tenere in piedi la baracca

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Inchiesta di Massimo Acanfora

Gli inquilini delle baracche sono stranieri quasi sempre privi del permesso di soggiorno e di un lavoro in regola. Diverse generazioni di immigrati si sono avvicendate nelle "baraccopoli"; gli ultimi arrivati hanno sostituito chi ha trovato sistemazioni migliori. Romeni, ucraini, moldavi hanno preso il posto di albanesi e magrebini. Difficile valutare quanti siano gli insediamenti e il numero di persone che li abitano, anche perché spesso gli stranieri si disperdono, spazzati via dalle ruspe comunali o private, come a Greco o in Bovisasca. Le baraccopoli sono però almeno una decina solo nell'area urbana di Milano e si può stimare che i loro abitanti siano nell'ordine di molte centinaia. In maggioranza giovani uomini in età lavorativa, ma anche famiglie dell'Est europeo. Le baracche sono costruzioni rudimentali, abbozzate con materiali di recupero: assi da ponteggio, pezzi di lamiera e di ondulato, vecchie persiane e tapparelle ne costituiscono l'ossatura. Il tetto è spesso coperto da grandi pezzature di materiale impermeabile. Le baraccopoli spesso sorgono nelle "terre di mezzo" tra città e campagna, ma anche in piena città. Nei pratoni tra le fabbriche, lungo le tangenziali, le aree prossime o interne a fabbriche dismesse, a fianco di corsi d'acqua, talvolta confuse ai capanni degli orti abusivi. Mancano le più elementari risorse: acqua corrente, elettricità, servizi igienici. I rifiuti si accumulano perché l'azienda di nettezza urbana si rifiuta di ritirarli. Gli sgomberi, che trovano base soprattutto in provvedimenti dell'Asl e interessi dei privati sulle aree in questione, comportano spesso distruzioni indiscriminate e la notifica del decreto di espulsione dall'Italia, l'anticamera di campi come Corelli. Dal '90 Milano ha perso circa mille posti di accoglienza per stranieri. Restano aperti solo due centri comunali, quelli di via Giorgi e via Novara, capaci di un centinaio di posti, riservati peraltro a immigrati in regola.


Capanna doppio affaccio


La collinetta ha da un lato la "vista ferrovia" e dall'altro la "vista cimitero" e un paio di baracche hanno anche il doppio affaccio. Che volere di più? Sul crinale una stradina si incunea tra i piccoli orti abusivi. I depositi di vanghe e recipienti e le reti negano alla vista i terrazzi che digradano da una parte e dall'altra. Accanto alla recinzione che delimita la massicciata ferroviaria tavolacci di legno e oggetti sui quali sembra che sia passata una ruspa. Appunto. Le rovine dell'ultimo sgombero. Alcune baracche, forse collocate su un versante troppo impervio per i cingolati, sono state risparmiate. "Sono venuti il 15 febbraio -racconta Yuri, 27 anni, con un buon italiano- e hanno buttato giù tutto". Sulla porta della sua baracca campeggia il poster di Andrej Shevchenko. Un ucraino che segna senza chiedere permesso (di soggiorno). E invece Yuri e gli altri sette connazionali che vivono con lui devono giocare in difesa. Anche perché il giorno dello sgombero li hanno portati in Questura, consegnandogli il foglio di espulsione, un cartellino rosso secondo il quale in 15 giorni devono volatilizzarsi. Ma né Andrej né Natasha, che striglia i panni in una tinozza, intendono obbedire a quest'arbitro troppo fiscale. "Qui nonostante tutto riusciamo a cavarcela -quasi si scusa Yuri- Io lavoro in un cantiere e anche se i soldi sono pochi sono contento". La vita di tutti i giorni però è scomoda. "L'acqua per cucinare e lavarci andiamo a prenderla alla fontana". Niente elettricità? Un'idea illuminante. "Ci facciamo mettere in carica per poche lire delle vecchie batterie di auto e abbiamo luce per due o tre settimane. Per riscaldarci invece usiamo una cucina a gas con la bombola". Pericoloso ma necessario. Dove siano finiti quelli, alcune decine, a cui han distrutto la baracca, non è dato saperlo. L'insediamento è multietnico, cosa rara nelle baraccopoli, divise di solito per nazionalità. In basso, sotto il livello della strada vive una famiglia di peruviani, in cima alla collinetta invece alcuni magrebini. Ma non solo. "C'è nessuno?" Olga spunta da una verandina dove si sente sfrigolare qualcosa. La sua baracca dà un senso di dignità. E' una delle poche che ha una sorta di finestra di plexiglas che le dà luce. Olga sorride con tutto il metallo che un dentista moldavo le ha regalato e parla piano. "Io e mio marito siamo arrivati in Italia da un anno e tre mesi con un pullman -ricorda-, siamo entrati grazie a un visto turistico e adesso speriamo ci diano il permesso di soggiorno. Abbiamo lasciato i figli in Moldavia". Si illumina mentre racconta di avere un maschio e una femmina. "Mio marito lavora per le cooperative, io riesco a fare qualche lavoretto in casa di italiani". E pensate di far venire qui i vostri bambini? "Chi può dire?", risponde Olga. Poi si scusa e corre dentro, a girare il sugo.


Serata a Campazzino '93


Molte baraccopoli sorgono in estrema periferia, sotto lembi di città che bisogna sollevare: terre di nessuno dietro alle ferrovie, vicino ai cimiteri, negli strappi di campagna tra una fabbrichetta e l'altra, miste agli orti abusivi. Più raramente si ritagliano un angolo di città consacrato all'abbandono. Stasera ne visito una con Fabio Parenti, volontario del Naga (vedi a pagina 5). Fabio ha disegnata una mappa mentale delle baracche ma mi chiede di mantenere il riserbo sui "siti" ancora poco noti, perché negli ultimi tempi è stato dato un giro di vite: "Avevamo censito almeno 11 luoghi con presenza di immigrati, ciascun insediamento aveva una consistenza tra le 40 e le 200 persone. Ma quando sono tornato per concordare quando far venire i medici, alcuni erano stati abbandonati o distrutti: così in gennaio le baracche della Bovisasca, miste agli "ortolani" abusivi. Questo significa che la tendenza è quella di disperdere e allontanare sempre più fuori dall'area urbana immigrati e rom".

Sono le 21.30. Le prime baracche compaiono tra gli alberi di uno sparuto boschetto. Questo insediamento esiste dal 1993, ma gli ultimi arrivi risalgono a un mese fa. "Molti siti -spiega Fabio- hanno un grandissimo turnover. In 15 giorni cambiano completamente gli abitanti". Entriamo nel prato, un grande cerchio circondato da baracche, come in un surreale villaggio vacanze. Chiediamo di Lazar, e veniamo subito accompagnati. Lazar è già a letto ma si alza. Se è scontento di questa resurrezione forzata non lo dà a vedere. Si forma un capannello che discute a lume di candela. Sono tutti uomini albanesi dai 16 ai 50 anni. Facce di lavoratori quasi tutti in nero. C'è Semir, che vive qui dall'inizio, dal 1993, e ha un figlio di un mese che non ha mai visto. "Di che cosa avete bisogno?" "Luce e soprattutto docce", rispondono. Per prendere l'acqua dobbiamo farci due chilometri a piedi". Qualche volta ci laviamo i piedi nella roggia, ma abbiamo paura, ci sono dei topi grandi come gatti". Risate. "E poi abbiamo bisogno che ci danno i documenti che aspettiamo -insiste Semir-. In questura non sanno mai niente". In altri casi l'ottimismo sfiora il paradosso: "Io qui sto bene- sostiene Bogar- Io sono nato in campagna, come tanti altri di noi, sono cresciuto con i piedi nudi". Alla faccia dell'umido che ti penetra nelle ossa. Le canne che escono dai tetti parlano di stufe a legna. E i rischi? "Qualche volta la polizia viene qui -ci dice Lazar- ma non abbiamo paura perché siamo tutti puliti". Fabio conferma: "Chi vive in un'area dismessa o in una baraccopoli non fa attività illegali. Chi delinque spesso vive in casa e ha il permesso di soggiorno, magari comprato". Alcuni sono arrivati come clandestini su un traghetto, altri con i gommoni e i pescherecci. Bogar ha fatto così. "Eravamo 200 su un peschereccio, cacciavamo la gente da un lato all'altro della barca per non affondare".

"E quanto avete pagato?" "Niente, il peschereccio l'abbiamo fregato". Qualcuno ci invita a non fare chiasso. Alcune persone vanno a dormire presto perché si alzano verso le 4 per andare a scaricare frutta e verdura 8 ore per 70 mila lire a giornata.


La fabbrica di speranza


Una porticina di ferro conduce in uno sterpeto ingombro di rifiuti. Fabio è già stato qui e mi conduce su sdrucciolevoli scale ingombre di terra. Le mura in mattoni e il residuo tetto dell'ex-fabbrica sembrano pronte a sgretolarsi. È rimasta integra solo la struttura, come lo scheletro di un cetaceo o di un vascello. Al primo piano, incastonate negli spazi più solidi una decina di baracche, quasi tutte chiuse con il lucchetto. Al secondo piano un ragazzo albanese riposa sulla branda, alla luce di una miracolistica lampadina, appesa al nulla: ci spiega che sono tutti a lavorare. Fabio gli dà appuntamento alla sera stessa. Usciamo camminando in uno stretto corridoio: tutto intorno le tracce dell'uso di questo spazio come toilette. Sulla porta incrociamo due ragazzi del Marocco: uno dei due, saputo che verranno dei medici chiede con lo sguardo triste: "Posso chiedergli se c'è una comunità che può prendermi. Voglio smettere".


Due cuori, un'area dismessa


Hanno subito sgomberi e attentati incendiari, hanno dovuto lasciare abitazioni sfitte, le forze dell'ordine gli hanno distrutto più di una volta roulotte e baracche. La loro storia assomiglia a uno stradario: via De Castillia, via Maroncelli, via Sebenico, via Barzaghi, via Triboniano. Ogni via, uno sgombero. Alla fine alcuni di loro, romeni, molti dei quali di etnia rom, hanno preferito smettere di fare da bersaglio grosso all'intolleranza dei cittadini e dell'amministrazione e si sono dispersi sul territorio. Virginia e Lucas invece sono rimasti uniti e da più di un anno occupano silenziosamente un'ex-fabbrica in una zona popolosa e vivace di Milano. Fa buio quando entriamo nell'androne dell'edificio, due piani di cui il secondo col tetto scoperchiato: "E' la tecnica, illegale, che adotta il Comune quando vuole far andare in rovina una struttura senza spendere troppo di demolizione", ci spiegano. Niente elettricità, niente acqua. Qui vivono una quindicina di persone. La stanza di Virginia e Lucas è pulita e dignitosa, illuminata da una candela. "E la tv?", chiedo. Funziona con un generatore. Paradossi. Un bell'armadio nell'angolo, il letto rifatto e sopra gli orsacchiotti di Viorel. Già Viorel, ha un anno e mezzo, è bellissimo come la sua mamma, sgrana gli occhi e ride."Io non posso lavorare -spiega lei- anche perché il bambino senza permesso di soggiorno non l'accettano al nido". Non è certo un ambiente da bambini: l'umidità che viene da sopra si sta mangiando il soffitto, nonostante la stufa a legna. Lucas ha i capelli bianchi, non tanto per canizie precoce ma per la vernice e i rulli. Lavora quando riesce in attesa del permesso di soggiorno. Trova la voglia di fare spirito: "In Ruanda di sicuro stanno peggio". Ci fanno visitare le altre stanze, la cucina. I panni stesi in un immenso stanzone nella luce fioca sembrano fantasmi. Gli altri abitanti sono nel bergamasco a lavorare in nero nei cantieri. Il soffitto incombe. Ma ancor di più l'ennesimo sgombero. "Tra 20 giorni buttano giù tutto e ci fanno un parcheggio". E non c'è Viorel che tenga


 


6-Apr 2000                                                  Massimo Acanfora


http://www.terre.it/tdm_memoria_index.htm



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